venerdì 14 novembre 2025

L’autobomba e la piazza

 


Mentre la polizia pakistana dichiara d’aver arrestato alcuni miliziani della catena omicida di martedì a Islamabad (12 vittime e oltre 30 feriti) l’islamico Pakistan s’interroga se temere maggiormente gli agguati dei Tehreek-e Taliban o le violente manifestazioni di massa e il cospicuo peso elettorale dei Tehreek-e Labbaik. Le due formazioni islamiste hanno radici teologiche differenti. I TTP s’ispirano a un deobandismo radicale che chiede l’applicazione della Shari’a nella legiferazione statale. Anche i TLP agognano la legge coranica ma secondo una visione barelvi di giurisprudenza hanafita sussunta da varie scuole sufi. Tradotto volgarmente e pragmaticamente le due tendenze si detestano e combattono da secoli, mentre nell’attuale politica ciascuno segue la propria agenda. I primi risultano fuorilegge e clandestini, i secondi sono addirittura radicati in Parlamento. Il percorso istituzionale di Tehreek-e Labbaik, diventato partito nel 2015 e solo dal 2018 presente alle urne, con punte massime di consenso nel Punjab ma con una diffusa forza d’erosione verso i partiti tradizionali d’ispirazione islamica come la Lega Musulmana–N, è tenuto  sotto osservazione dai politologi. E’ accaduto che in alcuni governatorati (c’è anche l’industrializzata Karachi) quasi la metà degli elettori del PML-N abbiano voltato le spalle al clan Sharif convogliando il consenso sul movimento di protesta inventato da Khadim Rizvi. Animatore e agitatore d’un raggruppamento conservatore islamista che attaccava la corruzione e la speculazione dei vecchi ceti nazionali incarnati dalle famiglie Bhutto e Sharif. Accadeva nella consultazione vinta da Imran Khan, il campionissimo di cricket, creatore anch’egli d’un partito Tehreek denominato Insaf, dunque Movimento per la Giustizia, che con un exploit elettorale l’ha portato al governo. Khan raccoglieva i frutti d’un programma populista scagliato contro le camarille tangentizie che a turno i mammasantissima della politica pakistana, Sharif e Bhutto, implementavano a vantaggio dei propri conti correnti, sotto l’occhio  dell’onnipresente lobby militare. Però nelle elezioni del 2018 i generali guardarono con interesse il ricco, bello, famoso e outsider della politica, spendendo parole al miele per la sua scalata al potere. 

 

Se una parte dei ceti marginali riversava il consenso su Khan, un altro ceppo di proletariato rurale e urbano, religiosissimo sino al fanatismo, seguiva Rizvi. Dalla sedia a rotelle impostagli da un incidente stradale nel 2006, il barbuto leader non faceva mancare la voce ai comizi e nelle gigantesche manifestazioni di piazza. E nelle strade dove gli scontri erano all’ordine del giorno. La capitale, Lahore, Rawalpindi tutte popolosissime hanno visto gli attivisti TLP inscenare cortei, erigere barricate, scontrarsi senza timore con le Forze dell’ordine. Morire e uccidere creando un’instabilità crescente. Chiuse scuole e autostrade, sospesa la telefonia mobile, lo scarico dei container, la stessa distribuzione di merci e viveri per le agitazioni dove i Labbaik conquistavano il primato e mettevano in difficoltà anche gruppi legati a proteste e scioperi come il Muttahida Qaumi Movement di Mustafa Kemal. Sì, una denominazione all’Ataturk per l’ex sindaco di Karachi che accusava: “I Rizvi, padre e figli, usano la religione come un’arma”. Poi cinque anni fa il genitore morì, probabilmente per un’infezione di Covid, Saad ne ha ereditato leadership e impeto oratorio, senza il timore di finire incarcerato; anzi per questo sostenuto da piazze sempre caldissime e reattive contro la repressione. Se la politica di maggioranza e taluni magistrati hanno cercato di carezzare figure religiose dell’élite barelvi così da allontanarle dalla militanza del partito Labbaik, la tattica non fa presa fra i supporter che dicono “Non ci sono buoni e cattivi barelvi”. Certo gli attacchi infuocati, anche nel senso stretto del termine, con cui i militanti si sono scagliati in più occasioni accusando di blasfemia minoranze religiose, soprattutto cristiane, hanno creato casi di rilevanza internazionale. Bruciare chiese, aggredirne e uccidere i fedeli è poco giustificabile per il ceto politico pakistano leale all’Islam ma non complice del fondamentalismo. Comunque quello che cammina sulle gambe di milioni di militanti ed elettori TLP, che vorrebbe giustiziare i giudici assolutori della ‘blasfema’ Asia Bibi, che considera un martire il poliziotto Qadri condannato a morte per l’assassinio del governatore difensore della donna cristiana, è più insinuante e potente delle autobomba disseminate dai kamikaze talebani.

mercoledì 12 novembre 2025

La linea dell’autobomba

 


L’incrocio di autobombe nei centri pulsanti di Nuova Delhi, lunedì scorso, e di Islamabad, ieri, con un numero imprecisato di vittime in India e dodici accertate in Pakistan pone i due giganti demografici in condizione di allerta interno e di contrapposizione estera. Al punto che il premier e il ministro della Difesa pakistani si sono lanciati in accuse dirette, parlando rispettivamente di “terrorismo fomentato dall’India nella regione” e “stato di guerra latente”. Affermazioni trancianti che riportano la tensione all’ultimo scontro militare fra i due confinanti lontano solo di sette mesi. Più cauto, almeno finora, l’establishment di Delhi, con ministri in visita sul luogo dell’attentato (vicino allo spettacolare Forte Rosso) e fiducia nelle indagini in corso. Queste riferiscono del trasporto di materiale esplosivo nella vettura d’un medico kashmiro, smembrato dalla conseguente deflagrazione, e l’ipotesi d’un coinvolgimento, non si sa se diretto o casuale. La sua responsabilità sarebbe avvalorata dal fermo di due suoi colleghi custodi d’una vera santa barbara d’esplosivi. Ciascuno potrebbe essere colluso o collaboratore di gruppi fondamentalisti operanti nella regione, dove ad aprile nei pressi di Pahalgam s’è consumata una strage di turisti con una trentina di vittime, tutte indiane, in visita a un luogo di vacanza noto ormai come ‘la Svizzera indiana’. Lashkar-e-Tayyiba e Jaish-e-Mohammed sono i movimenti sospettati, ma senza prove concrete se non la loro propensione al jihad locale. Che è in crescita esponenziale dal 2019, quando una legge del governo Modi ha privato il Kashmir indiano della consolidata autonomia amministrativa a tutto svantaggio della cittadinanza di fede musulmana. Ecco i sospetti jihadisti sull’attentato nel centro di Delhi. 

 

Invece l’autobomba esplosa a ridosso del Tribunale distrettuale a Islamabad? Il governo pakistano punta il dito sull’India che favorirebbe i Tehreek-i-Taliban, spina nel fianco della dirigenza pakistana già dall’epoca della gestione politica di Nawaz Sharif, fratello dell’attuale primo Ministro Shehbaz. Il clan gestore della Lega Musulmana del Pakistan   che guida l’attuale governo, è cosa della famiglia Sharif, un partito islamico conservatore finito nel mirino dei jihadisti per ragioni di potere oltreché d’osservanza religiosa. Del resto un po’ tutto lo schieramento statale, dunque anche il partito della famiglia Bhutto che s’alterna storicamente alla dirigenza della nazione, considera khawarij gli appartenenti ai TTP, un termine spregiativo che indica chi ‘si separa dalla dottrina’. Costoro restituiscono lo spregio considerando infedeli (kafir) i presunti ortodossi. Questo in termini di conflitto dottrinale. Più prosaicamente sono la gestione amministrativa e il controllo del territorio a rinfocolare lo scontro fra le parti. Un ennesimo atto dei contrasti interni al Pakistan è il recente attacco al college militare di Wana, nel Waziristan meridionale. Regione dove il fondamentalismo islamico è radicato da tempo e neppure repulisti militari come la famigerata Zarb-e Azb, vera azione di guerra attuata nel giugno 2014 con bombardamenti aerei e l’evacuazione di 100.000 civili, sono riusciti a sradicare. Nei giorni precedenti all’esplosione di Islamabad la scuola di Wana è stata attaccata da un commando, probabilmente dei TTP, su cui ha avuto la meglio l’intervento dell’esercito, capace di sgominare il commando. Il governo ha lodato l’azione repressiva: “Le vite degli studenti sono state salvate con successo grazie alla perseveranza e alla competenza delle Forze Armate”. Eppure il timore che si potesse ripetere una strage come quella di Peshawar del dicembre 2014 (138 figli di militari uccisi) è stato enorme. Quell’eccidio, compiuto dai Tehreek-i-Taliban, costituiva la risposta alla Zarb-e Azb di sei mesi prima. In Pakistan la cenere continua palesemente a covare sotto il fuoco. E l’uscita anti indiana di Sharif non si basa su preconfezionati preconcetti. 

 

Esiste il realismo geopolitico delle ultime settimane con la visita ufficiale del ministro degli Esteri di Kabul Muttaqi all’omologo indiano Jaishankar, proprio a Delhi. Hanno parlato di commercio e aiuti umanitari, ma il ministro dell’Emirato proveniva da Mosca dove aveva incontrato colleghi russi, cinesi e pure pakistani per discutere fra l’altro delle infrastrutture internazionali da proporre sul territorio afghano, in opposizione agli interessi statunitensi di riprendere possesso della base aerea di Bagram, a sessanta chilometri dalla capitale. Ecco, al di là degli svariati argomenti di colloquio fra potenze mondiali e soggetti regionali, Islamabad vede come fumo negli occhi l’apertura politica indiana ai turbanti. Perché da tempo accusa l’attuale gestione dei taliban afghani di accogliere, proteggere, supportare i fratelli fondamentalisti pakistani, inaffidabili e soprattutto terroristi. La gestione dei recenti attentati può risultare totalmente autonoma, ma potrebbe ricevere il sostegno delle agenzie dei Servizi. Questo il ceto politico di Islamabad lo sa bene. Molti degli intrighi interni, recenti o lontani, sono passati attraverso la gestione della sua Inter Services Intelligence. Nella saggezza popolare: chi pensa male, vive male. Dunque i sospetti della leadership pakistana rispecchiano i propri complotti e adombrano i fantasmi di casa. Ma possono non essere lontani dalla verità. Infatti anche Modi, incarnando l’intransigenza induista agisce e traffica contro quella parte dell’India che non si riconosce nel fanatismo dell’hinduva abbracciata dal Bharatiya Janata Party. Lo dimostrano da tempo le campagne contro minoranze etnico-religiose e nazioni considerate antagoniste. Certo, un conto sono le congetture altro è il segno tangibile di quanto accade. Gli attentati gemelli che colpiscono la sicurezza dei bizzosi confinanti possono avere matrice autoctone e nessun collegamento. Ma la linea dell’intrigo può egualmente farci domandare a chi giova la destabilizzazione d’un tratto del continente asiatico, se non proprio ago della bilancia, contrappeso alla megalomania trumpiana sparsa per il globo.

lunedì 10 novembre 2025

Elezioni classiste

 


La farsa elettorale era già iniziata col voto all’estero, fra gli espatriati per affari e lavoro oppure per rifugio dalle divise che controllano l’Egitto. Che da dodici anni racconta la favola d’un governo democratico con tanto di libere elezioni. L’ennesima ‘democratura’ che però i media mainstream e la geopolitica non considerano tale puntando il dito a senso unico su Russia e Bielorussia, Turchia e Iran.  Oggi gli egiziani votano nei distretti di Alessandria, Assiut, Assuan, Beheira, Beni Suef, Fayoum, Giza, Luxor, Matrouh, Minya, Nuova Valle, Qena, Mar Rosso, Sohag; risultati attesi per il 18 novembre. Il 21 e 22 novembre votano al Cairo, Daqahlia, Damietta, Gharbia, Ismailia, Kafr El-Sheikh, Menoufia, North Sinai, Port Said, Qalyubia, Sharqia, South Sinai, Suez; risultati il 2 dicembre. Se non serviranno ballottaggi entro la fine dell’anno il quadro sarà definitivo per l’elezione di 596 deputati, fra una metà di candidati individuali, un’altra metà sostenuta dai partiti e ventotto designati dal Capo di Stato. Un quarto della rappresentanza spetta di diritto al genere femminile. Altra perla con cui il regime manifesta la propria indole ‘democratica’. Sebbene nel 2015, a un anno dal primo mandato presidenziale, le Forze Armate di al Sisi, le candidate le freddavano per via, come accadde a Shaimaa al-Sabbagh, leader del Partito dell’Alleanza Popolare Socialista di Alessandria, di cui resta il volto spaurito, rigato di sangue fra le braccia d’un sindacalista soccorritore. I punti oscuri dell’ennesima sceneggiata elettorale si legano al controllo autoritario della grande nazione araba che ha ormai superato i 110 milioni di abitanti e, nonostante ambisca a un ruolo regionale di primo piano come se la geopolitica fosse ferma ai Sessanta del termondismo nasseriano, è densa di contraddizioni. 12% d’inflazione, disoccupazione giovanile a due cifre, quella di strati laureati al 6,3%, 4,12 di dollari pro capite di Pil, e un ranking da centesimo posto fra i 193 Stati membri delle Nazioni Unite. 

 

Insomma malgrado i dollari delle petromonarchie che ossigenano un’economia disastrata e sostengono il progetto securitario nell’area voluto da ogni inquilino dello Studio Ovale sin dai tempi di George W. Bush, l’Egitto pilastro anti Fratellanza Musulmana, incarnato dalla lobby militare dopo il disarcionamento popolare di Mubarak, ha fatto della presidenza Sisi la pietra miliare di reazione e rilancio autoritario. Il generale è al terzo mandato, ma tramite un Parlamento posto sotto il suo ferreo controllo potrà prolungarlo fino al 2030 per un ritocco costituzionale operato nel 2019. E si pensa a un ulteriore intervento sulla Carta. Anche il miliardario Sawiris, fondatore nel 2011 del Partito degli Egiziani Liberi con cui avrebbe voluto giocare un doppio ruolo d’imprenditore e leader alla maniera berlusconiana e ben prima della comparsa di Trump, fu ridotto a più miti consigli dai militari: “Pensa agli affari e tutt’al più finanziaci, delle questoni statali ci occupiamo noi”. Rodatissima sin dai tempi di altri presidenti generali – Sadat, Mubarak - la lobby delle stellette ha orientato i cittadini ai propri voleri con le buone o le meno buone. Che dall’investitura di Sisi si sono tradotte in migliaia di assassinati e scomparsi, oltre sessantamila prigionieri in corso di tortura e detenzione. Questo è la Repubblica libera d’Egitto. Nelle attuali consultazioni le leve giudiziarie e finanziarie hanno introdotto paletti in alcuni casi insormontabili per i candidati, specie individuali. L’iscrizione alla tornata elettorale s’aggira sui 900 euro, per tacere dei costi della campagna elettorale che nelle punte massime può sfiorare il milione di euro. Spese all’occidentale. Poi altri due filtri. Il primo sanitario con richieste di analisi antidroga, per garantire candidati non segnati da questo vizio. Mentre un secondo vizio, quello che ha portato cittadini all’esenzione dalla leva militare edifica un muro invalicabile. 

 

Chi s’è macchiato di tale mancanza nel curriculum, non può proporre la candidatura. Associazioni dei diritti sono ricorse per ragioni ideali: così si negano l’obiezione di coscienza, la scelta d’occuparsi di questioni civili, la possibilità d’essere riformati per ragioni sanitarie. Lo Stato egiziano versione al Sisi se ne infischia e setaccia cittadini privi dell’amore per la divisa considerati potenziali teste calde. Sul fronte dei partiti è presente una pletora di sigle (Lista Popolare, Lista Generazionale, Lista per l’Egitto…) di non facile identificazione se non nell’alveo d’una tradizione consolidata costituita da gruppi filo regime. “Il risultato è un Parlamento preconfezionato, se non apertamente comprato, e immunizzato contro il dissenso” dichiara uno che gli apparati di sicurezza interni li studia da tempo, il giornalista egiziano Hossam el-Hamalawy, anche se per ragioni d’incolumità in molti casi lo fa a distanza a tutela dell’integrità intellettuale e fisica. Poiché questo è il volto dell’Egitto e gli asserviti interni, oltre un terzo della popolazione che vive direttamente o attraverso l’indotto economico e commerciale delle Forze Armate, non sputa nel piatto dove mangia. Eppure accanto al ricatto economico, anche costoro non vivono nella tranquillità personale e familiare. Tirano avanti con una convinzione parziale. Un riscontro traspare proprio dalla partecipazione alla ritualità dell’urna. Alle elezioni della Camera Alta tenutesi nell’estate l’affluenza s’è aggirata sul 17% degli iscritti ai seggi, un dato in flessione rispetto alle cifre offerte dal regime in genere gonfiate sino al 40%. Gli stessi osservatori internazionali già negli anni passati parlavano di dati gonfiati del 10-15%. I consensi risultano ovviamente alle stelle. Al Sisi è stato eletto col 97% alle prime consultazioni e  dato all’89% nell’ultima del 2023. Numeri ritoccati, come il suo sedicente impegno per un popolo che vuole dominare e piegare al volere della lobby d’appartenenza e del clan familiare, coi figli investiti d’incarichi, favori, guadagni. Come e più del predecessore-tiranno Mubarak.

sabato 8 novembre 2025

La luce e il buio

 


Bianco e nero assoluto, quasi accecante. Definito e definitivo nel descrivere quello che neppure il neorealismo politico produsse in pellicola. In realtà una chicca coeva esiste: Il tetto di Vittorio De Sica su soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1956, che parla di sottoproletari, baracche, poveri cristi che non volano in cielo come i barboni di Miracolo a Milano, secondo titolo dell’aggirato I poveri disturbano. Disturbavano i derelitti nella derelitta Italia post fascista e post bellica, secondo i parametri del riformismo e del conservatorismo. Si costruiva la Repubblica democratica e ci si voleva dare un tono. Ma Milano, Roma, il profondo sud di Matera e persino Parma contavano coree, baraccopoli, sassi, capannoni dove gli emarginati sociali vivevano. Il servizio di Franco Pinna - grande isolano d’una più piccola isola, e fotografo immenso del neorealismo delle immagini - nel borghetto del Mandrione, a ridosso dell’Acquedotto Felice fra le consolari Casilina e Tuscolana (in mostra a Roma alla Casa del cinema), appartiene alla fase di profonda militanza artistico-politica fra le file del Partito Comunista Italiano. Pinna con De Martiis, Garrubba, Sansone diede corpo alle testimonianze su pellicola di cos’era l’Italia contemporanea immortalata dalla Cooperativa Fotografi Associati. Nelle settimane successive alle nevicate del febbraio 1956 che gelarono anche chi un alloggio decente l’aveva e dei morti assiderati fra i più deboli ai borghetti Prenestino, Pietralata, Primavalle l’antropologo e storico d’arte Franco Cagnetta, lo scrittore Alberto Moravia, gli attivisti del Pci Giovanni Berlinguer, Piero Della Seta e lo stesso Pinna si recarono alla baraccopoli del Mandrione recuperando immagini e parole per il settimanale Vie Nuove. Il primo passo di un’inchiesta sul fenomeno di borgate e borghetti che gli amministratori cittadini e i governi dell’epoca tendevano a occultare, mentre incentivavano il sacco urbanistico della città orientandola verso il mercato immobiliare privato. 

 

Gli scatti del fotografo sardo al Mandrione si rivolgevano alla cospicua presenza nel luogo della comunità rom, concentrati attorno a un gruppo familiare proveniente dall’Abruzzo, i Casamonica, che vent’anni dopo entrerà nella cronaca nera e dagli anni Novanta addirittura criminale della città. All’epoca del servizio, tutto era emarginazione, disagio, disperazione e pur’e folklore che attrasse il ‘Centro Studi di Musica Popolare di Nataletti e Carpitella verso le usanze coreutico-musicali dell’etnìa lì raccolta. Pinna non si fermò, altri suoi servizi in differenti borghetti ritraggono i residenti, prevalentemente meridionali fuggiti dalle terre d’origine, per inseguire il miraggio del lavoro o addirittura del benessere economico, quei manovali e casalinghe che dalle baracche speravano di sistemarsi in una casa. Un fenomeno proseguito fino agli inizi dei Settanta. Le facce scarne, ingenue oppure intriganti, sono quelle del popolo un tempo contadino cantato e amato da Pasolini, gli antenati di chi a Roma è diventato altro: mezzamanica o rapinatore. Di chi un pizzico di scalata sociale ha provato a farla in un’Italia catto-comunista che un’elemosina o una conquista sociale ancora le praticava. Oppure chi dal sottoproletariato cercava soluzioni di riscatto tutte individuali e assolutamente borderline. Certo  quegli occhi, quelle posture che non erano pose sceniche ma modi d’essere, comportamenti d’assoluta naturalezza, umori e timori, ascosa umiltà e piglio sbarazzino, son difficili da ritrovare. E non è nostalgia d’un passato che, se si è lasciato alle spalle abbrutimento e miseria, ha conquistato un raggio di sole. Ma è smarrimento dell’identità di persone, di origini sociali e geografiche nel parlare di chi con decoro e forza di volontà ha seguito la via della vita. Sudata e limpida. Dei bambini che diventavano uomini nella “Scuola 725” di don Sardelli, di chi è uscito dal buio del Mandrione forgiandosi nelle difficoltà, e ha schivato le emancipazioni malavitose degli epigoni di quel clan natale assurto a clan dei boss.   

mercoledì 5 novembre 2025

Revisionismo talebano

 


E’ uno spaccato utile per aggiornarsi, confrontare, capire frammenti di vita distanti due decenni. Quelli dell’Afghanistan delle Repubbliche fantoccio create e sostenute dall’Enduring Freedom statunitense e dell’Occidente intruppato nella Nato e l’attuale orizzonte del secondo Emirato Islamico con quattro anni di conduzione sulle spalle. Ce l’offre un report di Sharif Akram, ricercatore e collaboratore del network Afghanistan Analysts, che assembla testimonianze, dialoghi, incontri avuti per settimane con mercanti dei tempi andati e presenti, e alcuni miliziani talebani e cittadini che si sono schierati con loro, non solo negli ultimi mesi del 2021 affacciati sulla vittoria finale, ma durante la lotta per il potere. E’ significativo e inquietante che nessuna donna o comunque nessun pensiero, anche indiretto, del genere femminile appaia nel resoconto. Che illustra soprattutto, con la voce di protagonisti, cos’era e qual è il commercio odierno. Un modo per sbarcare il lunario o magari posizionarsi bene, poiché è indubbiamente la merce che fa la differenza, con tanto di prezzi e costi del materiale. Ma anche nel limitato business d’una panetteria, di cui parla più d’un intervistato, oggi si pagano meno tangenti dell’epoca di Kharzai e Ghani. Questo sostengono gli interpellati. “Anni addietro il mio negozio è stato chiuso perché ero di Wazakhwa (nel distretto di Paktika, zona a lungo controllata dai turbanti) e perché avevo la barba”. Mentre bazari, fermati un tempo come ora nei trasbordi fra le province, ricordano che polizia e miliziani filogovernativi erano più duri rispetto all’esercito nazionale contro cui i taliban combattevano. Attualmente, riferiscono gli intervistati, le province s’attraversano più facilmente, tutte e trentaquattro le province. Uno rivela che durante il governo Ghani si nascondeva e lavorava a Kabul, pur combattendo fra le file degli insorti. Lo faceva per campare, perché non sempre e non tutti i miliziani venivano sovvenzionati dal centro. E chi doveva pure mantenere la famiglia aveva necessità di lavorare. Dunque, militanza part time. Eppure nessuno l’ha scoperto. Per anni. Altri, a periodi, facevano addirittura la spola fra Emirati Arabi e monarchia saudita, perché lì il lavoro era certo. I combattenti-lavoratori venivano aiutati nell’espatrio e dovevano versare una quota del guadagno all’unità militare d’appartenenza. Questo è il passato. 

 

Il presente vede egualmente la creazione di un’élite direttiva che, al di là del governo e del Gotha di Quetta, nutre con un lavoro statale una cerchia di filo taliban inseriti nell’occupazione statali. Né più né meno di quanto accadeva con gli esecutivi para occidentali. L’unica differenza sta nel numero dei posti disponibili che, per ragione di fondi, sono decisamente ridotti rispetto ai tempi d’oro della Repubblica. In aggiunta l’Emirato, impedendo la presenza di Ong internazionali o limitandole sensibilmente, non può offrire lavoro ai locali che le strutture non governative sempre privilegiano nei loro interventi. E allora ancora commercio. Il bazar, i mercati dislocati dove si può continuano a rappresentare un diffuso mezzo di sostentamento, se non si è contadini oppure coinvolti nei cantieri edili tuttora presenti e attivi. Un tempo erano ex Signori della guerra a controllarli, investendo sul mattone denari d’ogni provenienza. Certo, attualmente essere nel manico di figure di spicco della galassia talebana favorisce queste e altre imprese. Al di là dei recenti venti di guerra col governo di Islamabad, già due anni addietro l’amministrazione pakistana iniziava ad alzare steccati verso il confinante Emirato, non solo per ragioni ideologiche e securitarie sugli scambi di favori fra pashtun inturbantati lungo quella linea Durand. Di mezzo ci sono rifugiati e profughi, tutti afghani, che stazionano a milioni fra Peshawar e le pietraie del Khyber Pass. Il premier Sharif e il generale Munir non li vogliono più, è la punizione e il ricatto per il rifugio che i Tehreek-i Taliban ricevono dai seguaci di Akhundzada. Il rimpatrio fa aumentare la cittadinanza povera, tuttora esistente e impossibilitata a qualsiasi impresa. Ma il percorso delle interviste si snoda fra il ceto dei piccoli e medi mercanti, ciascuno afferma di riuscire a guadagnare cifre maggiori rispetto a un pur dignitoso stipendio statale, facendo il ristoratore (anche con piatti pakistani, sic), il sarto, il venditore di tessuti, addirittura di cosmetici e profumi della localmente nota azienda Al Makah Khushboo Mahal. Cosmetici? Pare di sì, probabilmente utilizzati in privato dalle mogli delle élite mercantili e politiche.  

 

Insomma, per quella che si potrebbe definire una mutazione antropologica dei talebani d’Afghanistan quest’ultimi consumano e investono. Non sono più quelli del primo Emirato, almeno negli usi hanno tagliato i ponti coi princìpi del mullah Omar. Così si dice. Religiosi lo sono tuttora, ma non più diffidenti verso ambienti che finora rigettavano a priori. Il tempo scorre, e cambia. Sarà che la permanenza a Doha, dove dal 2010 stabilirono una propria agenzia all’epoca dei primi colloqui con gli Stati Uniti che volevano uscire da una situazione geopolitica e militare per loro ingovernabile, li ha plasmati verso i dollari? Certo è che taluni mercanti della capitale parlano addirittura di luoghi dove s’ostenta ricchezza. Le attività commerciali di lusso in aree come Shahr-e Naw e Wazir Akbar Khan (zona residenziale nord della capitale, dov’era l’ambasciata americana) luoghi dell’élite politica della Repubblica ora coinvolgono la classe emergente dell’Emirato. Vecchia situazione che ricorda l’altra faccia dell’imperialismo, quella dei beni di consumo che da un trentennio nel Vietnam si son presi la rivincita sulle sconfitte militari dell’Us Army. Accanto all’ostentazione della ricchezza appaiono trasformazione dei valori sociali e stili di vita. Ovviamente per cerchie ristrette che comunque danno lavoro al  commercio citato. Addirittura con mode del caso: i copricapo alla Yaqubi e Muttaqi, rispettivamente ministro della Difesa e degli Esteri, diventano un fenomeno di cui magari fra qualche tempo s’occuperà Vanity Fair. Per ora, si dice, facciano tendenza fra i taliban che se lo possono permettere. I bazari intervistati sostengono che “durante la Repubblica la gente di Kabul non indossava quelle cose e non c'erano negozi che le vendessero. Molti funzionari erano soliti ordinare e acquistare i loro vestiti dall'estero”. Risulta che gli ex talebani, entrando nel settore privato urbano, si sono ampiamente adattati a un ambiente modellato da norme molto diverse da quelle alle quali erano abituati. 

 

Chi li aveva visti in azione solo un quinquennio fa conferma che sono cambiati, influenzati da meccanismi globali e capitalistici: “Nei primi anni del potere talebano avevamo perso la maggior parte dei clienti che erano per lo più funzionari della Repubblica, stranieri o persone provenienti da Ong. Ora ne acquisiamo di nuovi dagli stessi talebani, gli uomini con i turbanti comprano esattamente le stesse cose”. Si registra anche un allentamento degli standard d’austerità, si cercano nomi, design e menu in stile occidentale. Addirittura? Sembra di sì. Magari non da parte delle figure più in vista dell’esecutivo islamista, ma dalla nuova casta affarista che li contorna, li segue, li ossequia, li venera. Come accade a qualsiasi potente. E i vertici lasciano fare? Parzialmente. Ci sono limiti, ad esempio nell’esposizione merceologica pure nei centri lussuosi della capitale le lingue ammesse sono pashtu e dari, l’inglese è vietato. Nella pubblicità non compaiono immagini umane come manichini, teste, figure di donna. Ridotta è la visibilità dei beni di consumo femminili di cui comunque i mercanti hanno parlato con tanto di marche di profumi. Però le attività ricreative, il cinema, le sale giochi non esistono, le restrizioni sulle società di media private, i divieti su musica e teatro, hanno costretto molte aziende a chiudere. Egualmente il veto al lavoro femminile ha prodotto il blocco di molte Ong che in alcuni casi erano diventate micro imprese sociali volte al sostegno di minori abusati e abbandonati e contrasto alla violenza di genere. Ma queste sono considerazioni, certamente fondamentali, fatte a margine, poiché i soggetti interpellati, tutti uomini, prevalentemente filo talebani e impegnati in attività commerciali, sebbene in alcuni casi di mercanzia alimentare e non pregiata, non offrivano valutazioni sulla nota dolente del nuovo corso talebano: la ferrea sottomissione ed emarginazione femminile.  

giovedì 30 ottobre 2025

La custode delle tre P

  


Un nuovo anniversario. Stavolta di morte. Una morte straziante e violentissima. Quella del poeta del secolo Pier Paolo Pasolini. Ce n’erano stati altri, il trentesimo lo trascorsi con la benefica compagnìa di Angela Molteni, che avevo conosciuto qualche tempo prima, sul web. Lei a Milano, io a Roma incrociati per caso scrivendo di Pasolini e raccontando, io, quando ancora militante e pure podista, organizzavo con un Circolo politico che s’occupava di sport sociale una corsa nella romana Villa Gordiani affinché il Comune della capitale diventata rossa, di Argan prima e Petroselli poi e sempre del frizzante Nicolini, dedicasse al poeta delle borgate l’ampio terreno dell’ex borghetto Prenestino, liberato dalla baraccopoli. Angela era affascinata dal racconto e da lì mi propose di scrivere, io che letterato non ero ma passionale sì, alcune note sugli Scritti Corsari e sulle Lettere Luterane. Insomma sul Pasolini politico eretico nonostante le frequentazioni con l’allora Partito Comunista. Rientravano nelle “Pagine Corsare” della sua creatura informativa, inventata nel 1997 col supporto d’un amico-studente: www.pasolini.net ora  in   https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/. Un pozzo d’informazioni, documenti, testimonianze, interventi culturali anche di accademici, intellettuali, giornalisti, studenti, appassionati di poesia e altro incentrati sui mille e mille volti di quell’immensa galassia che è stato il giovane di Casarsa e di Bologna trapiantato a Roma. E diventato un monumento del pensiero critico di molte arti. Angela occupatissima e precisa nel tenere contatti e relazioni, appassionatissima divulgatrice per quella meraviglia che è la cultura senza intenti di lucro, libera come il suo sito direzionato sulle onde del ruolo originario di Internet: creare connessioni orizzontali, certamente curate e vigilate, ma lontane da parrocchie d’appartenenza e da lobbismi. Angela, con cui dal 2005 in più occasioni ci ripromettevamo un incontro, su nella sua Milano, ch’è stata anche per me seconda patria, sia politica sia lavorativa in certe fasi della vita. Ma c’era sempre un intoppo, un impegno pure mio, non solo suo. E in occasione del suo bel lavoro “Enigma Pasolini” poi pronto fra il 2009 e 2010, e alla fine orfano di pubblicazione cartacea per non so quali problemi editoriali (però reperibile tuttora sul web  https://www.yumpu.com/it/document/view/6925070/illustrazioni-fuori-testo-pier-paolo-pasolini-pages), mi chiese una prefazione. Onorato gliela spedii, dicendole stavolta ci dobbiamo assolutamente incontrare. Certo, ma certo, vieni su al più presto. Maledetti tempo e fatalità che scorrevano e il mio rincorrere poi le ‘Primavere arabe’ e la malattia che la colpì e di cui celava i risvolti. Così per me, in fondo un semisconosciuto nella sua vita di studio e di amorevole cura della figura pasoliniana, fu un fulmine sentire a metà ottobre 2013 che l’attivissima Angela Molteni aveva cessato di custodire con dedizione quotidiana la memoria del poeta. Lo stesso fulmine con cui, ancora studente, la mattina del 2 novembre 1975 apprendevo della morte, di mano immediatamente assassina per un omicidio di Stato, delle tre P Maiuscole della cultura nostra. Giunge il cinquantenario di quello strazio, e non riesco a non pensare a Pasolini abbracciato a Molteni. Lui ci ha offerto il cuore della sensibilità e della profondità critica, lei ha aperto un generoso cuore alla semina di quelle idee.  

lunedì 27 ottobre 2025

Senza guerriglia molti affari

 


Fibrilla il Parlamento turco, e ancor più il governo, per la ritirata definitiva del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che nella scorsa primavera ha chiuso il capitolo della lotta armata in Anatolia assieme ai fratelli delle Unità di protezione del Popolo (Ypg). Migrano tutti nel Kurdistan iracheno, fra i monti di Qandil, da decenni casa e casamatta della leadership kurda. Il Pkk ha decretato da maggio scorso il suo addio alle armi, anzi le ha pure simbolicamente bruciate in piena estate. Le Ypg le trasportano altrove, senza rivendicare l’autonomia della regione denominata Rojava. Un autogoverno da difendere con l’autogestione del territorio e della comunità e, quando occorreva, a colpi di mitra. Ma questo è il passato. Quella lotta era diventata impari, contro l’esercito di Ankara, e sullo scacchiere internazionale. Poiché fino a quando l’Isis agiva sul territorio siriano giungevano rifornimenti e armamenti statunitensi, poi è prevalso il graduale e inesorabile abbandono. Col mutare del quadro politico in Siria, il fronte anti Asad ha preso il potere e guarda a una transizione-trasformazione del territorio rimasto a lungo avamposto delle alleanze iraniane con Hezbollah libanese e Hamas palestinese. L’attuale Israele, che ha inferto duri colpi a entrambi, incarna la variabile impazzita col suo piano d’inglobare terre dei vicini. Non solo i palestinesi aggrediti con una peggiore Nakba che sa d’annientamento totale, ma a scapito appunto delle debolezze libanesi e siriane. Sostituendo Washington, Tel Aviv lancia l’amo del sostegno a senso unico verso i kurdi dell’ex Rojava, lusingandoli e illudendoli come sta facendo coi drusi. Appoggi, sovvenzioni, protezioni per usarne talune avversioni a proprio vantaggio. I leader del Pkk non si fanno irretire, però restano isolati in luoghi mai risultati centrali per lo stesso progetto dibattuto oltre quindici anni or sono da Erdoğan e Öcalan. In seguito congelato e di fatto reso praticabile in pochi mesi da chi aveva sempre avversato la grande minoranza kurda, il capo nazionalista Deviet Bahçeli, ora ferreo amico del presidente. 

 

Un accordo tattico per i due fronti. Utile all’Alleanza del popolo (Akp più Mhp) vincitrice delle elezioni nel 2018 e 2023, ma messa sotto pressione sui temi dell’economia, dell’autocrazia e della sicurezza dal Partito Repubblicano (Chp). Utile per il vicolo cieco in cui era finita la lotta armata, foriera solo di carcere e repressione a detta del medesimo leader storico Öcalan. Fra le sue richieste l’attuazione di quell’autonomia locale nelle aree del nord-est anatolico dove i rappresentanti kurdi sono eletti con ampie maggioranze ma subiscono commissariamenti, repressioni,  arresti. E l’altamente simbolico utilizzo della lingua kurda nelle stesse assemblee istituzionali come il Meclis. Proprio dello stallo di tali procedure s’è lamentato il portavoce kurdo nella conferenza stampa di ieri a Qandil, per tacere delle istanze di scarcerazione di reclusi eccellenti: Öcalan da ventisei anni, Demirtaş da quasi un decennio. I politici turchi plaudono convinti che tutto s’appianerà e guardano soprattutto i vantaggi dell’insperata pacificazione che risolleva la linea del ‘sultano’ tenuta a galla solo dal perpetuo suo moto diplomatico, ma che necessita d’un potenziamento sul claudicante fronte economico a lungo strapazzato da una straziante inflazione. Una piaga per la patria e i cittadini. Perciò politologi e analisti, ricordando le pazzesche ricadute finanziarie sulle casse interne (finora sono stati spesi 1,8 trilioni di dollari per la “lotta al terrorismo”), prospettano un futuro stabilizzato da progetti che potrebbero creare in tre anni più di 500.000 posti di lavoro. Evidentemente non indirizzati a reclutamenti dei Ministeri della Difesa e dell’Interno, come accadeva nella Turchia iper militarizzata degli esecutivi repubblicani ed erdoğaniani, bensì per agricoltura, turismo, servizi. E investimenti privati proprio nella depressa regione del nord-est. Quanto questa via sarà inclusiva e partecipativa per la gente kurda è la scommessa in atto. Al tempo stesso la pacificazione è la carta che lo Stato gioca a favore di due obiettivi al centro ai programmi di grandezza di Erdoğan. 

 

Quello di fare della Turchia un grande ‘hub energetico’ proiettato sui continenti europeo, asiatico e africano. Convogliando dai luoghi di estrazione: Paesi del Golfo e Libia fino al Caucaso e Mar Nero idrocarburi e gas, e fungendo da ponte di connessione e distribuzione. Chiusa la fase in cui i guerriglieri facevano saltare i condotti, il gasdotto transanatolico TANAP che trasporta 16 miliardi di metri cubi all'anno in Europa, TurkStream (31,5 miliardi di metri cubi nell'Europa sud-orientale), l'oleodotto BTC Baku–Tbilisi–Ceyhan fornitore di 1,2 milioni di barili al giorno,  sono esempi già esistenti in predicato di ulteriori implementazioni. Cui s’unisce il sogno sempre vivo di Mavi Vatan, la Patria blu. Cavallo di battaglia, pardon, vascello d’assalto della marina turca e del nazionalismo anatolico già all’epoca dei golpe militari, è tornata in auge fra gli ammiragli (dal suo ripropositore Cem Gürdeniz) con funzione di difesa delle cosiddette Zone Economiche Esclusive, tratti di mare di competenza delle nazioni prospicienti che nel Mediterraneo orientale vede penalizzata la costa anatolica per il ruolo giocato dalle isole greche e da Cipro. Al di là delle diatribe, comunque di non poco conto se si pensa alla gestione dei giacimenti di gas nello spazio di mare che interessano e coinvolgono Egitto, Gaza (l’unica diseredata e senza diritti) Israele, Libano, Cipro, Turchia e Grecia, Mavi Vatan su cui punta Ankara riguarda i traffici marittimi fra Mediterraneo, Oceano Indiano e Pacifico. Un affarone su cui dagli inizi del Millennio sta puntando la Cina per salvaguardare la sua linea commerciale diretta e per conto terzi nella ‘Via della seta’. Un impegno che per impotenza di capitali mercantili non coinvolge la Grecia e neppure un’Italia che ha svilito qualsiasi attività commerciale e infrastrutturale marittima ad ampio respiro. Per ora Middle Corridor (rotta commerciale dal sud-est asiatico e Cina attraverso Kazakistan, Mar Caspio, Georgia,  Turchia) funge già da affidabile ponte terrestre, ha trasportato 4,5 milioni di tonnellate di merci nel 2024 e alla fine di quest’anno supererà i 6 milioni. Dopo guerriglie interne striscianti e conflitti locali combattuti o mimati la Turchia senza terrorismo è pronta a cercare nuovi spazi di grandezza. Neo o post ottomani si vedrà.   

   


sabato 25 ottobre 2025

Gaza

 


Se tutto quello che doveva finire, è lì. E’ maledettamente lì mentre attorno s’affannano gli orchi delle soluzioni dorate, accanto ai fantasmi di risoluzioni definitive che di definito hanno solo un’inutile irrisolutezza, fra i ruderi di Gaza continua a muoversi l’indigente disperazione di chi è lasciato senza futuro nella speranza che muoia. E’ questa la lurida speranza sparsa da Israele a caccia di cadaveri dei propri prigionieri defunti e al tempo cacciatore delle vite gazawi, sebbene tutt’attorno si parla di “tregua”. La tregua non c’è finché si spara. Non esiste se attenta a quelle vite cui da più d’un anno si cerca di dare la morte per fame, freddo, malattie. Basta pensare come si è stato e come si sta al riparo d’una tenda fra i quaranta gradi estivi, con poca o nessuna otre d’acqua potabile. Sì, acqua da bere in uno spazio ridottissimo, non nell’esteso Sahara. Basta meditare come si starà fra due mesi nelle gelide notti che seguono il solstizio d’inverno. Sarà il terzo per i sopravvissuti al genocidio, pensato e attuato dal popolo eletto che intanto festeggia il ritorno a casa di chi s’è salvato dalla prigionia, ma non rivolge, non vuole rivolgere lo sguardo al popolo tenuto prigioniero nella Striscia. Ancora per poco, meditano gli orchi delle soluzioni dorate. Intanto le settimane scorrono e altri ammalati s’aggravano e crepano. E altri sopravvissuti s’ammalano, in un circuito della distruzione alimentato dalla geopolitica dell’orrido e dell’odio. Ai sessantottomila cadaveri di gazawi conteggiati, s’è detto più volte, occorre aggiungerne altrettanti e forse più rimasti sotto le macerie. E quelli che deperiscono per la straziante vita offerta dalla guerra e dalla sedicente pace. Una vita senza soluzioni. Dicono i Medici senza frontiere e la Mezzaluna Rossa: “Sono state documentate migliaia d’amputazioni e di casi di lesioni alla colonna vertebrale e al cervello, un numero sproporzionato che colpisce adulti e bambini”. Eppure le disabilità personali e collettive, ben oltre l’ultimo immane massacro, risiedono anche nell’impossibilità di rilanciare una propria dimensione e organizzazione sociale, non solo di soccorso sanitario e alimentare, ma d’istruzione, rapporti sociali, e serena umanità.

 

Questo accadeva da quando, vent’anni addietro, Gaza s’è emancipata dall’occupazione di Tsahal e dallo sfratto dei coloni. Da quando ha votato e ha scelto un partito, Hamas, su un altro, Fatah. I due gruppi per un mese si sono scontrati e sparati, lotta fratricida per il potere. Quindi ci hanno pensato Israele, l’America e l’Occidente a praticare e avallare un blocco aereo, marittimo, terrestre, il blocco dell’isolamento dal Medio Oriente anche quello a portata di check point, e dal mondo. Prigionieri. E bersagli di repressione. Dal 2007 Israele vietava l’ingresso di elementi di fibre di carbonio. Per costruite avveniristici telai di bici? No. Per armi altrettanto sofisticate. Neppure. Per curare – dicono gli ortopedici – le lesioni agli arti. Così per le resine epossidiche, utili alle protesi leggere e sopportabili. Disumana vendetta, eroi di Tsahal. Giovani schiavizzati a “difendere” uno Stato coloniale, complici delle ferite, delle infezioni e amputazioni, delle disabilità permanenti inferte a quei vicini di casa, cui avete rubato la casa, e che volete far morire per salire in alto nella gloria nazionale militare e poltica. A imitazione di Ben Gurion, Yitzhak Rabin, Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Shimon Peres. E Barak. E Sharon. Molti già terroristi. Tutti soldati e poi generali e Primi Ministri d’uno Stato in stato d’assedio permanente. Oggi per attuare il genocidio palestinese Israele crea generazioni di oppressi e disabili. A Gaza epatite e meningite si sono radicate perché Israel Defence Forces, anche dopo la risibile pace trumpiana, tiene a sua discrezione chiusi i valichi (Rafah, Erez, al-Karara, al-Shujaiah)  impedendo ai camion con vaccini e presidi medici di entrare. La mancanza di cibo e acqua disabilita lentamente i gazawi, causa carenze vitaminiche, deperimento muscolare, deterioramento cognitivo e soppressione immunitaria, aumentando la suscettibilità alle malattie infettive. Grazie ai giornalisti locali, quelli internazionali Israele li tiene lontani dall’Inferno che crea, osserviamo sequenze inquietanti di famiglie che spingono in modo impossibile i propri cari su sedie a rotelle antiquate, fra macerie e devastazione mentre le bombe esplodono dietro di loro.

mercoledì 22 ottobre 2025

Consulenze criminali

 


C’è un comune denominatore che nelle ultime settimane ha messo in relazione più dei tempi passati il presidente egiziano al Sisi e l’ex premier britannico Tony Blair: la gestione del potere. Che ciascuno esercita o ha esercitato nel proprio Paese, il generale del Cairo dal golpe-bianco del 2013, l’ex leader laburista nel decennio (1997-2007) di permanenza a Downing Street, e che ora riverbera le proprie inquietanti ombre sulla gestione futura della Striscia di Gaza. Da quando il ‘fautore della pace’ Donald Trump ha designato Blair quale capo staff per il sedicente “Transito internazionale di Gaza” e nel recente summit di Sharm el-Sheikh promosso il dittatore del grande Paese arabo quale timoniere delle trattative presenti e future, i due stravedono l’uno per l’altro. Del resto s’apprezzano da tempo. All’epoca delle “Primavere arabe” l’inglese che aveva terminato i suoi mandati, ma continuava a influenzare la geopolitica avviando una personale carriera di lobbista internazionale, attraverso proprie consulenze con la petromonarchia emiratina dette ‘suggerimenti’ sul da farsi al generale. Questi s’era presentato con una strage: mille o duemila (non si seppe mai) attivisti della Fratellanza Musulmana crivellati a colpi di mitra davanti alla moschea Rabaa al-Adawiyya per spodestare l’islamista Morsi dalla presidenza.  Da quel momento il comune nemico islamista (che Blair aveva personificato nel popolo iracheno provocandone massacri con la guerra del 2003) sarebbe stato spazzato via in metropoli e villaggi egiziani con qualunque mezzo. Cioè assassini di singoli e gruppi, sparizioni a migliaia, arresti a decine di migliaia, condanne, detenzioni a vita, misteriosi suicidi carcerari e tonnellate d’intimidazioni per favorire un potere tuttora duraturo fra il plauso e l’omertà della comunità internazionale anche al cospetto di tali crimini. Blair, del resto, propone consulenze diffuse a livello planetario con una meticolosa organizzazione che porta il suo nome “Tony Blair Institute” (megalomania o strapotere?) ammantando l’iniziativa da missione, quasi umanitaria.  

 

Aiutiamo i governi e i leader a fare cose - recita il suo sito -. Lo facciamo consigliando strategia, politica e sbloccando la potenza della tecnologia in tutti i campi. Come no-profit possiamo lavorare nei contesti più impegnativi e sui progetti più trasformativi perché il nostro focus è sui leader piuttosto che sui profitti. E come organizzazione apartitica, possiamo portare il meglio della nostra esperienza ai leader che vogliono tradurre la loro ambizione in un'azione significativa per le loro persone”. Parrebbe una sorta di Ong, a-partitica, a-confessionale, che però odia l’Islam politico, soprattutto interfacciandosi a leader arabi (al Sisi, bin Zayed, bin Salman) che praticano la repressione di questa componente politica vista non come avversario, ma nemico da sradicare e seppellire. Politicamente e non solo. In tal senso il piano per la transizione a Gaza secondo i progetti trumpiani è un tutt’uno con le volontà d’Israele: distruggere militarmente e politicamente Hamas, porre in esilio l’attuale leadership favorendo la collaborazionista Anp, deportare i gazawi, collocarli in campi profughi magari egiziani (Sisi è stato scelto per collaborare), libanesi, siriani. Tanto per allungare lo sguardo sul corpo dell’Istituto di Blair, a esso collaborano operatori di qualità (https://institute.global).  Lunga e fitta è la lista, ci sono tanti giovani esperti provenienti dai Paesi dell’Europa un tempo colonialista e oggi ambiguamente sostenitrice di cambi di regime. Ma pure consulenti dei Paesi più colonizzati, africani e non. Certo, quando nella lista s’incontra il nome di Matteo Renzi (dal giugno 2024 c’è anche lui), ex premier come Blair, ex sedicente progressista sulla medesima via del leader laburista che nel Regno Unito ha spalancato le porte al neo thatcherismo del Terzo Millennio, mentre in Italia il rampollo fiorentino incarnava una personale versioncina del berlusconismo affarista e demolitore dello Stato pubblico, qualche dubbio sorge. A chi giovano questi aiuti? All’affarismo criminale che soggioga popolazioni, con la forza come accade a palestinesi ed egiziani, o con le lusinghe di finanziamenti, rilanci, innovazioni, quelli passati attraverso il sistema Trump-Blair. Per il futuro della Striscia l’ex leader laburista pare  incarnare il ruolo del liquidatore, come fu il connazionale Herbert Samuel, “commissario” sostenitore del sionismo che negli anni Venti del Novecento disgregava la Palestina a favore del futuro Israele.