lunedì 3 febbraio 2025

Gaza, la forza d’un ritorno

 


La minuta e sentita, lenta e affaticata, polverosa ma orgogliosa marcia per il ritorno verso nord, intrapresa da decine di migliaia di gazesi dal momento del cessate il fuoco è uno dei volti della crisi che prosegue nella dolente Striscia. E’  caduta presto nel dimenticatoio della maggior parte dei media che pure ne avevano parlato, e grazie ai martoriati  operatori locali, avevano mostrato facce stravolte e pure ridenti. E’ stata superata dall’altra attualità: il rilascio cadenzato degli ostaggi israeliani, alcuni sospettosamente accondiscendenti coi carcerieri, altri atterriti dalla folla urlante, trasportati dalle milizie di Hamas verso le auto della Croce Rossa che li consegnavano ai propri cari. Operazione pattuita, barattata col rilascio d’un numero copioso di prigionieri palestinesi, di cui s’è evidenziato il lato propagandistico con cui il Movimento islamista dava sfoggio di divise e armi, controllo del luogo della liberazione e proprio ruolo centrale nella trattativa, con un messaggio esplicito al governo di Tel Aviv che per quindici mesi ha inseguito “l’annientamento” di quest’avversario politico e militare. Invece tutto sembra come prima. Politicamente lo è. Militarmente decisamente meno. Umanamente per niente, perché i lutti sono lacerazioni che durano in eterno. Eppure nel rapporto fra chi imbraccia il kalashnikov e chi tutt’attorno osserva rabbioso o curioso quell’operazione i legami non sono né spezzati né logorati. Anzi, risultano più profondi. Perciò si parla di vittoria palestinese e sconfitta di Netanyahu, una vittoria costata, finora, cinquantamila morti e incertezza sul presente e futuro. Ma tant’è. 

 

Parlare di successo per una marea itinerante fra macerie, che, nei figli e nei vecchi più fragili, può tuttora crepare di fame e freddo, sa di bestemmia della morale. Però bisogna andare oltre l’ammasso di cadaveri, ricercati per un suprematismo politico, ideologico, confessionale, razziale,  un andamento nel quale taluni Stati e regimi si rispecchiano in parte o in tutto. Purtroppo Israele li somma, uno accanto all’altro. La fiducia in un prosieguo esistenziale che nella propria saggezza antica o disperazione o fatalismo o senso della vita questi marciatori  affranti ma non piegati; questa gente che s’accuccia in tendopoli di fortuna messe su a pochi metri dai cumuli di rovine create da chi li detesta; queste famiglie insanguinate e costernate ma felici di rientrare verso casa sebbene la casa sia un ammasso di pietre o cemento, rappresenta la lezione che un cieco Israele si rifiuta di capire. Lo spettro di quel che dice di non fare - un genocidio - di ciò che israeliani ed ebrei non accettano di poter anche solo ascoltare nelle proteste contro i massacri perpetuati, appare essere l’unica folle via per estirpare una massa resistente a ogni bomba, a ogni perdita, a ogni sacrificio. Un popolo che rimane attaccato alla sua terra, accettando di sopravvivere nel nulla e nell’incertezza, nella devastazione proposta e imposta da oppressori incalliti. Volti che sperano di vivere, di sorridere nonostante gli scempi, di rilanciare la bellezza dell’ottimismo, di ricordare che il male non deve essere assoluto. Non può esserlo. Non ha spazio nella Storia, nonostante continui a riaffacciarsi.

venerdì 24 gennaio 2025

Franceschini, il meccanico performante

 


Neanche fosse il team Ferrari, che però ingaggia Hamilton per tornare a vincere, il magma progressista dell’opposizione che sogna ma non segna, come talune squadre in crisi profondissima, trova un manager che veste la tuta blu di meccanico. Lo annuncia La Repubblica, introdotta nell’officina che Dario Franceschini, ha rilevato nel quartiere romano dell’Esquilino per farne il suo ufficio. Officium in latino sta per servizio-dovere-funzione, quello che l’attuale politica tutta, in ogni angolazione, non riesce a fornire presa com’è da ‘lo proprio particulare’ come lo definiva Guicciardini, che le meschinità ataviche del genere umano aveva studiato e messo nero su bianco. Un genere ancor più particolare è il ceto politico, che nelle repubbliche seguite alla prima, sta offrendo il meglio delle meschinità di chi fa d’un servizio uno status personale. Personalissimo. Esteso alla cerchia familiare, clanista e dei cortigiani al seguito. Dario, da figliol prodigo d’un papà che fu democristiano ma almeno partigiano, ha avuto il destino segnato di chi nasce in provincia (Ferrara) e deve comunque arrivare. Lui ci ha messo del suo e già liceale era nell’Associazione Democratica d’ispirazione cattolica, avendo  nel cuore Benigno Zaccagnini e don Primo Mazzolari (partigiano anche lui). Diventa presto amministratore democristiano nella città natale, poi vola nella direziona nazionale del Movimento giovanile Dc. Dopo essersi fatto le ossa in periodici para-partito (Settantasei, Il Confronto, La Discussione) la carriera politica è in ascesa stellare. Certo, nel terremoto di Mani pulite che azzera la ‘prima repubblica’ assiste al crollo della casa di Piazza del Gesù, ma si ritrova  nel Partito Popolare Italiano, e fra correntine dello stesso, segretari di passaggio, Bianco, Marini, Castagnetti, diventa uno spalleggiatore e politico di professione, visto che la laurea in Giurisprudenza che lo fa avvocato civilista, lo impegna per un periodo brevissimo. La Grande Politica gli obnubila lo studio legale, però nel tempo gli offre un posto da Senatore. Ovviamente incontra e vive l’esperienza de L’Ulivo che lo fa Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (1999-2001), quindi il Partito Democratico di cui è lui medesimo il segretario (2007-2009) dopo aver fatto il vice (2009). Quindi diventa Ministro (Rapporti con il Parlamento, 2013), e in tre legislature Ministro per i Beni Culturali trasformato in Cultura tout court (2014-2018, 2019-2021, 2021-2022). Respiriamo: Ecco Homo. Ora il suo genio, rimasto un po’ in disparte nell’ultimo periodo, si prende la briga di elargire consigli utili al futuro politico d’una classe perdente.  Dario lo ribadisce: “Uniti si perde”. Cosa verificabilissima, visto che gli apprendisti stregoni con cui lui stesso ha collaborato nel Pd tali magrezze elettorali possono verificarle di persona. E allora nell’odierna esternazione della citata intervista Franceschini propone all’opposizione un passo antico, forse più efficace dell’unione che non acchiappa né voti né tantomeno la guida del Paese. Fare come la Destra, un’alleanza elettorale, per fare cosa si vedrà. E se c’è chi vuole la guerra e chi no;  chi il nucleare e chi le pale eoliche, non importa. Importante è pigliare i voti, il resto si decide durante il governo. Potrebbe funzionare, poiché agli avversari tutto sommato funziona. Certo, occorre trovare chi la racconta per bene, gli altri hanno l’attrice Meloni. Servirebbe un affabulatore-presidigitatore alla Renzi, che ormai s’è bruciato (infatti Dario gli consiglia d’integrarsi generoso nel progetto). Chi sarà il conducator il nostro non lo dice. Del resto lui ha avuto la folgorazione, illumina, ma non può far tutto. Eppure un’altra cosa la pensa e la dice: estendere l’accordo a Forza Italia che orfana di Berlusconi magari potrebbe risultare meno rigida e fare il salto della quaglia. Non l’ha ancora proposto a Tajani, potrebbe convincerlo piano, piano facendogli fare il Cavallo di Troia senza che se ne accorga. Primo passo: un invito nell’officina romana a rimirare la moto che lui aveva venduto e che amici del cuore hanno recuperato, regalandogliela. I grandi ritorni valgono nella vita e nella politica. Per Franceschini il domani è scritto: basta sostituire Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli con Pd, M5S, Avs,+Europa, Iv e se va bene Azione. E il motore truccato romba.

mercoledì 15 gennaio 2025

Tregua

 


Arriva Trump e impone la tregua, sei settimane per non morire, almeno di bombe e proiettili, non si sa se di freddo e fame. Certo, festeggiano in tanti. A Gaza tutti. Per loro che hanno almeno un ammazzato in ogni famiglia, vedere spuntare il sole senza sentire il risuono spettrale delle case sbriciolare coi corpi dentro è già molto. Continueranno a sentire il ronzio dei droni-spia, ma il blocco di quelli killer è un risultato. Si sposteranno gli sfollati, magari per rivedere da vicino i luoghi fino al 7 ottobre della quotidianità diventati ora lugubri cumuli di morte. Ma ci saranno gli arrivi di prigionieri palestinesi, dicono centinaia, cinquanta per ogni prigioniero israeliano liberato, superando in questo la percentuale applicata da Israel Defences Force per la vendetta ch’era più di trenta cadaveri per ogni kibuzzim ucciso da Hamas nel raid lontano 466 giorni. Sperano anche a Tel Aviv di ritrovare gli ostaggi, alcuni, non tutti. Dovrebbero rientrarne trentatré subito, poi si vedrà per i restanti in una giostra macabra fra chi rientra (sicuramente cinque soldatesse e due bambini) e chi rimane fuori dalla trattativa. Lacrime di gioia dei familiari che riabbracciano i cari, d’angoscia per chi resta a braccia vuote. Volti scuri e malmostosi dei fedeli dei ministri dell’ultradestra che hanno parlato anche contro il proprio premier di ‘patto col demonio’ da rifiutare, perché guerra e sterminio è il proprio programma che non necessita di dettagliarsi sul termine genocidio, una parola che è un’insignificante sottigliezza, visto pensano di riprendersi tutto ciò che occupano e distruggono: Gaza, Cisgiordania, Alture del Golan per il Grande Israele che atterra e sotterra senza consolare il nemico. Lo umilia, lo fiacca, lo azzera fino a cancellarne ogni traccia. Eppure, com’è stato per altri agguati alla gente, per altre operazioni definite guerre, Hamas non è stato distrutto, è comunque l’interlocutore di questa sosta alla morte che può riaccendersi fra poco più d’un mese. Per ora  il patrono dell’accordo, il presidente americano che si gode il potere di far fare a Netanyahu quel che gli comanda, predispone di trovar lui la soluzione a chi deve governare quel che resta di superstiti sfibrati, e se non si può prolungare in eterno il fantasma di Abu Mazen occorrerà inventare un nuovo raìs di comodo, affinché Israele possa essere per un periodo sazio della sua fame di sangue.

lunedì 13 gennaio 2025

Egitto, Mansour il vendicatore

 


C’è un islamista egiziano dal nome comune nel suo Paese, al-Mansour, che ingombra le notti del presidente Sisi. Se anche testate con l’occhio puntato sul medioriente registrano reazioni più o meno dirette alla campagna contro Sisi lanciata da mesi da tal Ahmed al-Mansour, qualche fremito l’uomo forte del Cairo deve averlo. E in effetti in un suo recente intervento ha dischiarato: “Se il vostro presidente non è buono, se c'è sangue sulle sue mani, se ha rubato del denaro, dovreste essere preoccupati per il vostro Paese. Grazie a Dio, nessuno di questi problemi esiste". Più che di timori trattasi di autoassoluzione. Eppure osservatori interni hanno messo in relazione queste frasi al tam-tam sui social lanciato da al-Mansour con l’hashtag: “E’ il tuo turno, dittatore!” slogan che valeva contro Asad e che Mansour ha mutuato contro l’ennesimo satrapo che detesta. Anche perché Ahmed è un egiziano che ben conosce, avendolo vissuto, il trapasso dalle speranze del suo Paese riposte nella cacciata di Mubarak,  l’avvìo d’un governo liberamente eletto nel 2012 (quello guidato da Morsi), le proteste davanti alla moschea Rabaa al-Adawiya dopo la rimozione forzata dell’esecutivo della Fratellanza Musulmana, e la strage del 13 agosto 2013 con oltre un migliaio di manifestanti uccisi uno a uno dalle Forze Armate dirette da Sisi. Negli interventi che posta sul web, al-Mansour sostiene di non aver mai fatto parte della Confraternita, d’essere riparato in Siria per sfuggire alla repressione interna e d’essersi poi unito alle milizie islamiste. Ora che i combattenti di Hayat Tahrir al-Sham hanno conquistato il potere a Damasco, il miliziano d’Egitto afferma ch’è giunta l’ora di spazzare via Sisi. Fin qui la propaganda, però non esplicita come. Che l’odio verso la lobby militare e il presidente in persona siano estremamente sentite nel grande Paese arabo non è una novità. Ma i motivi che lasciano da oltre un decennio al suo posto il generale sono vari. 

 

La protezione internazionale innanzitutto che, nel travagliato contesto locale, l’ha investito del ruolo d’uomo d’ordine facendolo tratto d’unione fra il vecchio laicismo militarista di cui l’Egitto esprime tuttora un modello caduto invece in Libia, Iraq, Siria, le petromonarchie sempre più attive sulla scena finanziario-geopolitica e il furore omicida e razzista d’Israele. In più Sisi continua ad avere dalla sua parte gli egiziani che sopravvivono con la “multinazionale delle Forze Armate” che dà da mangiare a milioni di famiglie i cui membri vestono la divisa o sono occupati nell’apparato statale, oppure lavorano nell’indotto della lobby estesa ad agricoltura, prodotti alimentari, edilizia, manifattura, turismo. Eppure una gran massa, più della metà dei cento milioni di concittadini, è fuori da tale cerchia. Costoro s’arrangiano, vivono come possono, non necessariamente foraggiandosi col traffico del contrabbando di talune aree come nel Sinai, ma stentando davanti a una crisi economica che morde i “non protetti”. Così Mansour si fa paladino del malcontento e serioso e minaccioso, per ora solo dai video, chiede le dimissioni dell’impostore, la liberazione dei 60.000 detenuti, la fine d’un regime. Mossa che pare velleitaria, visto che dal 2016 qualsiasi protesta pacifica è repressa, mentre inefficaci risultavano gli attentati con autobomba nelle maggiori città ed egualmente gli agguati contro i militari nel Sinai. Da anni qualunque azione non ha avuto seguito fra strati popolari oppressi, umiliati, smarriti, impauriti. L’ultimo oppositore noto, Abdel Alaa Fattah, condannato per critiche sui social meno taglienti di quelle del miliziano islamista, ha l’anziana madre in sciopero della fame da oltre cento giorni. Chiede la liberazione del figlio anche al governo britannico, vista la doppia cittadinanza dell’attivista, ma né Sisi né Starmer muovono un dito. Nella contemporaneità politica incrudelita ogni pietà è morta e questo infiamma i pensieri di Mansour e di chi progetta vendette.

martedì 7 gennaio 2025

Siria, cantieri in corso

 


Alle questioni formali, che comunque risultano sostanziali per quel che si trascinano dietro in fatto di diritti e rapporti fra i generi, su cui s’è soffermata la stampa mainstream che commentava la mancata stretta di mano fra Al Jolani-Ahmed Al Sharaa e la ministra degli Esteri tedesca Baerbock, si sommano e delineano aspetti che rivestiranno il fulcro del divenire siriano, necessariamente caratterizzato dalle volontà e i comportamenti dell’attuale ceto dirigente proveniente in toto da Hayat Tahrir al Sham, i miliziani scacciatori di Asad. La visita d’inizio anno della coppia franco-tedesca (accanto alla Baerbock c’era l’omologo francese Barrot) che l’Alta Rappresentante Ue Kallas ha rincorso come fosse una creatura che sua non era, evidenzia per l’ennesima volta gli indirizzi decisionali della politica europea provenienti non dai palazzi di Bruxelles ma da quelli berlinesi e parigini. Mentre gli europei tengono a ribadire princìpi su diritti e minoranze sui quali Al Sharaa ha ascoltato gli interlocutori, Qatar, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Turchia hanno iniziato a trattare questioni banalmente materiali, ma assolutamente sentite dalla gente: ricostruzione edilizia di città e paesi sventrati dal pluridecennio di guerra interna e d’infrastrutture e servizi (centrali energetiche, strade, scuole, ospedali) danneggiati o polverizzati. I Paesi dei petrodollari non sono nuovi al ruolo di paladini della solidarietà all’Islam sunnita povero o disastrato, la Turchia erdoğaniana può mettere a disposizione l’apparato statale di Toki, l’azienda creata dai governi kemalisti ma ampiamente gestita dall’apparato dell’Akp dal momento della presa del potere a inizio del nuovo millennio. Toki è stata al centro di polemiche per una dirigenza votata al sostegno dell’attuale sistema di potere, ovviamente a sua volta ripagata dalle copiose commesse governative, però nel bene e nel male ha avuto un ruolo centrale nel supporto abitativo ai superstiti del tremendo terremoto del febbraio 2023 che ha contato cinquantasettemila vittime.  

 

Una delle ipotesi che il presidente turco caldeggia è la ricollocazione di ex rifugiati nella Siria della transizione. Il piano mira ad alleggerire, almeno in parte, la tensione che i 3,5 milioni di profughi creano da anni nelle metropoli anatoliche, soprattutto a Istanbul e Ankara. Un congruo numero di siriani sfollati dalle aree rurali sarebbero destinati alle terre di confine che fra Afrin-Kobane-Cizre, costituivano i cantoni del cosiddetto Rojava kurdo. Sarà possibile farlo? Se al posto delle precarie tendopoli, dove tuttora si ritrovano accampate decine di migliaia di famiglie, si dovessero profilare abitazioni più o meno strutturate la lusinga ci sarebbe eccome. Ultimo ostacolo alla “pulizia etnico-politica” è quel che resta delle Unità di Protezione del Popolo, le Ypg kurdo-siriane, che in molti punti sono ‘migrate’ a est mentre proseguono la difesa di Kobane. Che la situazione bellica interna non sia pacificata e un tratto di territorio continui a vedere presenze armate a ‘macchia di leopardo’ è confermato da notizie di reiterati scontri fra le due fazioni maggioritarie contrapposte in questi anni: il filo turco Esercito nazionale siriano e le Forze democratiche siriane a trazione kurda. Chi comanda a Manbij e sotto di essa, nelle centinaia di tunnel scavati e percorsi in lungo e in largo da differenti manipoli, non è deciso. Sebbene nel mese di dicembre la rotta del regime di Asad ha rafforzato anche qui la presenza degli arabi sunniti a danno dei kurdi che, secondo i primi soggiogavano la popolazione. I punti di vista continuano a divergere, ognuno ha, avrebbe, le sue ragioni come se dodici anni di sangue versato a fiotti non fossero serviti a guardarsi dentro, comprendere errori e orrori e lavorare per il futuro. La Siria di domani di cui molti parlano, ha il volto dell’Al Sharaa se non misogeno alla maniera dei più estremi talibàn, certamente poco disponibile verso la rappresentanza femminile probabilmente non solo esterna come frau Baerbock. E fra i cantieri della ricostruzione, quelli del ritorno dei fuggiaschi, il cantiere della convivenza etnico-confessionale si presenta come il più ardimentoso e rischioso. Specie se dovrà prevedere pure la ricollocazione dei detenuti jihadisti e dei loro familiari ostili a tutto e tutti.