lunedì 24 marzo 2025

Arresti a mille

 


Sarebbero criminali già incarcerati per furto, droga, violenza fisica e sessuale, diversi dei fermati in queste ore a Istanbul. L’afferma una nota del ministro dell’Interno Ali Yerlikaya che tiene a puntualizzare gli arresti dopo cinque giorni di proteste e scontri attorno ai giardini di Saraçhane: sono 1.133. Il ministro infioretta l’informativa con numeri e dettagli: 123 poliziotti feriti negli incidenti che hanno visto lancio di pietre e molotov, razzi e corpo a corpo coi reparti antisommossa. Poco si sa dei manifestanti feriti che, come in ogni scontro, evitano gli ospedali per non vedersi spediti in prigione, ma ripetute testimonianze hanno aggiunto a quanto le immagini televisive mostravano - uso copioso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, spray urticanti - l’esplosione dei pericolosissimi proiettili di gomma e di granate stordenti. Eppure la piazza non molla. Anche stasera mobilitazione fitta nelle strade di Fatih prossime all’edificio del Comune diventato il simbolo della resistenza del Chp, cui ha preso a offrire sostegno un crescente numero di universitari di vari atenei cittadini, decisi a mobilitarsi contro il sistema erdoğaniano strangolatore di libertà individuale e collettiva. Sono, dunque, loro l’anima candida e ideale che controbatte notizie e insinuazioni governative sulla “feccia” di strada che, come i criminali menzionati da Yerlikaya, metterebbero a soqquadro la metropoli insidiando la sicurezza nazionale. Dopo l’iniziale silenzio e l’arringa ai suoi sostenitori in un hotel Erdoğan ha tuonato a favore di telecamere, venerdì sostenendo la magistratura che ”autonomamente fa il suo mestiere”, oggi politicizzando i rilievi contro l’opposizione: "i responsabili per i nostri agenti feriti negli attacchi di questi giorni, per le nostre moschee e locali con finestre rotte, per la proprietà pubblica danneggiata sono il leader del Chp Özgür Özel e coloro che alimentano l'anarchia di strada". Frattanto İmamoğlu,  da ieri detenuto nel carcere di Silivri, ringrazia tramite i suoi legali chiunque stia contribuendo alla protesta solidale, dagli attivisti repubblicani ai senza partito: “Non c’è in ballo solo la mia libertà ma quella dell’intera Turchia”. I quindici milioni di consensi (tanti ne ha dichiarati il Chp) alla sua candidatura presentata alla primarie per le elezioni del 2028 sono diventati un plebiscito a favore d’un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sostiene chi lo vota; l’esatto contrario della posizione del presidente che, difendendo l’operato dei giudici, afferma come nessuno sia intoccabile e al di sopra della legge. Da qui la necessità dell’inchiesta, valutata invece dall’opposizione come una manovra per impedire a İmamoğlu di proseguire un percorso politico diventato sempre più ambizioso. La piazza continua a ribollire, l’instabilità può diventare sistemica.

domenica 23 marzo 2025

İmamoğlu fra prigione e investitura

 


İmamoğlu va in galera, questo ha deciso il Tribunale di Istanbul, ma non per fiancheggiamento al terrorismo del Pkk, l’accusa più pericolosa perché l’avrebbe fatto immediatamente decadere dalla carica di  sindaco della metropoli. Restano le imputazioni per corruzione e frode,  reati penali con una ricaduta politica visto che l’imputato ha rigettato ogni accusa, definendole infondate e pure immorali, affermando di non aspettarsi nulla di buono da una magistratura pilotata. Da chi lo sanno tutti, specie le decine di migliaia (il Partito Repubblicano ha parlato di mezzo milione) di cittadini in strada solidali col sindaco e infuriati col manovratore. Lui è l’anima della Turchia islamista e tuttora presidente Erdoğan, e vista la piega presa dalla contesa ha alzato la voce difendendo magistrati contestati e poliziotti attaccati dalla piazza tinta di rosso dalle bandiere del Chp. Che poi è il vessillo turco. Una piazza lievitata in queste ore prima e dopo il pronunciamento dei giudici; strabordante oltre i giardini di Saraçhane, dov’è il Municipio reso fortino della resistenza dai sodali di İmamoğlu. E l’immane schieramento di polizia in tenuta antisommossa, che finora ha ‘idratato’ e ‘gasato’ i sostenitori-contestatori cerca di contenere anche possibili scontri con l’elettorato pro Akp che nel quartiere storico di Fatih è di casa. Se i numeri della protesta sono reali non è solo la militanza kemalista a mobilitarsi. Ci sono gli studenti, che già nei giorni passati si autoconvocavano a difesa d’ogni libertà, d’espressione e d’azione, compresse e spesso schiacciate da almeno un decennio, sebbene su bersagli diversi: la gioventù ribelle di Gezi Park, giornalisti, gülenisti, golpisti, kurdi. Un anno via l’altro il Sultano ha cementato il “suo popolo” tramite lo scontro con “attentatori” alla sicurezza della Paese, scippando il simbolo di nazione di cui proprio i kemalisti del Chp si facevano depositari. Islam nazionalista e populista è la ricetta servita fino alle ultime presidenziali vinte contro un candidato di questo partito.

 


Ma non era İmamoğlu, che a detta dei sondaggisti straccerebbe un ormai logoro Erdoğan vittima della supponenza con cui ha fatto il vuoto intorno a sé, privando lo stesso Akp di uomini utili alla conservazione del potere, e impedendo la crescita di nuove leve. Tantoché per le imponderabili presidenziali del 2028 pone fra le soluzioni possibili l’ennesimo ritocco costituzionale che gli allungherebbe il mandato.  Preoccupati dalla piega illiberale sino all’inverosimile che sta caratterizzando la vita politica interna, i turchi della generazione erdoğaniana, quelli nati sotto i suoi governi ma nei quali non si riconoscono e che non vogliono invecchiare sotto di lui, si mobilitano fuori dalle sigle di partito. In questo possono somigliare ai contestatori di Gezi Park, all’epoca nient’affatto ben voluti da tutti i gruppi del Meclisi, fatta eccezione per il Partito della Pace e Democrazia allora con la sigla Bdp, diventata Hdp e ora Dem. I kurdi legalitari che siedono in parlamento, se non vengono arrestati con l’accusa di fiancheggiamento del Pkk. Furono i loro militanti a parteggiare per i çapulcu (saccheggiatori) come Erdoğan definiva i difensori del parco Gezi, creando dissapori nello stesso Akp nel quale l’ex vice Şener si scagliò contro la linea dura voluta dall’allora premier, seguito dal presidente del Partito della Giustizia Gül. Anche quando le pallottole di gomma e i lacrimogeni mietevano vittime (a fine protesta si contarono undici morti e oltre ottomila fra feriti e intossicati) i kemalisti di professione parlamentare  speravano che il governo cadesse, ma non sporcavano le mani con le barricate. Stavolta sarà diverso? Intanto l’apparato del Chp, per rafforzare il sostegno al sindaco incarcerato, ha disposto la sua unica candidatura alle primarie indette per oggi che s’annunciano partecipatissime. Una gran quantità di istanbulioti si sta recando nei centri disposti dal Partito Repubblicano per deporre la scheda nell’urna. La resa dei conti  fra İmamoğlu ed Erdoğan è iniziata.

venerdì 21 marzo 2025

Saraçhane e Gezi Park due Istanbul lontane

 


Se i giardini Saraçhane, nello storico quartiere di Fatih, diventeranno una nuova Gezi Park, a distanza di dodici anni dalla rivolta che ha creato una frattura fra un pezzo della città-simbolo e Recep Tayyip Erdoğan suo cittadino più illustre e sindaco e premier e presidente, si vedrà. Anche quella protesta partì in sordina, incendiandosi lungo un percorso temporale di settimane e finendo nel sangue d’una lacerante repressione. Da allora iniziava ad acuirsi il divario fra un Islam politico reinventato proprio dal suo figlio di Kasimpaşa e il kemalismo che l’aveva persino soffocato. Anche allora magistrati, su imbeccata di militari e  politici, decidevano cosa si poteva dire e fare quando Erdoğan paragonò moschee e caserme, minareti e baionette, fedeli e soldati – riprendendo peraltro versi del poeta Gökalp – finì in galera, ma non per molto. Il Novecento stava per chiudere il suo ciclo e l’uomo nuovo della Turchia che, con quella condanna, avrebbe potuto abbandonare la politica ritrovò a breve tutte le opportunità, moltiplicandole per mille. Potrebbe, dunque, ben sperare l’attuale sindaco Ekrem  İmamoğlu incarcerato mercoledì con accuse più materiali d’un reato ideologico, sebbene i suoi difensori e i fratelli del partito repubblicano erede del kemalismo storico, parlino di persecuzione ideale contro un avversario reale. L’unico,  sostengono, in grado di mettere in ginocchio l’attuale presidente e il suo sistema alle elezioni del 2028. Che, però, sono lontane abbastanza per far sì che i fatti interni al Paese: la svalutazione pazzesca della lira, la girandola di ministri economici in disaccordo con l’eterodossa “cura” voluta dal presidente in persona, i ripetuti tagli dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un carovita angosciante,  risultino meno spiazzanti rispetto al ruolo internazionale giocato dalla Turchia erdoğaniana sullo scacchiere regionale e globale.

L’elezione che avrebbe dovuto scalzare Erdoğan dal potere nel maggio 2023, in fondo gli ha fatto trovare consensi più grazie al suo pragmatismo nazionale e internazionale che a seguito dell’inadeguatezza dell’alternativa, l’allora leader del Chp Kılıçdaroğlu. Ma era il programmino repubblicano a difettare sebbene ci sia chi pensa che col rampante e determinato İmamoğlu sarebbe stata un’altra storia. I suoi sostenitori che in queste ore nel recinto di Saraçhane, ma pure ad Ankara, Izmir e nell’originario distretto della Trebisonda urlano invettive su polizia, giudici e governo in carica, imprimono sui cartelli la speranza nel conducador. Lo definiscono Cesare, lo vogliono opporre al Sultano, quasi servisse un uomo forte contro l’uomo degli strappi e della forza. In questo la piazza Saraçhane dista da quella di Gezi Park non solo per collocazione urbana nella metropoli sul Bosforo. E’ l’elemento ideale che le distingue. Per il sindaco indagato c’è un sostegno di partito, magari anche studentesco, e forse milioni di istanbulioti arriveranno. A Gezi c’era la gioventù ribelle e senza partito. Anarchici e bohémienne, mamme ambientaliste e inquilini di d’una Galata sempre più snaturata dall’affarismo, comunisti non ancora arrestati e i giovani turchi del Terzo Millennio molto diversi da chi sotto quel nome dette avvìo al nazionalismo razzista. Peraltro nelle enclavi cittadine dove l’islamismo non è di moda, da quelle che amoreggiano fra Karaköy e Üsküdar, l’entusiasmo per İmamoğlu non è scontato. Gli alternativi lo valutano come un’altra faccia del sistema, targato con sigla politica differente, ma non certo un innovatore in fatto di morale, diritti, visione del mondo. Lo scontro ufficiale ha ruotato attorno alle dichiarazioni del capo del Chp Özel: "İmamoğlu ama il suo Paese e la sua gente; non è un ladro o un terrorista", cui il ministro della Giustizia Tunç risponde: "Chi occupa posizioni di responsabilità deve mostrare maggiore attenzione nelle dichiarazioni". 

 

Per ora, secondo la legge vigente, la certezza è che entro quattro giorni (dunque domani) i fermati dovranno essere rilasciati o incriminati. Su İmamoğlu pesano sette imputazioni. La corruzione starebbe alla base delle tangenti richieste a mezzo dell’attività di Medya A.Ş. che così si descrive sul suo sito ufficiale “Filiale della municipalità metropolitana di Istanbul fondata nel 2011, siamo tra i pionieri del settore dell'editoria digitale con i nostri canali pubblicitari e promozionali interni ed esterni dislocati in ogni angolo della città… Siamo un'agenzia di comunicazione digitale a 360°. Raggiungiamo milioni di cittadini sulle strade, nelle piazze e sui mezzi pubblici, stabilendo una comunicazione ininterrotta con gli abitanti nelle fermate degli autobus, rastrelliere fisse, mega-luci e i nostri schermi digitali dislocati in tutta la città. In IBB TV, nelle aree di nostra proprietà, come gli schermi esterni, o nei media che utilizziamo come strumenti di trasmissione, come i social media e Modyo TV. Produciamo contenuti in diversi formati sugli investimenti cittadini dell'IMM, sulle attività culturali e artistiche, sugli sviluppi tecnologici e sulle attività sportive, e trasmettiamo in diretta le riunioni del Consiglio e le gare d'appalto dell'IMM tramite IMM TV”. Insomma un colosso, addentato dal molosso giudiziario che gli attribuisce nel percorso di assegnazione di gare d’appalto la richiesta di tangenti alle varie imprese. Il sindaco sarebbe in combutta con tutto quest’apparato. Altre accuse, ovviamente da provare, comprendono la coercizione di uomini d'affari a versare contributi finanziari illegali, il coinvolgimento in transazioni fraudolente tramite persone autorizzate a riciclare fondi ottenuti illegalmente e l'utilizzo delle cosiddette "riserve segrete di denaro contante" gestiti da intermediari per facilitare i trasferimenti e le riscossioni di denaro.

 

Un'altra imputazione riguarda la manipolazione sistematica delle offerte comunali relative agli spazi pubblicitari esterni. I procuratori sostengono che le società affiliate hanno istituito società di copertura per fingere transazioni commerciali con filiali municipali, gonfiando i valori contrattuali per giustificare guadagni illeciti sempre attraverso tangenti. E ancora: frode su vasta scala che coinvolgeva progetti municipali inventati e inesistenti destinati unicamente a nascondere l'appropriazione indebita di fondi pubblici. I magistrati affermano che i dati personali appartenenti ai residenti di Istanbul sono stati acquisiti illegalmente e sfruttati per garantire la continuità operativa della rete criminale. Almeno in questa serie di accuse ce n’è per confermare la detenzione. Ci s’aggiunge anche il presunto coinvolgimento nel favorire l'organizzazione terroristica Pkk. La procura dice che il sindaco, consapevolmente e volontariamente, ha partecipato a un "consenso urbano", una collaborazione elettorale strategica tra il Chp e il partito pro kurdo Dem, attuato nelle amministrative dello scorso anno. E poi che simpatizzanti e affiliati dell'organizzazione terroristica siano stati collocati all’interno dei municipi. Da domani gli scenari possibili per l’imputato più illustre potrebbero risultare: 1) assoluzione o rilascio in attesa del processo. İmamoğlu potrebbe riprendere le sue funzioni di sindaco senza interferenze immediate. 2) Sebbene liberato, il Ministero dell'Interno potrebbe rimuoverlo dall'incarico, citando un'indagine in corso sul terrorismo e sostituirlo con un fiduciario governativo. 2) Se arrestato per accuse di terrorismo, il Ministero dell'Interno assegnerebbe un fiduciario per sostituirlo. 3) Quest’imputazione lo farebbe decadere  anche se venisse inizialmente liberato. 4) Se fosse formalmente arrestato per aver guidato un'organizzazione criminale con accuse di corruzione, il comunale si riunirebbe per eleggere un nuovo sindaco, senza una persona nominata dal governo.

mercoledì 19 marzo 2025

Turchia, caccia al guastatore

 


Con tono dimesso, qualche osservatore l’ha definito compassato, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu postava stamani un messaggio vocale sui social. Diceva che si stava recando in un distretto di polizia perché raggiunto da un mandato di cattura. Il commissariato si trova a Fatih, quartiere storico della metropoli e anche agglomerato dove maggiore è la presenza dell’elettorato dell’Akp il partito del presidente Erdoğan. Il Convitato di pietra di quest’arresto, operato da una magistratura particolarmente ossequiosa col potere vigente poiché da circa un decennio ha subìto il repulisti con cui l’uomo della Turchia islamista ha purgato l’apparato statale dopo il tentato golpe del 2016. Il fermo  del candidato repubblicano per le future elezioni presidenziali ha di per sé sapore di colpo di mano, almeno così sostiene l’opposizione all’attuale governo incardinato sull’alleanza fra Akp e i nazionalisti del Mhp. Infatti da stamane sono vietate per quattro giorni manifestazioni di protesta sull’accaduto o di semplice sostegno al sindaco, gli stessi collegamenti Internet hanno iniziato a disconnettersi. Le accuse rivolte alla nuova leva del Chp, figura di primo piano dopo l’uscita di scena del segretario accentratore Kılıçdaroğlu, sconfitto alle presidenziali del 2023, sono due: aver tessuto una rete corruttiva sugli appalti che la prima città turca stabilisce per i servizi rivolti a oltre sedici milioni di cittadini e, questione ben più cocente, avere rapporti col gruppo del Pkk, considerato terrorista dal governo di Ankara e pure da Washington e Bruxelles. İmamoğlu non è il solo a ricevere la prima accusa, che riguarderebbe anche la sua precedente funzione direttiva a Beylikdüzü, periferia ovest di Istanbul.  L’accompagnano circa un centinaio fra amministratori e funzionari locali delle varie e popolose aree in cui è divisa la metropoli fra i due rami europei e quello asiatico, un territorio sterminato che nel ventennio di governo dell’Akp ha conosciuto un macroscopico incremento edilizio e un’implementazione di opere pubbliche e private.

 


Su queste dal 2019 è subentrata, almeno in parte, la direzione del pupillo repubblicano, dopo oltre due decenni di guida islamista che nel 1994 aveva visto lo stesso Erdoğan partire da quell’incarico. Più che vendetta a posteriori, İmamoğlu, già nel 2022 condannato a due anni di reclusione per aver insultato i componenti del Supremo Consiglio Elettorale, si trova ostacolato a mezzo giuridico dal proseguimento lineare della carriera politica, visto che rappresenta un pericolo per l’attuale asse del potere turco. Gli analisti lo darebbero vincitore alle presidenziali del 2028, interdette al presidente uscente per somma di mandati. E non vedendo all’orizzonte dell’attuale ceto di governo un candidato di peso e, ancor più, per il delirio di onnipotente presenza che lo caratterizza, Erdoğan pensa a un ennesimo ritocco costituzionale, diciamo “alla russa”. Naturalmente rivolto a sé stesso. In quest’intreccio rientra il corteggiamento del partito filo kurdo Dem, contattato nello scambio dei colloqui di riavvicinamento alla comunità kurda attraverso il leader-prigioniero Abdullah Ocalan. I bistrattati, dal sistema turco, deputati kurdi, compresi quelli tuttora incarcerati per presunto fiancheggiamento al Partito Kurdo dei Lavoratori, se l’accordo di “normalizzazione“ passasse, producendo il disarmo delle fila dei militanti del Pkk e il riconoscimento dell’autonomia amministrativa dei territori del sud est anatolico, potrebbe prevedere anche quei voti alla riforma costituzionale necessari a un proseguimento della presidenza Erdoğan fino alla soglia ottuagenaria. Niente di straordinario in un mondo dove la classe dirigente invecchia sulle proprie cadreghe trasformate in troni. Sempre che non si venga disturbati da qualche İmamoğlu guastatore.

martedì 18 marzo 2025

Genocidio lento

 


Israele, non Netanyahu, ne ammazza quattrocento in un colpo solo. Non gliene bastavano cinquantamila, che invece sono molti di più, perché di tanti i cadaveri non sono conteggiati. Si stanno decomponendo sotto i pilastri di cemento abbattuti coi supercolpi, simili a quello di stanotte. Armi letali, armi bestiali come chi le usa, chi le comanda, chi le giustifica, chi a casa nostra e nel mondo - fra le anime belle del politicamente corretto e oggettivamente corrotto - ha venduto l’anima all’unico Dio riconosciuto: lo sterminio. Parlano degli attuali demoni della geopolitica i Soloni della comunicazione, omettendo, tralasciando, dimenticando volontariamente l’infinita scia di sangue dietro cui si parano tanti ‘incorporati’ della notizia. Scrivendo e descrivendo tutto il bene della Civiltà e tutto il male del Terrore. Categorie che stanno fra i civili d’Israele, parenti delle vittime del raid del 7 ottobre e fra i civili della Striscia resi incivili da chi decide per loro di combattere, tenendoli bloccati fra le macerie, rendendoli presto cadaveri. Le bombe piovono sui diseredati di Gaza: la colpa è di Hamas che non restituisce i prigionieri. Davanti a una telecamera un padre, né giovane né vecchio, urla: Ci stanno massacrando, cosa fa il mondo? E’ un già sentito, un già vissuto. Il mondo non vuole fare nulla, chi è debole deve soccombere. Non ha speranze. Con l’ipocrisia che gli appartiene, il mondo che comanda il mondo decide dove spegnere le bocche di fuoco, chi salvare e quando, dopo aver bruciato vite per un po’. In quella fetta di Terra ch’era la Palestina, questa formula non vale. Si vuole continuare a sterminare, non c’è America rossa o blu a differenziare. C’è il nero d’Israele, da ottant’anni padrone di buio e lutti.


   

mercoledì 12 marzo 2025

Siria ultimo sangue

 


Prevale la penna ma rispunta il fucile. L’ultima settimana della Siria di al-Sharaa è stata un intreccio di futuro e passato che ha portato il governo islamista di Damasco a proseguire la via dell’annunciata ricomposizione del Paese con la mano tesa e il pugno duro. Durissimo. L’accordo firmato direttamente dal presidente ad interim col responsabile delle milizie siriano-democratiche, il kurdo Mazlum Kobane e quello stipulato con la comunità drusa, tengono fede al passo promesso tre mesi fa dall’ex leader del gruppo Tahrir al-Sham quando entrava nei palazzi che furono degli Asad. Ricomporre una nazione che è multi etnica e multi confessionale per poterla rilanciare in un quadro di sicurezza e pacificazione interna. Questo quadro beato e fiducioso stride coi tre giorni di fuoco e sangue vissuti sulla costa occidentale fra Latakia e Tartus. I morti, anche civili, superano il migliaio, appartengono a famiglie alawite bersaglio dei reparti dell’attuale governo che avrebbe così vendicato l’assalto di giovedì scorso a un ‘nucleo di sicurezza’ da parte di presunti rivoltosi. Questi ribelli altro non sono che appartenenti al regime di Bashar che, come ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica, il vicario apostolico di Aleppo Hanna Jallouf, rispondevano a un tentativo di colpo di mano di Maher Asad. Dall’Iraq l’intransigente fratello dirigeva un complotto di ciò che resta d’un esercito dissolto. Volponi come il generale Dallah sapevano cosa fare, questa è la tesi, creare un ‘Comitato per la liberazione della Siria’ nei luoghi dove risiede la comunità alawita fedele agli Asad. Vera o ipotetica questa panoramica ha avuto il tragico epilogo di tre giorni di repressione violenta abbattutasi su chi c’entrava e chi no. Accuse agli armati di al-Sharaa riferiscono di esecuzioni a sangue freddo di donne e minori, una carneficina. Ma come negli anni della “macelleria” ogni parte sottolinea quel che gli interessa. E dunque gli attuali ribelli (che fino a novembre erano lealisti) avevano sequestrato una pattuglia  e sgozzato gli appartenenti cavandogli gli occhi. 

 

Quindi la furia reattiva. A far stragi non c’erano solo i manipoli di al-Sharaa ma jihadisti uiguri tuttora presenti sul territorio. Nel parapiglia, fra le ronde sanguinarie son finiti anche cristiani ch’erano per via, un lago di sangue che non fa bene al presunto desiderio di riconciliazione. Come placare in quei luoghi l’odio plurimillenario fra sunniti e alawiti è un’incognita enorme. Il cambio di regime quasi senza colpo ferire del dicembre scorso aveva dell’irreale; certo tutto avveniva nel cimitero diffuso che in quattordici anni aveva sotterrato mezzo milione di cadaveri. E dopo tanta morte stupisce come l’istinto sanguinario persista. Ma c’è chi sostiene che questi giorni siano stati un colpo di coda proprio di quegli elementi del clan Asad che osservano il Paese solo con gli occhi assetati della guerra. Girano notizie che adesso anche Maher sia riparato in Russia. E sulla Siria che al-Sharaa, abbandonata a suo dire la jihad, vuole rasserenare riportando in patria la diaspora dei concittadini, cercando fondi per una vita normale arricchita di strade, case, scuole, ospedali per tutti, kurdi, drusi e alawiti compresi, pesa l’ombra di chi fomentava i conflitti. Pesi massimi e medi, globali e regionali. Perciò serviranno nuovi tavoli dove dibattere e concordare accordi. Se i buoni uffici verso i drusi del sud-ovest piacciono a Israele che s’era già elevato a loro paladino, avanzando oltremodo sulle alture del Golan occupato da decenni, l’autonomia del nord-est pattuita coi kurdi siriano-democratici può scontentare il governo turco. Ankara sui confini meridionali non vuole reparti armati, ora che con Öcalan si parla di addio alle armi, le misure dovranno essere diverse. Il rebus per un al-Sharaa in giacca e cravatta è assai più complicato dei giorni della mimetica che molti suoi fedelissimi non vogliono dismettere.

domenica 9 marzo 2025

Mohammad, cronache da un “Paese sicuro”

 


“Sono in galera anche se i miei tempi (di condanna, ndr) sembrano diversi da quelli di altri detenuti. Non ho ricevuto la grazia mentre scontavo una pena con l'accusa di diffusione di notizie false. Le indagini, la telecamera, il telefono cellulare sono stati usati contro di me. Sono stato arrestato all'interno di un tribunale dove seguivo la sessione d’un processo. Un procuratore e un avvocato corrotto mi hanno teso un'imboscata. Avevo quindici minuti di tempo e sarei potuto fuggire. Ma ero controllato a vista, la Forza di Sicurezza Nazionale è arrivata mentre sostavo nel corridoio aspettando la decisione del giudice per poter uscire, finire il mio lavoro e dare seguito al resto dell’inchiesta”.

“Mi hanno fermato e ammanettato davanti agli avvocati e alle famiglie degli imputati. L’inchiesta era partita nelle settimane precedenti, riguardava la collusione della polizia di Mansour con spacciatori e criminali comuni. Avevo raccolto parecchie informazioni, prove, dati, immagini su agenti coinvolti. Sono caduto nelle mani di due di loro che hanno minacciato di uccidermi. Uno mi ha puntato l’arma in faccia, premendo la canna sul mio sopracciglio gridava: "Posso ucciderti adesso. Avrò molti testimoni sul tuo tentativo di assaltare la stazione di polizia, nessuno sarà in grado di ritenerci responsabili qualunque cosa accada”.

E’ la testimonianza cruda e reale con cui Mohammad (nome di fantasia a tutela della sua incolumità) racconta - ora ch’è fuori di prigione - la sequela di oppressioni, vessazioni, carcerazioni, abusi giuridici, fisici, torture ricevute nel corso degli anni nel  Governatorato egiziano d’origine, per avere la passione della scrittura di cronaca con cui seguiva per alcune testate giornalistiche vicende di vario genere. 

 

“Sabato 28 giugno 2014, dalle dodici fino alle diciotto sono stato torturato. Mi hanno bendato, picchiato duramente, minacciato di violentarmi, messo su un letto elettrico e steso su una bottiglia di vetro sottile. Mi hanno ‘fulminato’ più d’una volta e c'era il vicedirettore della “Dakahlia Security”. Aspettava che il trattamento finisse. Successivamente l'ufficiale della Sicurezza Nazionale ha terminato e mi ha restituito agli agenti investigativi che durante quel periodo avevano poteri illimitati. Hanno portato a termine le indagini, hanno minacciato me e la mia famiglia, dicevano che non sarei più uscito di galera. Non sono rimasto in silenzio, ho rivendicato i miei diritti. Mi rispondevano: la legge che hai studiato è diversa da quella che applichiamo. Ho accusato gli investigatori di avermi torturato, ho chiesto di sporgere denuncia, il pubblico ministero s’è rifiutato di mettere a verbale le accuse. Dopo due settimane di indagini sono stato deferito al Tribunale per i reati minori, alcune delle accuse attribuitemi (creazione d’un gruppo mediatico, incitamento a rovesciare la Costituzione, diffamazione del Presidente) erano cadute. E’ stata mantenuta quella di pubblicazione di notizie false. Dopo quattro mesi di dibattimento sono stato punito con due anni di reclusione e la confisca dei documenti. Ho scontato la pena fra condannati per omicidio, aggressione al pudore, stupro, spaccio e furto. Ho conosciuto la prigione pubblica di Mansour, quella generale di Tanta, quella di massima sicurezza Skorpion 2. Prigioni nel vero senso della parola. Un mondo parallelo del male con cani poliziotto, pestaggi, minacce di morte, negazione di visite esterne, privazione di cibo, acqua, aria, medicine e cure. Era davvero un altro mondo. Buio. Angoscioso. Abbandonato. Prima della scarcerazione sono stato avvicinato da due agenti che m’intimavano di stare lontano da vicende politiche. Potevo vivere come volevo, ma avrei dovuto evitare politica e giornalismo”.

 

“Invece ho continuato col giornalismo e dopo un paio d’anni sono stato nuovamente arrestato. Le condizioni sono peggiorate, le indagini erano più violente. Sono stato torturato con l'elettricità, il mio corpo veniva bruciato con benzina e scosse elettriche. Uno dei carcerieri, precedentemente condannato in uno dei casi su cui avevo indagato, mi ha bruciato la schiena col fuoco, gli effetti perdurano. Fra le inchieste realizzate c’erano sparizioni forzate di cittadini e nel 2018 l'incidente della chiesa del monastero di Anba Samuel nel governatorato di Minya (nove pellegrini copti uccisi e dodici feriti da uomini mascherati mai identificati, ndr). In seguito gli investigatori sospettavano che avessi reclutato militari e poliziotti, non era vero ma la cosa mi è costata un ulteriore fermo e torture. Ho addirittura subìto denunce da alcuni colleghi del quotidiano Al-Masryoon, la direzione del giornale non si è mostrata solidale nei miei confronti. Purtroppo ho combattuto questa battaglia in completa solitudine. Un periodo decisamente peggiore rispetto al precedente. Sono stato rilasciato dopo quattro anni, dopo averne trascorso sei fra carceri, stazioni di polizia e centri di detenzione illegali. Sono stato allontanato arbitrariamente dall'università che non ha accettato una reiscrizione dopo avermi annullato l'esame sostenuto in carcere, sono stato privato dei diritti politici, compreso il voto alle elezioni per più di undici anni. Mi ritengo un uomo di sinistra che ha praticato il giornalismo in modo trasparente. Avevo dozzine di opportunità e non ho inseguito guadagni rapidi. Ho sempre cercato di sostenere le cause degli oppressi per ragioni politiche e sociali, ho praticato il mio lavoro in maniera professionale e onesta senza rincorrere la fama. Non cercavo ruoli da protagonista. Non ho mai dimenticato Regeni, che pensava di poter passare di qui sano e salvo, né dimenticavo ragazze e ragazzi sottoposti agli atti più orribili all'interno di celle di sicurezza. Purtroppo noi in Egitto non abbiamo alcun diritto. Tuttora viviamo sospesi. E’ bene che il mondo sappia”. Fra i sospesi continua il suo calvario carcerario Alaa Abd el-Fattah entrato, come la madre, in sciopero della fame.

venerdì 7 marzo 2025

Piano Gaza, un futuro onirico

 

 

Novanta pagine di piano per il futuro, scritto dall’Egitto e avallato dalla Lega Araba riunita al Cairo, che parla della Striscia di Gaza senza menzionare Hamas. E’ l’alternativa al resort trumpiano che molla i gazawi altrove, dove non si sa, tenendone un nucleo come servitori in loco. Invece l’Egitto e più che altro gli Emirati Arabi Uniti stanziano oltre 50 miliardi di dollari per rifare alloggi e delineare i contorni amministrativi in cui non c’è traccia di cariche per il Movimento islamista. Tutto andrebbe nelle mani dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da Hamas lasciano dire, non si mostrano interessati a cariche ufficiali; a controllare quel che si muove nella Striscia sì, come hanno fatto negli ultimi diciotto anni, attacchi israeliani permettendo. Nei particolari ciò che si è discusso al Cairo prevede, ad accordo avvenuto, un semestre di gestione tecnica dei luoghi visionata dall’Autorità Nazionale Palestinese, poi interverrebbero i partiti. Che lascia intuire come Fatah, Hamas e Jihad palestinese dovrebbero definire la gestione di luoghi disastrati, in cui i lavori, non solo per gli edifici ma per le infrastrutture pubbliche (fogne, condotte d’acqua) tutte completamente da rifare, hanno tempi d’esecuzione durante i quali la popolazione va rifornita, assistita, curata. I commenti al lancio del piano evidenziano che “la Striscia non si potrà governare senza l’accordo con Hamas”. Un soggetto che l’offensiva di Israele doveva estirpare e che è invece presente, certamente indebolito ma tuttora armato, e orienta le trattative per il rilascio dei prigionieri, discutendo sulla cosiddetta ‘fase due’. Certo, sotto la minaccia di Trump e Netanyahu che i bombardamenti punitivi sulla cittadinanza possano riprendere, ma al di là delle imposizioni, il ridimensionamento del grande nemico di Israele è risultato parziale, e la sua rappresentanza resta. E’ il motivo per cui s’accenna a un futuro senza mai entrare nel merito d’una rappresentanza politica legittimata da un avallo elettorale, quasi impossibile nelle condizioni attuali, ma reale spauracchio del vecchio Abu Mazen. Questi continua ad attribuirsi una centralità che non ha, frutto esclusivo del ruolo ricoperto a favore d’ogni governo scaturito dalle consultazioni israeliane dallo spegnersi della Seconda Intifada in poi. 

 

 

Se non ci fosse Mazen occorrerebbe inventarlo. L’età (circa 90) non gli è amica e costituisce l’incognita con cui il fronte arabo vicino all’ultimo disegno (Accordi di Abramo), che avalla il colonialismo del Grande Israele a discapito d’una autodeterminazione del popolo palestinese, deve fare i conti. Il gerontocomio, essenza della leadership dell’Anp, crea un vuoto cosmico. Così i nomi spendibili continuano a essere quelli noti e bruciati da eventi trascorsi e da scelte personali o imposte. Si può riparlare di Mohammed Dahlan per guidare il domani di Gaza? Difficile, quasi impossibile visti i precedenti “ai proiettili” rivolti contro i miliziani di Hamas, quando Fatah doveva cedere ai rivali la direzione della Striscia dopo il successo alle legislative 2006. E ancor più per le pratiche rivolte ad avversari (sempre islamisti) catturati dalla sua polizia nella nativa Khan Younis e dintorni che definire spicce è un eufemismo. Le accuse di torture denunciate dagli arrestati lo inchiodano al pari delle collaborazioni ‘politiche’ con lo Shin Bet. Da allora Dahlan è volato alla corte dell’emiro bin Zayed, attivissimo sul panorama geopolitico non solo delle petromonarchie. Se i funzionari di Hamas affermano che il gruppo "non è interessato" a far parte di alcuna struttura amministrativa nel dopoguerra a Gaza, magari alzerebbero la voce, e non solo quella nei confronti dell’ex pupillo di Arafat. Altro candidato stranoto è Marwan Barghouti, il leader cisgiordano di Fatah, prigioniero eccellente dal 2002, popolarissimo fra tutti i palestinesi. Sebbene risulti fra i patteggiati alla liberazione nella seconda fase delle trattative, è l’uomo che Israele vuol fare invecchiare nelle sue galere. Troppo carismatico e pericoloso, ossequiato anche da Hamas e dalla Jihad per militanza e coerenza, è l’anti Abu Mazen per eccellenza, non disposto a svendite del suo popolo. Dunque se per veti incrociati è problematico individuare il referente politico del traghettamento anche il piano proposto pone un dilemma, naturalmente a chi non vuol sentire, poiché prospetta il ritiro da tutti i territori palestinesi occupati dal 1967, quale premessa per la creazione d’uno Stato palestinese che farebbe cessare ogni forma di resistenza. A garanzia si suggerisce una presenza internazionale di reparti militari delle Nazioni Unite e di polizia palestinese, addestrati da Egitto e Giordania. Per ora un sogno improbabile, non tanto di realizzazione ma di semplice accettazione da parte dell’Israele in circolazione.   

 


sabato 1 marzo 2025

Öcalan, la solitudine del leader più amato


La causa kurda, la lotta anche sanguinosa subìta e offerta negli ultimi quarant’anni e Abdullah Öcalan sono un tutt’uno. Lo sono nell’immaginario di quel popolo, diviso fra quattro Stati e una copiosa diaspora in vari Paesi,  e nell’informazione che ne segue non solo fra i militanti del Pkk. Gli ultimi ventisei anni, il leader fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan li ha trascorsi in galera nel isola-prigione di Imrali, nel Mar di Marmara. Come ci sia finito costituisce un ulteriore capitolo del periglioso percorso di questo capo bollato di terrorismo. Per la cronaca ormai diventata storia, la sua fuoriuscita dalla Siria nel 1998 per evitare una possibile cattura da parte del Mit turco e la fuga in Europa, coinvolse direttamente chi voleva prestargli soccorso: il governo presieduto da Massimo D’Alema. Che s’oppose alla richiesta d’estradizione avanzata da Ankara quando Öcalan era giunto nel nostro territorio, ma non gli garantì l’asilo politico, provocandone la cattura all’aeroporto di Nairobi, dov’era stato spedito dopo due mesi di contestata permanenza in Italia. Il rischio di finire appeso a una corda venne meno nel 2002, quando la Turchia abolì la pena capitale, e per lui e altri imprigionati con l’accusa di terrorismo la pena fu l’ergastolo. In quello ch’era stato lo scontro più acuto fra miliziani del Pkk e l’esercito turco era già passato il quindicennio terribile, avviato nel 1984 col primo attacco a una gendarmeria di Siirt e un crescendo di assalti e repressione, capaci di alimentare una generalizzata spirale di sangue. In quegli anni interi villaggi kurdi venivano bruciati, talvolta con gli abitanti dentro, una strisciante pulizia etnica deportava migliaia di persone. Per contro civili turchi sospettati di collaborare coi reparti polizieschi diventavano bersagli alla stregua dei militari. Egualmente gruppi paramilitari della destra turca agivano contro la comunità kurda. E giù arresti di massa, prigionìa  con torture anche per chi non veniva classificato militante del Pkk. La statistica delle morte contò oltre quarantamila vittime. I kurdi erano i più. 

  

Nato nel 1978 il Pkk sceglieva l’azione armata non solo perché ideologicamente vicino a un tardo marxismo-leninismo e poiché emulava la lotta di altre etnìe senza patria, a cominciare dai palestinesi oppressi da Israele. Lo faceva in quanto considerava inefficaci alla creazione d’una nazione kurda sia le antiche ribellioni nello Stato kemalista, sia il successivo approccio pacifico e democratico della comunità. Il Pkk contestava pure l’approccio conservatore e tribale di gruppi come il Partito Democratico del Kurdistan, sorto nel Secondo dopoguerra attorno al clan Barzani. In realtà Apo, lo zio, come Ocalan veniva chiamato anche quando i suoi baffoni, ingrigiti con gli anni, erano nerissimi,  inizia a elaborare un progetto differente per la frazione kurda più numerosa, gli oltre quindici milioni che vivono nel levante meridionale anatolico, già dopo qualche tempo dalla sua prigionìa. Taluni analisti sostengono sotto la spinta delle letture del filosofo anarchico newyorkese Murray Bookchin, diventato celebre per il suo ‘comunalismo’, un municipalismo libertario che per Öcalan diventa quel ‘confederalismo’ su cui tanto scrive, ispirando un’idea di democrazia diretta, economia solidale ecologica, emancipazione femminile basamento dell’utopia del Rojava, l’area di confine turco-siriano. Che comunque s’afferma e si rafforza proprio nei gorghi della battaglia del conflitto siriano in corso, nella liberazione del cantone di Kobanê dalle milizie nere dell’Isis, nella difesa del cantone fratello di Afrin. In Turchia l’ispirazione ‘confederale’ stimola soprattutto le sigle con cui i kurdi si presentano alle elezioni (Bdp, Hdp fino all’attuale Dem) costituendo una concreta presenza e diventando nel 2015 il terzo gruppo parlamentare dopo Akp e Chp. Ma subendo puntualmente persecuzioni e punizioni con l’accusa d’essere una costola del Pkk, dunque “terroristi”. Il caso di Demirtaş, co-presidente di questo partito, in galera da nove anni assieme a decine di suoi colleghi parlamentari, è l’emblema di come la Turchia chiuda gli spazi alla politica kurda. Armata e non. 

 

Nel frattempo in Rojava si spara. Prima sui miliziani dello Stato Islamico, quindi, e fino a poco tempo fa, sui militari turchi che vogliono occupare quel territorio per evitare che l’esperienza d’ispirazione ‘confederale’ prosegua. Mentre il Pkk o chi per lui, come i dissidenti ispirati ai simboli del falco e della libertà, lanciano attentati a singhiozzo in terra turca attirandosi l’odio della maggioranza dei partiti e della popolazione. Ora ch’è risalita in cronaca la richiesta di abbandonare le armi riproposta dal grande recluso, l’aveva già fatto fra il 2012 e il 2015, esponenti del partito come Cemil Bayık hanno storto il naso. Uno come lui non prende in esame neppure l’ipotesi, del resto è considerato un durissimo in odore di quel militarismo spinto che ha caratterizzato tendenze dei gruppi armati di varie epoche, nazionalità e latitudini. I suoi detrattori affermano che abbia risolto con le armi anche diatribe interne con compagni di partito. Ma fra le dicerie lo stesso zio Apo vanta trascorsi di autoritarismo e soffocamento del dissenso a parole e coi fatti. Altre epoche, altre tensioni, di periodi di guerra aperta, quella che la Turchia attuale non sembra mostrare al suo interno, sebbene siano vive le sferzanti repressioni dell’ultimo decennio. Fra chi comanda e ispira l’oggi e il domani kurdo c’è  divergenza non solo attorno alla questione dell’abbandono delle armi. Un fuoriuscito da tempo dal Pkk come Hüseyin Topgider, eppure sempre ascoltato perché fu fondatore del partito con Öcalan e Bayık, qualche mese fa ha messo nero su bianco la sua idea di futuro: “Con i loro 550.000 chilometri quadrati di territorio, 50 milioni di abitanti, un'organizzazione in continuo sviluppo e la possibilità di connettersi col mondo, i kurdi sono la società più aperta alla laicità e alla democrazia in Medioriente. Sono l'unica società che ha le caratteristiche che il mondo civilizzato desidera per l'equilibrio e la stabilità regionale contro le politiche espansionistiche e conflittuali di Turchia e Iran nella regione. Sono in una posizione chiave in un momento in cui la regione ha un disperato bisogno di ricostruzione e questa posizione non viene più ignorata”. Nel rimescolamento regionale lui crede tuttora possibile quel sogno di nazione kurda vanificato da oltre un secolo. Come se Ankara, Damasco, Teheran, Baghdad i loro governi e confini non esistessero.

giovedì 27 febbraio 2025

Trump-Gaza, il sogno del comando

 


Non c’era bisogno dell’Intelligenza artificiale per inventare la Gaza sognata da Trump e Netanyahu, vip papponi, immortalati sbracati a bordo vasca in un passaggio del dibattuto video virale. Basta andare realmente nella Disneyland delle petromonarchie, le metropoli dai grattacieli stratosferici a picco sulle distese di sabbia del deserto e le acque cristalline del Golfo. Arabico, come amano rimarcare gli emiri sunniti, in faccia alla geografia che lo definisce tuttora Persico. Ma tant’è, i luoghi quelli sono. Dubai, Abu Dabhi, Doha, Manama … Eppure le città delle meraviglie, per i ricconi locali e gli ospiti esteri dai denari male guadagnati, e delle afflizioni per i molti  immigrati lì inservienti in una manovalanza iper sfruttata, rappresentano uno scintillio recente, frutto del consumo d’idrocarburi che ha fatto accelerare i motori a scoppio dal boom economico seguito al Secondo dopoguerra. Uno spaccato di taluni angoli e delle loro trasformazioni lo offre lo straordinario lavoro del giornalista e storico Justin Marozzi, nel suo testo “Imperi islamici”.  Un libro da non perdere.

 

“Tutto ebbe inizio da una perla. Più di settemila anni fa – le date sono tanto offuscate quanto sono limpide le acque del Golfo Persico… gli abitanti dell’Arabia orientale intrattenevano rapporti commerciali con i villaggi più meridionali della Mesopotamia… La pesca, inclusa quella delle perle, diventò la principale fonte di reddito di quelle popolazioni costiere isolate. Quel villaggio era Dubai all’inizio del XIX secolo… Il commercio delle perle possedeva un glossario tutto suo. Nell’arabo colloquiale del Golfo la perla era chiamata lulu, dana, hussah, hasbah. Il gioiello più misterioso era la majhoolah, di grandi dimensioni e non particolarmente bella che conteneva talvolta al suo interno una pietra perfetta più piccola… Inondata dai profitti del fiorente commercio di perle negli anni Venti (del Novecento, ndr) Dubai si arricchì e s’ingrandì… Quindi  basato sul credito, che non era più disponibile, il commercio delle perle non poteva funzionare… Tra il 1929 e il 1931 il prezzo  precipitò del 75%... Lo sceicco Said firmò un importante accordo per le esplorazioni petrolifere con l’Iraq Petroleum Company britannica. Alla fine degli anni Quaranta, Dubai inizò a riemergere nell’era moderna… La British Bank of the Middle East aprì i battenti a Deira, sul Creek, in un luogo noto come Times Square, l’edificio si notava per la sua prominente torre del vento sia per il suo gabinetto pubblico più visibile di Dubai… La maggior parte dei gabinetti privati non erano che buchi nel terreno… L’aeroporto fu inaugurato il 30 settembre 1960, con tanto di duty-free, un altro simbolo eloquente della politica del laissez-faire di Dubai… Il dominio globale della Gran Bretagna, praticamente in bancarotta dopo due guerre mondiali, diminuiva tanto quanto cresceva quello americano… Comunque nel 1971 col sostegno britannico vennero creati in tutta fretta gli Emirati Arabi Uniti, Dubai era uno dei sei, poi diventati sette (con Abu Dhabi, Sharjat, Ajman, Umm al Qawayn, Fujairah, Ras al Kaimah, ndr)… Nella graduale diversificazione delle ricchezze derivate dalle entrate petrolifere furono avviate una fonderia di alluminio mentre sorgevano i grattacieli… Il World Trade Center (sì, all’americana, ndr) era una torre di trentanove piani nemmeno dentro da Dubai, sorgeva in una striscia di deserto vuota e infestata dalle zanzare… in seguito la Sheikh Zayed Road, autostrada a dodici corsie, divise due battaglioni di grattacieli in competizione, luccicanti sotto il sole del deserto… Nel 1985 il trentaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al Maktum domandò ai suoi colleghi: perché non trasformare la regione in un centro turistico? Ci riuscì. Il parco giochi di arabi e turisti occidentali è stato costruito sulle spalle dei lavoratori più poveri del sud-est asiatico. Un esercito di immigrati pagati una miseria e costretti a vivere in condizioni proibitive, a volte addirittura spaventose, in campi con tanto di guardie armate. Oggi il 71% dei 2,5 milioni di abitanti di Dubai è asiatico… la politica del laissez-faire ha comportato altissimi costi umani… l’intera regione ha attratto un massiccio contrabbando, traffico di armi, tratta di esseri umani, operazioni di riciclaggio, attività che s’intrecciano anche con le reti terroristiche globali…”

 

“Agli ultimi piani del grattacielo con i suoi uffici a West Bay, come un’aquila nel suo nido, il miliardario Sheikh Faisal bin Qassim al Thani, ricorda i primi giorni di Doha… Quando lui era già nato quello era un piccolo villaggio di pescatori di perle, andò avanti così fino al crollo del mercato negli anni Trenta mentre la rovinosa Seconda guerra mondiale portava distruzione anche da quelle parti quando inglesi e tedeschi affondavano qualsiasi nave in tutto il Golfo… Alla fine degli anni Ottanta, le strutture più alte della città erano i minareti. L’unico edificio degno di attenzione era lo Sheraton Hotel, una piramide di quindici piani, costruito in un terreno bonificato nel 1982. Se una volta si stagliava sola sul mare, oggi è messa in ombra da una foresta pietrificata di grattacieli in vetro e metallo, progettati da famosi <archistar>. Spicca tra tutti il Burj Doha (alto 232 metri) costato 125 milioni di dollari e inaugurato nel 2012, interamente rivestito di uno schermo in alluminio e acciaio inossidabile con motivi intricati che fungono da protezione solare; la sua forma fallica corrisponde a quella che i francesi chiamano une virilité pleinement assumé, tant’è che l’edifico fra la gente del luogo è noto come il Preservativo… Sebbene la famiglia al Thani si dica favorevole a un diverso sviluppo urbano, sostenendo strettamente i valori islamici, gli abitanti del Qatar pensano che si stia percorrendo la stessa strada di Dubai… se si lavora a Doha si ha spesso la sensazione di vivere in un gigantesco cantiere…  e tutta la fortuna che fra i confratelli-coltelli scaturisce dai petrodollari nella ‘baia occidentale’ proviene del gas, rafforzata dall’enorme diffusione che dagli anni Settanta questo combustibile ha avuto per l’energia globale… Il più grande giacimento di gas del mondo entrò in produzione nel 1991, generando guadagni favolosi, attirando nuove ondate di migranti, finanziando la continua espansione della capitale… Benedetto da questa svolta geologica del destino, o dalla mano divina di Allah, il Qatar utilizzò le entrate per finanziare una politica estera sempre più assertiva, per guadagnare influenza e prestigio… una politica senza pregiudizi stabilendo relazioni anche fra Stati che fra loro si detestano, da Israele all’Iran… E fra investimenti lanciati all’Occidente come ami, impegno d’alto profilo professionale nella comunicazione col fenomeno Al Jazeera il desiderio di farsi notare, sempre e comunque, è enorme. Chi conosce gli al Thani dice “quando Dubai costruisce un grattacielo, qui sentono di dover fare lo stesso. Quando Abu Dhabi crea il proprio Louvre, idem…” L’emulazione è talmente profonda da percorrere le medesime tortuose vie dei crimini dei vicini, così nella preparazione di uno degli ultimi grandi eventi (ma altri bussano alla porta) i Mondiali di calcio ospitati negli stadi qatarioti, ben cinquecento operai sono morti per assenza di sicurezza nel corso delle edificazioni. Ai lavoratori rimasti in vita dopo quell’appuntamento la magrissima consolazione di salari comunque di fame. 

 

“… Quando il geografo francese Vital Cuinet giunse a Beirut nei primi anni Novanta del XIX secolo gustava l’eterno amore cittadino per una chiacchierata davanti a un caffè e la sua passione per il lusso e l’ostentazione, fra cinquantacinque caffetterie e quarantacinque gioiellerie… Bevitori di caffè, amanti degli acquisti, flàneurs e persone alla ricerca del piacere in tutte le sue sfumature erano irresistibilmente attratti da Sahat al-Burj, la piazza più volte ribattezzata a est delle mura della Città Vecchia che rappresentava il cuore della vita pubblica di Beirut, un luogo di svaghi, attività commerciali, e incursioni opportunamente calcolate nel mondo della sensualità o del più assoluto squallore. Su Sahat al-Burj dominava il frastuono di hotel e caffè, chioschi con orchestrine, imprese commerciali, negozi, sale da gioco, compagnie di trasporto, bar e maisons de tolerance… Il quartiere a luci rosse, sorto alla fine del XIX secolo su at Tariq al Mutanabbi, la strada  adiacente alla piazza che porta il nome del poeta iracheno del X secolo, venne reso in seguito famoso – anche tristemente – dalla straordinaria carriera di Marca Espiredone, che, arrivata senza un soldo a Beirut nel 1912 come un’orfana greca che aveva subito abusi di ogni sorta, divenne prima una prostituta e poi la patrona, ovvero la madame più bella, celebre e ricca della città, proprietaria della leggendaria casa di tolleranza Marica, in cui lavoravano un centinaio di ragazze pronte a soddisfare i desideri degli uomini ricchi e famosi della Beirut degli anni Quaranta e Cinquanta. Con le insegne al neon che reclamizzavano sfacciatamente le migliori offerte di ciascun bordello – Leila, al Chacra la bionda, Antoinette la Francese, Lucy l’Inglese …”