E’ fuga dall’inferno. Inferno di bombe, crolli, macerie sulla carne per chi arranca nella polvere. Di corpi che bruciano dopo aver visto per ventitrè mesi spegnersi ogni tipo di persona: conoscenti e sconosciuti, genitori e fratelli, vecchi e donne, adulti e lattanti rinsecchiti, combattenti, imam, preti della pace. Tsahal ammazza chiunque per ripulire la Striscia. Pulizia etnica. Genocidio. Oggi lo dice pure una commissione indipendente delle Nazioni Unite, immediatamente bollata da Israele come antisemita. Mentre dal cielo droni e missili abbattono gli edifici già spettrali rimasti ancora su, entrano carri e bulldozer a spianare quel che resta coi cannoni e con le lame d’acciaio. Azzerare per purificare e incamerare un territorio impossibile da rivendicare con qualsiasi falsificazione della terra dei padri. Eppure il mondo lascia fare. A cominciare dal Segretario di Stato americano Rubio, giunto per omaggiare Netanyahu, rassicurarlo che sì, anche questo può farlo e l’affare futuro andrà in porto. Mano sul cuore e volo a ritroso. Con trecentocinquantamila in vagabondaggio forzato verso non luoghi, visto che tutta la Striscia è un ammasso di pietre e cemento terremotati, e duecentomila fra morti e feriti, il primo passo del Grande Israele si sta compiendo. Basterà deportare l’altro milione e mezzo di anime in pena. Numeri enormi, certo. Ma fra la morte per affaticamento, denutrizione, svilimento in un’esistenza sinistrata, l’Erode dell’infanzia palestinese e il tycoon suo protettore sono certi che la deportazione verso il Sudan, il deserto libico, qualche isola dell’arcipelago indonesiano verrà accettata da chi ha la certezza di rimanere profugo vita. Il vertice arabo, riunito ieri a Doha, perde il suo tempo a condannare Tel Aviv più per l’attacco alla capitale qatarina, alla funzione mediatrice dell’emiro al-Thani che alla disintegrazione del territorio gazawi, all’ecatombe dei suoi abitanti, alla disgregazione degli stessi costretti a soluzioni di confino socio-politico. Sessanta nazioni, anche potenze regionali di peso coi presidenti - la Turchia di Erdoğan, condanna, stigmatizza il banditismo d’Israele, l’Iran di Pezeshkian, propone di tagliare i legami con quel Paese, l’Egitto di al Sisi minaccia di rivedere gli accordi precedenti, ma già il Pakistan col filo americano Sharif annuncia solidarietà al Qatar più che ai palestinesi, e il vicepresidente indonesiano Raka parla vagamente di sopravvivenza delle nazioni islamiche, dignità dei popoli, santità del diritto internazionale. Parole sacre, concetti giusti però nessuna azione, quasi fosse un’assise dell’Unione Europea, di quelle che annunciano giustizia al cospetto di chi fa del sopruso criminale una ragione esistenziale. Dunque, per chi scappa e vaga, senza rifugio, speranze, luce futura, resta l’abbaglio del sole cocente, il caotico ammasso di povere cose recuperate a rischio d’essere schiacciati sotto gli ennesimi condomini abbattuti. Resta un errare perpetuo fino all’esaurimento di forze. E forse, se non si crepa oggi, una tenda lacera, un giaciglio di polvere, l’ennesima elemosina d’un pasto per poter andare più in là. Sempre comunque in un tratto, centrale o inferiore, dei quaranta chilometri già adesso scippati. In attesa di finire chissà dove tranne nella Palestina che semplicemente Israele tutta, non Netanyahu, ha deciso di sotterrare.
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