martedì 9 dicembre 2025

Metamorfosi geopolitiche

 


Una delle metamorfosi, perlomeno estetiche e formali, più temerarie della geopolitica degli ultimi tempi riguarda Ahmad al Sharaa, attuale leader e presidente ad interim della Siria post Asad. Nato qaedista e vissuto come jihadista col nome di Mohammad al Jolani fino alla definitiva presa di Damasco d’un anno fa, dopo poche settimane dall’iniziale gestione del potere per “il rilancio della Siria” ha dismesso la mimetica per una più rassicurante mise istituzionale che gli conferisce l’apparenza statista. Unico retaggio del passato l’ostentazione d’una folta barba, simbolo maschile di fedeltà alla Sunna e al profeta. Alcuni analisti che ne hanno esaminato l’ambiziosa scalata nella politica locale sin da quando praticava i primi spari da miliziano islamista, lo dipingono più adatto all’azione che alla teoria. Ma il suo sponsor geopolitico residente ad Ankara, prevalentemente il Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’Intelligence del potente vicino, interessata ai sommovimenti siriani del 2011 e coinvolta nella successiva guerra civile siriana, ha esaminato e promosso l’evoluzione del nucleo con cui l’allora al Jolani gestiva un’enclave diventata vitale per la corsa verso Damasco: la cittadella di Idlib. Passata dal controllo ribelle del Fronte al Nusra e Ahrar al Sham di cui il governo Erdoğan era finanziatore, alla riconquista dei lealisti di Asad e ai bombardamenti dell’aviazione russa che sosteneva il regime. Poi nel 2017 l’area venne ripresa da Hayat Tahrir al Sham di cui al Jolani era l’esponente di spicco. Note turche diffuse dopo la stabilizzazione dei rapporti con al Sharaa rivelano che inizialmente il Mit non aveva puntato con certezza su di lui, però gli islamisti rivali avevano subìto troppi intoppi e fallimenti proprio nello “staterello” di Idlib e nella gestione del passo montano di Bab al Hawa, a neppure cinque chilometri dalla frontiera turca, luogo di transito degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. 

 

I Servizi turchi osservavano e valutavano, e la gestione di amministratore di al Jolani appariva la più efficace rispetto ai jihadisti foraggiati da Ankara. Chi oggi, pur a mezza bocca, ne parla evidenzia un gioco delle parti: lo stesso al Jolani dalla sua Idlib mostrava segni d’intesa verso chi fino al quel momento gli preferiva altri soggetti. Nel suo piano che, possiamo ipotizzare, mirasse a un posto di totale rappresentanza della ribellione anti Asad, Jolani cercava d’avvantaggiarsi strizzando l’occhio ad Ankara com’essa studiava la convenienza cambiando in corsa le sue preferenze. Non è dato sapere se lo sdoganamento del leader di HTS sia partito dalla mente che gestiva per Ankara il dossier siriano, Hakan Fidan. Certo è che quando quest’ultimo è stato proposto dal suo mentore al ministero degli Esteri (il 2 giugno 2023) il successo dei ribelli non era scontato, ma la fisionomia del conflitto era segnata dal locale disimpegno russo che da sedici mesi concentravano sul fronte ucraino ogni armamento di terra e d’aria. Probabilmente la scelta fra Turchia e gruppo Jolani è avvenuta in contemporanea e ognuna delle parti ha valutato vantaggi e bontà del rapporto. Detto col senno del poi il jihadista trasformato in traghettatore del futuro di Damasco sta piacendo a un pezzo del panorama diplomatico che osserva quel cuore squassato del Medioriente ch’era diventata la Siria. E pure chi come l’Unione Europea sta da anni concentrando attenzione e impegno bellico-economico sul versante ucraino, non disdegna prossime commesse di ricostruzione magari varando joint-venture con aziende turche. L’unico irritato è Israele perché si trova la Turchia a contatto di gomito, tantoché ha provato a riportare l’instabilità sul territorio siriano ampliando le sue occupazioni oltre il Golan, foraggiando il malcontento fra la minoranza drusa; quella alawita, pur scontenta del nuovo corso, è refrattaria a “protezioni” sioniste. 

 

Eppure fra una geopolitica applicata agli interessi regionali e i sottili percorsi ideologici che caratterizzavano la galassia del fondamentalismo islamico che per anni ha combattuto, s’è alleata e poi s’è divisa nel gran caos dei vari campi di battaglia siriani, il gioco più variegato, rischioso, azzardato l’ha condotto lo Stato turco. Oggi il suo ruolo politico internazionale appare ulteriormente rafforzato, ovunque. Davanti ai risolutori-impostori come Trump e Putin gestori di conflitti e tregue all’apparenza impossibili, quindi nei territori piegati e piagati da una scia sanguinaria com’era la Siria dove Ankara s’è liberata di due avversari: il regime degli Asad e l’esperienza del Rojava kurdo. E ancora attraverso la rottura del blocco jihadista che il governo Erdoğan ha utilizzato e selezionato. Scegliendo e promuovendo il “Signor metamorfosi” gestisce il presente in maniera più scaltra e intrigante rispetto a quanto altri contendenti regionali (Iran, Arabia Saudita, Qatar) hanno finora fatto tramite soggettive campagne ideologico-militanti o consumistico-attrattive. E’ una giostra nella quale il navigato premier, presidente e neo sultano turco è salito volentieri convinto di poterla controllare a suo piacimento e divertimento. Gli sviluppi gli stanno dando ragione, visto che gli intoppi maggiori alla sua gestione politica li aveva riscontrati tutti all’interno col susseguirsi di crisi finanziaria e un’inflazione stellare parzialmente rientrate per impulso della produzione bellica immessa sul mercato mondiale (è il segno dei tempi e l’industria tecnologica turca s’è adeguata) e l’attività di servizi in cui il turismo brilla. Mentre il pericolo di un’opposizione montante è stato disinnescato con una carezza riservata ai kurdi che archiviano la lotta armata del Pkk in cambio d’un riconoscimento delle proprie amministrazioni nel nord-est anatolico. E il pugno di ferro della repressione giudiziaria scagliato sugli esponenti del partito repubblicano, impossibilitati come accade a İmamoğlu a riscendere nell’agone elettorale. Quest’aria da micro impero basata su controllo, alleanze ed egemonia anziché conquiste dirette e dominio sembra pagare e appagare pure i soci che Ankara ritiene sudditi.

venerdì 5 dicembre 2025

Marwan deve morire

 


Denti rotti, costole pure, un pezzo d’orecchio mozzato. E’ l’ennesimo pestaggio, la famiglia ne ha contati cinque in due anni, subìto da Marwan Barghouti nel luogo di detenzione a opera delle guardie carcerarie d’Israele. Ordini che vengono dall’alto, magari dallo stesso ministro della Sicurezza Ben Gvir che nell’agosto scorso gli si è parato davanti per minacciarlo, offenderlo, umiliarlo. Nella foto diffusa in quell’occasione dalle stesse autorità israeliane, il sessantaseienne leader delle cellule Tanzim di Fatah, attive durante la seconda Intifada e membro del Consiglio legislativo palestinese, era apparso invecchiato, emaciato, fortemente logorato da una detenzione che dura dall’aprile 2002 per cinque ergastoli inflittigli su omicidi peraltro mai provati. Il ministro col piglio del boia nel corso della “visita” al prigioniero aveva parlato di annientamento da praticare nei confronti suoi e di altri detenuti politici. E’ stato Arab Barghouti, uno dei figli, a offrire ai media la notizia degli agghiaccianti particolari delle lesioni inflitte al genitore, gli erano state riferite da un altro prigioniero scarcerato di recente. Mentre un possibile rilascio di Marwan, discusso nelle trattative dei rappresentanti di Egitto, Qatar, Hamas con la delegazione israeliana, ha visto quest’ultima sempre contraria sebbene abbia gradualmente ricevuto e concluso il recupero di ostaggi vivi e di cadaveri dei deceduti nell’incursione del 7 ottobre 2023. Su Marwan Barghouti non grava solo il veto d’Israele che continua a ritenerlo uno dei palestinesi più pericolosi sul piano politico, vista la popolarità totale e trasversale di cui gode capace di spezzare la dicotomia fra le due fazioni storiche della rappresentanza palestinese in Cisgiordania e pure a Gaza. Il suo rilascio romperebbe i piani della componente collaborazionista di Fatah incarnata da Abu Mazen e dai suoi amministratori, propensa da tempo a seguire le indicazioni di qualsiasi maggioranza prevalga nella Knesset. L’esclusione dalle liste di scarcerazione del leader dei Tanzim veniva auspicata dalla stessa Autorità Nazionale Palestinese che continua a vederlo come un avversario alla propria sudditanza alle volontà israeliane, anche ora che lo Stato ebraico sceglie di praticare il genocidio diretto o strisciante dei gazawi e dei fratelli di Cisgiordania. E’ la coerenza alla causa e al diritto di resistenza sotto ogni forma anche armata, è l’integrità morale, l’impegno esclusivo verso il popolo che i burocrati di Fatah disdegnano nella persona di Barghouti. E’ la coscienza libera che una dirigenza opportunista, meschina, corrotta non riesce a sopportare. Così Marwan pur in cima alla lista degli oltre diecimila prigionieri palestinesi, e sono certamente di più come le vittime della Striscia perché Israele cela e svia informazioni su fermi e arresti, non deve uscire di galera. Anzi è auspicabile che lì trovi la fine dei suoi giorni. La “democrazia” di Tel Aviv fa il possibile per accelerare i tempi non di rilascio bensì d’una soluzione finale per questo detenuto. Non spiacerebbe anche ad altri.

venerdì 28 novembre 2025

Medioriente profanato

 


Ha voglia il papa americano a lanciare il suo primo viaggio apostolico in Medioriente, missione di pace dice lui stesso “nonostante le differenze, nonostante le fedi”.  I due Paesi dove riposiziona la diplomazia vaticana - Turchia e Libano - hanno nel credo islamico il seguito maggiore. Ma le antiche tracce del cristianesimo, poi diviso già nell’antica Nicea e nei concili seguenti, vantano in quei luoghi radici che il pontefice cattolico vuole rinverdire, proponendo dialoghi interreligiosi e possibili tavoli diplomatici per la cessazione dei conflitti. Eppure l’incontro coi locali capi di Stato, in questi giorni il turco Erdoğan, da domenica il meno potente libanese Aoun, restano vaghi e lui ampiamente impotente davanti a chi continua a devastare la regione: il sionismo israeliano e il fondamentalismo ebraico. Nei giorni precedenti al viaggio di Leone l’Idf ha continuato ad assassinare e devastare. Proprio nella capitale libanese, nel quartiere sciita di Haret Hreik, dove il nemico individuato era Ali Tatatabai miliziano di lungo corso di Hezbollah, il missile destinato alla sua fine ha ucciso anche civili. Come sempre fa Israele. Lo scorso anno il Libano fu devastato da uno stillicidio di omicidi mirati. Ma per eliminare noti esponenti del Partito di Dio: Fuad Shukr prima, quindi Hassan Samir, Nabil Kawak, Muhammad Ismail, Hussein Ismail, Muhammad Qabisi, Ibrahim Sharaf Ad-Din, Hussein Hany, Ali Karaki, Muhammed Hussein Srour, l’aviazione di Tel Aviv ha triturato le vite di settecento abitanti. Quando è stato disintegrato il leader religioso sciita Hassan Nasrallah, colpito sottoterra nel quartier generale del gruppo mentre era in corso un incontro di vertice, il super ordigno proveniente dagli arsenali statunitensi capace di radere al suolo l’edificio e perforare il cemento del bunker, s’è portato via centinaia di persone. Tale pratica, con ordigni più o meno sofisticati, prosegue.

 

Mentre taluni potenti blaterano di pace e futuro dietro al piano speculativo di Trump per Gaza, mentre l’uomo in bianco dei cattolici nell’anno dell’affollato Giubileo esce dalle stanze vaticane e ripropone l’eco pacifista del predecessore, non solo la realtà è ancorata a un frustrante immobilismo, ma in queste ore nel sud del Libano, a Jenin e Tubas in Cisgiordania, a Beit Jinn in territorio siriano permane la criminale linea d’Israele fatta d’assassinio e occupazione. Proseguono le incursioni di Tsahal e i suoi omicidi extragiudiziali di presunti nemici. Quando questi nemici hanno tre o cinque anni il livello di devastazione d’ogni umana sopportazione non è solo calpestato, è trasformato in progetto sanguinario. Questa è la linea d’Israele in faccia alle anime belle dei cantori (la voce dei media ne è piena) che danno sponda alla sua presunta distruzione, alla “necessità di difesa e sicurezza”, ai diritti del popolo ebraico che vuol vivere in pace, un banale ossimoro per uno Stato nato dal terrorismo pregresso dei propri fondatori. Il Libano dove il padre santo mette piede domani è stato devastato da una guerra civile, in cui per tutti gli anni Ottanta i cristiano-maroniti hanno praticato stragi collaborando con le truppe occupanti dell’Idf. La più infame resta Sabra e Shatila, ex periferia sud della capitale da tempo integrata nel pur travagliato abitato. Un campo palestinese tuttora esistente come la condizione di quelle famiglie, rifugiate perenni. Lì i mercenari di due fazioni cristiano-maronite, i falangisti di Hobeika e i miliziani di Haddad, a metà settembre 1982 sgozzarono e passarono per le armi tremila fra vecchi, donne e bambini d’un territorio rimasto senza difesa per il forzato ritiro dei combattenti dell’Olp. Tutto con la compiacenza e la copertura dell’esercito israeliano di Ariel Sharon. Perché serve ricordare il passato? Perché l’Israele squarciata dall’assalto del 7 ottobre non guarda mai la scia di sangue che ha seminato dall’epoca della sua creazione e prim’ancora. Alla stregua della stessa geopolitica intenta a discutere del futuro davanti a un presente identico al passato e più infarcito d’inenarrabili crimini. Dica il padre santo se le fedi possono benedire questo buio dell’anima.

martedì 25 novembre 2025

Torna la morte dal cielo

 


La quiete dopo vent’anni di tempesta che aveva caratterizzato il primo biennio del secondo Emirato afghano, fino più o meno all’inverno 2023, ha definitivamente ceduto il passo a nuovi venti di guerra. Per chi abita sul confine orientale afghano e occidentale pakistano riappaiono tensione e morte. Stanotte, violando un cessate il fuoco stabilito nelle scorse settimane grazie alla mediazione di Qatar e Turchia, l’aviazione pakistana ha bombardato il distretto di Gurbuz, uccidendo nove bambini in un’abitazione di Khost. Squassate dal cielo anche altre abitazioni nelle province di Kunar e Paktika che registrano feriti. La risposta del portavoce talebano da Kabul è stata perentoria: dopo l’ennesima ostilità contro i civili le forze dell’Emirato reagiranno. Reagiranno come? In un’ottica militare la partita è improponibile. I talebani afghani non hanno né aviazione né un esercito degno di questo nome. Negli anni della resistenza anti Nato la loro forza s’è basata sulla guerriglia locale e urbana e sull’infiltrazione nell’esercito che gli Stati Uniti avevano predisposto durante i governi collaborazionisti di Karzai e Ghani. Opporsi a un gigante militare come il Pakistan risulta difficile anche alla ciclopica India, figurarsi cosa pensano le stellette d’Islamabad dei vicini in turbante. Poco meno che profughi, come i milioni ammassati nell’area di Peshawar. Però quei vicini, quegli ex mujaheddin risultano formidabili combattenti territoriali e in tutto il periodo della guerra civile afghana negli anni Novanta e del successivo ventennio di occupazione Nato, i governi e le Forze armate pakistane provavano a influenzare il disastrato territorio di confine senza riuscirci, al di là di qualche attentato magari organizzato dall’agenzia Inter Services Intelligence che tornava comodo agli stessi taliban. 

 

In genere è accaduto il contrario: talune zone pakistane abitate da gruppi tribali che si rapportano ai talebani hanno rappresentato porti franchi e nascondigli per miliziani del jihad. Questa è l’accusa che apertamente da più d’un anno il governo guidato da Sharif in connubio col super generale Munir lancia all’Emirato: voi ospitate e proteggete quei nuclei fondamentalisti (Tehreek-i Taliban, Jamat-ul Ahrar) che seminano autobombe nelle metropoli pakistane. L’ultima esplosione è di tre settimane fa a Islamabad e voi siete corresponsabili. Un’accusa non accertata risponde Kabul, sebbene ciascuna parte sa che quando si parla dei confini citati non c’è limitazione che tenga, perché è la stessa popolazione frontaliera ad attraversarli in continuazione per i propri traffici mercantili. E’ stato provato che in varie circostanze i nuclei di attentatori camuffano le trasmigrazioni bombarole con sembianze mercantili. Per la politica interna di Islamabad, recentemente suffragata da una svolta ancora più favorevole alle Forze Armate attraverso una modifica costituzionale, è in gioco la credibilità del proprio potere. Visto che gli agguati dei TTP si ripetono con frequenza, fra domenica e lunedì è stata attaccata una caserma di polizia a Peshawar.  Così avere un nemico esterno su cui convogliare l’adesione patriottica della propria gente è un salvagente per la leadership del partito di governo Lega Musulmana-N. Meno favorevole diventa la linea degli avversari diffusi e crearsene sui confini orientali (India) e occidentali (Afghanistan) come sta facendo Shahbaz Sharif diventa una tattica nient’affatto vantaggiosa. Gli stessi rappresentanti della riconciliazione locale sono preoccupati: l’afghano-statunitense Khalilzad che traghettò il passaggio all’attuale regime di Kabul ha dichiarato che non è possibile tornare a uccidere i civili in un territorio martoriato da cinquant’anni di conflitti.

venerdì 21 novembre 2025

Fuoco kashmiro

 


I figli, il padre, la repressione, l’immolazione. Potrebbe essere la trama d'una pièce teatrale, è una cruda realtà dell’odierno Kashmir. La regione geografica divisa fra India e Pakistan dove nella prima il governo Modi ha sospeso da sei anni l’autonomia gestionale, imponendo ai cittadini, in gran parte di fede islamica, restrizioni e imposizioni politico-amministrative. Più cospicue immissioni coloniali di famiglie hindu. E’ la linea dell’occupazione mascherata che da decenni Israele attua in Cisgiordania colpendo il territorio e i palestinesi che lo abitano. Giorni addietro i reparti speciali della polizia indiana si sono introdotti nell’abitazione della famiglia Bilal, prelevando i giovani Jasir e Nabeel Ahmad. L’accusa: appartenere alla rete ribelle che opponendosi al governo di Delhi s’è resa responsabile dell’attentato nel cuore della capitale indiana e provocato tredici vittime. La colpa dei Bilal sta nell’abitare accanto al dottor Ahmad Rather, sospettato d’aver predisposto l’autobomba deflagrata nei pressi dello storico Forte Rosso.  Wani, il padre dei ragazzi, si dispera. Dopo il loro fermo va dalla polizia, dichiara che i figli non s’occupano di politica, né praticano agguati omicidi. Nessuno l’ascolta, anzi lo minacciano d’arresto se avesse insistito nella protesta. Wani e la sua famiglia sono d’origini umili. Lui è un venditore ambulante di frutta, di quelle mele che crescono rigogliose sul territorio. Però non sa a chi rivolgersi, men che meno agli amici del dottore accusato di terrorismo. Passa alcuni giorni d’angoscia, raccontano i vicini, non mangiava né usciva più, né per lavoro né per commissioni. Finché domenica scorsa Wani si dà fuoco. Lo trasportano d’urgenza all’ospedale di Srinagar, ha il corpo devastato. Le ustioni hanno liquefatto l’80% della cute, il volto è irriconoscibile, i sanitari disperano di salvargli la vita. Infatti dopo un giorno di ricovero il cuore si ferma. Definitivamente. 

 

Una vicenda che, per chi segue la geopolitica dalla parte degli oppressi, ricorda il dramma dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, immolatosi per protesta contro il regime di Ben Ali nel dicembre 2010 e diventato simbolo delle rivolte scoppiate nei mesi seguenti dal Magreb al Mashreq. Il Kashmir s’è ribellato in varie occasioni alle norme accentratrici di Modi, ne sono scaturiti morti di strada e arresti di massa. Attivisti, giornalisti, intellettuali sono incarcerati da anni, tre nomi per tutti: Khurram Parvez, Irfan Mehraj, Shafat Wani per ciascuna delle categorie. Per i due Wani, solo omonimi del citato studioso, difficilmente si creeranno rivendicazione perché il clima repressivo è diventato amplissimo e raffinato. Ormai il Kashmir sta subendo una trasformazione identitaria attraverso l’inserimento nel territorio di famiglie hindu, meglio se fanaticamente hindu come stabilisce la linea politica del partito di maggioranza Bharatiya Janata Party. Una tattica d’inserimento etnico-religioso cui fa seguito la discriminazione programmata dei cittadini musulmani. E quando questo non basta vere persecuzioni per sradicarli rendendogli impossibile la quotidianità. La distruzione delle abitazioni di chi è solo sospettato di ribellione, in tanti casi ingiustamente, è diventata una pratica diffusa. Nell’ultimo quadriennio si sono registrate milleduecento di queste distruzioni denuncia il Legal Forum for Kashmir. Chi perde la casa spesso non può proseguire neppure le povere occupazioni, in genere manuali concesse ai locali islamici, e va via. Certo, fra loro esistono pure professionisti, è il caso del gruppo di medici accusati dalla polizia indiana d’aver organizzato l’attentato di Delhi, ma si tratta d’eccezioni. La polizia sostiene d’aver trovato un’enorme quantità di esplosivo in dotazione ai sanitari membri d’una cellula terrorista. Ma tutto dev’essere provato dalla magistratura. Per ora prosegue la repressione, che colpisce alla cieca inserendo fra i ricercati vicini di casa, com’è accaduto ai fratelli Wali. Per la disperazione e il terribile gesto del loro genitore.   


 

martedì 18 novembre 2025

Bomba costituzionale

 


L’autobomba che devasta il diritto costituzionale pakistano deflagra in Parlamento. La innescano le due famiglie padrone incontrastate della politica del Paese, gli Sharif e i Bhutto, tramite i rispettivi partiti: Lega Musulmana-N e Partito Popolare Pakistano, solitamente avversari per ragioni di dominio e potere, ma stavolta riuniti in un voto che sancisce un blitz istituzionale. La comune approvazione del 27° emendamento alla Costituzione trasforma il potere forte della lobby militare in potere fortissimo. Rafforza oltremodo il legame fra il ruolo dell’esercito e quello della casta politica più inamovibile, la loro, di fatto proprietaria del simulacro di democrazia che sono le Camere. A farne le spese - insieme alla divisione dei poteri, a chi è fuori dalle logiche spartitorie di militari e clan, ai semplici cittadini - gli outsider della politica come l’ex premier Khan, già estromesso in malo modo con accuse personali, attentati d’avvertimento, pene domiciliari e quelle da scontare in prigione. Con l’aria che tira difficilmente saranno possibili exploit simili a quello del suo partito, Tehreek-e Insaf, che nel 2018 vinse le elezioni, imponendosi come movimento anti casta. Allora i militari tollerarono l’ingerenza, ma per poco. Quel governo anti casta e anti corruzione non terminò neppure la legislatura, fu estromesso con un ribaltone partitico, la defezione di alleati minori, e pseudo giudiziario. Ma ora è anche il potere giudiziario a tremare. Una nuova  Corte Costituzionale viene insediata con giudici nominati dall’attuale Capo dello Stato, Ali Zardari, già marito della defunta Benazir Bhutto e noto come “Mister ten per cent” la percentuale tangentizia che intascava per ogni iniziativa istituzionale, e dal governo retto da Shehbaz Sharif, fratello d’un altro pregiudicato della corruzione: l’ex premier Nawaz. L’ambientino è niente male e si perpetua da decenni.

 

 

Ora, però, compie un salto di qualità. Vanifica la divisione dei poteri (in confronto l’Italietta di Meloni e Nordio risulta dilettantesca), il presidente incassa l’immunità nonostante le molteplici pendenze a carico, il feldmaresciallo Asim Munir ingigantisce i suoi privilegi e amplia il controllo su tutte le armi (Esercito, Aviazione, Marina) dotate, non da oggi per volere statunitense, di 165 testate nucleari. Nel quinto Paese più popolato al mondo. Del resto Munir in persona e l’aviazione nazionale sono stati osannati dall’attuale esecutivo quali vincitori (sic) della settimana di fuoco con cui nel maggio scorso hanno abbattuto cinque aerei da guerra indiani negli scontri sul confine kashmiro contro il nemico di sempre. E quasi reincarnasse Zia-ul Haq, il presidente-dittatore anch’egli generale ed accentratore dei poteri nelle sue mani nel decennio 1978-88, Munir accende lo scontro con l’India induista coi tratti della religione islamica grandemente maggioritaria nel proprio Paese. I musulmani d’ogni colore politico dovrebbero riconoscersi e abbracciare questo nuovo stato delle cose che di nuovo ha il patto d’acciaio fra militari e clan politici, in altre fasi vantaggioso solo per i primi. Per la storia Zia-ul Haq compì il suo golpe contro un capostipite dei Bhutto, Zulfiqar Ali che finì addirittura impiccato. Però verso i cittadini comuni, magari elettori anche dei soliti noti sempre adusi a tangenti e voto di scambio, il passo compiuto è assolutamente tranciante: il governo sceglie il corpo giudicante, cambia le regole costituzionali a suo piacere, stabilisce esclusive immunità di ceto, patteggiando con generali e ammiragli un ricambio di favori dilatato nel tempo. Non risultano reazioni del Convitato di Pietra della nazione: l’Inter Services Intelligence, un tempo lunga mano della Cia che ne preparava i membri, oggi un po’ meno.  L’agenzia in varie occasioni ha giocato la personale partita, a favore dei gruppi familiari e/o delle Forze Armate. O contro tutti. Duettando con il jihadismo presente sul territorio. Seppure i propri vertici provengano in gran parte dall’esercito, l’Isi è uno dei Servizi più imprevedibili della geopolitica internazionale. E non c’è da stupire se il recente attentato di Islamabad che ha preceduto d’un paio di giorni il voto parlamentare sia opera più sua che degli accusati talebani interni. Frattanto l’attentato alla Costituzione può provocare esplosioni socio-politiche più gravi dell’autobomba d’una settimana fa.

lunedì 17 novembre 2025

Incendi anti migranti

 


Dicono i volontari triestini di Linea d’Ombra, No Name Kitchen, della Onlus Ufficio Rifugiati che nel vecchio porto cittadino gli incendi sviluppatisi nell’ultima settimana sono dolosi. Dinamiche, informazioni, testimonianze rendono l’ipotesi plausibile visto che risultano colpiti locali dismessi dove trovano riparo profughi e rifugiati. Testate locali attribuiscono i roghi a fuochi di fortuna accesi da chi abita quei luoghi, invece ultimamente proprio due giovani afghani di ronda negli edifici hanno messo in fuga individui che provavano a incendiare tubi corrugati di plastica depositati nei pressi dei locali. Gli assalti dei piromani si sono susseguiti per alcuni giorni dal 10 novembre, bruciando sacchi a pelo, povere masserizie, quanto le persone raccolte nella sistemazione di fortuna tenevano a riparo. I punti d’incendio sono diversi, nei piani inferiori e superiori, così i tentativi andati a segno e quelli limitati per l’intervento dei migranti stessi, dei cittadini volontari che hanno avvisato Vigili del Fuoco e Carabinieri, costituiscono un allarme per l'incolumità di tutta la popolazione, migranti e residenti. Le associazioni di volontariato fanno notare una diffusione di considerazioni, anche con l’ausilio della stampa locale, miranti a criminalizzare quei rifugiati che in mancanza di misure di sostegno e inadempienze istituzionali sono costretti a utilizzare gli edifici, ma chi appicca roghi e soffia sul fuoco son ben altri. Per le reiterate modalità degli episodi, oltre al reato di danneggiamento d’un bene edilizio, si prefigurano quelli di possibili lesioni fino all’omicidio di chi frequenta la struttura. L’allarme sociale sono i piromani con intenti delittuosi, non chi trova un giaciglio di fortuna nell’incipiente inverno. 



 
 
 


 

venerdì 14 novembre 2025

L’autobomba e la piazza

 


Mentre la polizia pakistana dichiara d’aver arrestato alcuni miliziani della catena omicida di martedì a Islamabad (12 vittime e oltre 30 feriti) l’islamico Pakistan s’interroga se temere maggiormente gli agguati dei Tehreek-e Taliban o le violente manifestazioni di massa e il cospicuo peso elettorale dei Tehreek-e Labbaik. Le due formazioni islamiste hanno radici teologiche differenti. I TTP s’ispirano a un deobandismo radicale che chiede l’applicazione della Shari’a nella legiferazione statale. Anche i TLP agognano la legge coranica ma secondo una visione barelvi di giurisprudenza hanafita sussunta da varie scuole sufi. Tradotto volgarmente e pragmaticamente le due tendenze si detestano e combattono da secoli, mentre nell’attuale politica ciascuno segue la propria agenda. I primi risultano fuorilegge e clandestini, i secondi sono addirittura radicati in Parlamento. Il percorso istituzionale di Tehreek-e Labbaik, diventato partito nel 2015 e solo dal 2018 presente alle urne, con punte massime di consenso nel Punjab ma con una diffusa forza d’erosione verso i partiti tradizionali d’ispirazione islamica come la Lega Musulmana–N, è tenuto  sotto osservazione dai politologi. E’ accaduto che in alcuni governatorati (c’è anche l’industrializzata Karachi) quasi la metà degli elettori del PML-N abbiano voltato le spalle al clan Sharif convogliando il consenso sul movimento di protesta inventato da Khadim Rizvi. Animatore e agitatore d’un raggruppamento conservatore islamista che attaccava la corruzione e la speculazione dei vecchi ceti nazionali incarnati dalle famiglie Bhutto e Sharif. Accadeva nella consultazione vinta da Imran Khan, il campionissimo di cricket, creatore anch’egli d’un partito Tehreek denominato Insaf, dunque Movimento per la Giustizia, che con un exploit elettorale l’ha portato al governo. Khan raccoglieva i frutti d’un programma populista scagliato contro le camarille tangentizie che a turno i mammasantissima della politica pakistana, Sharif e Bhutto, implementavano a vantaggio dei propri conti correnti, sotto l’occhio  dell’onnipresente lobby militare. Però nelle elezioni del 2018 i generali guardarono con interesse il ricco, bello, famoso e outsider della politica, spendendo parole al miele per la sua scalata al potere. 

 

Se una parte dei ceti marginali riversava il consenso su Khan, un altro ceppo di proletariato rurale e urbano, religiosissimo sino al fanatismo, seguiva Rizvi. Dalla sedia a rotelle impostagli da un incidente stradale nel 2006, il barbuto leader non faceva mancare la voce ai comizi e nelle gigantesche manifestazioni di piazza. E nelle strade dove gli scontri erano all’ordine del giorno. La capitale, Lahore, Rawalpindi tutte popolosissime hanno visto gli attivisti TLP inscenare cortei, erigere barricate, scontrarsi senza timore con le Forze dell’ordine. Morire e uccidere creando un’instabilità crescente. Chiuse scuole e autostrade, sospesa la telefonia mobile, lo scarico dei container, la stessa distribuzione di merci e viveri per le agitazioni dove i Labbaik conquistavano il primato e mettevano in difficoltà anche gruppi legati a proteste e scioperi come il Muttahida Qaumi Movement di Mustafa Kemal. Sì, una denominazione all’Ataturk per l’ex sindaco di Karachi che accusava: “I Rizvi, padre e figli, usano la religione come un’arma”. Poi cinque anni fa il genitore morì, probabilmente per un’infezione di Covid, Saad ne ha ereditato leadership e impeto oratorio, senza il timore di finire incarcerato; anzi per questo sostenuto da piazze sempre caldissime e reattive contro la repressione. Se la politica di maggioranza e taluni magistrati hanno cercato di carezzare figure religiose dell’élite barelvi così da allontanarle dalla militanza del partito Labbaik, la tattica non fa presa fra i supporter che dicono “Non ci sono buoni e cattivi barelvi”. Certo gli attacchi infuocati, anche nel senso stretto del termine, con cui i militanti si sono scagliati in più occasioni accusando di blasfemia minoranze religiose, soprattutto cristiane, hanno creato casi di rilevanza internazionale. Bruciare chiese, aggredirne e uccidere i fedeli è poco giustificabile per il ceto politico pakistano leale all’Islam ma non complice del fondamentalismo. Comunque quello che cammina sulle gambe di milioni di militanti ed elettori TLP, che vorrebbe giustiziare i giudici assolutori della ‘blasfema’ Asia Bibi, che considera un martire il poliziotto Qadri condannato a morte per l’assassinio del governatore difensore della donna cristiana, è più insinuante e potente delle autobomba disseminate dai kamikaze talebani.

mercoledì 12 novembre 2025

La linea dell’autobomba

 


L’incrocio di autobombe nei centri pulsanti di Nuova Delhi, lunedì scorso, e di Islamabad, ieri, con un numero imprecisato di vittime in India e dodici accertate in Pakistan pone i due giganti demografici in condizione di allerta interno e di contrapposizione estera. Al punto che il premier e il ministro della Difesa pakistani si sono lanciati in accuse dirette, parlando rispettivamente di “terrorismo fomentato dall’India nella regione” e “stato di guerra latente”. Affermazioni trancianti che riportano la tensione all’ultimo scontro militare fra i due confinanti lontano solo di sette mesi. Più cauto, almeno finora, l’establishment di Delhi, con ministri in visita sul luogo dell’attentato (vicino allo spettacolare Forte Rosso) e fiducia nelle indagini in corso. Queste riferiscono del trasporto di materiale esplosivo nella vettura d’un medico kashmiro, smembrato dalla conseguente deflagrazione, e l’ipotesi d’un coinvolgimento, non si sa se diretto o casuale. La sua responsabilità sarebbe avvalorata dal fermo di due suoi colleghi custodi d’una vera santa barbara d’esplosivi. Ciascuno potrebbe essere colluso o collaboratore di gruppi fondamentalisti operanti nella regione, dove ad aprile nei pressi di Pahalgam s’è consumata una strage di turisti con una trentina di vittime, tutte indiane, in visita a un luogo di vacanza noto ormai come ‘la Svizzera indiana’. Lashkar-e-Tayyiba e Jaish-e-Mohammed sono i movimenti sospettati, ma senza prove concrete se non la loro propensione al jihad locale. Che è in crescita esponenziale dal 2019, quando una legge del governo Modi ha privato il Kashmir indiano della consolidata autonomia amministrativa a tutto svantaggio della cittadinanza di fede musulmana. Ecco i sospetti jihadisti sull’attentato nel centro di Delhi. 

 

Invece l’autobomba esplosa a ridosso del Tribunale distrettuale a Islamabad? Il governo pakistano punta il dito sull’India che favorirebbe i Tehreek-i-Taliban, spina nel fianco della dirigenza pakistana già dall’epoca della gestione politica di Nawaz Sharif, fratello dell’attuale primo Ministro Shehbaz. Il clan gestore della Lega Musulmana del Pakistan   che guida l’attuale governo, è cosa della famiglia Sharif, un partito islamico conservatore finito nel mirino dei jihadisti per ragioni di potere oltreché d’osservanza religiosa. Del resto un po’ tutto lo schieramento statale, dunque anche il partito della famiglia Bhutto che s’alterna storicamente alla dirigenza della nazione, considera khawarij gli appartenenti ai TTP, un termine spregiativo che indica chi ‘si separa dalla dottrina’. Costoro restituiscono lo spregio considerando infedeli (kafir) i presunti ortodossi. Questo in termini di conflitto dottrinale. Più prosaicamente sono la gestione amministrativa e il controllo del territorio a rinfocolare lo scontro fra le parti. Un ennesimo atto dei contrasti interni al Pakistan è il recente attacco al college militare di Wana, nel Waziristan meridionale. Regione dove il fondamentalismo islamico è radicato da tempo e neppure repulisti militari come la famigerata Zarb-e Azb, vera azione di guerra attuata nel giugno 2014 con bombardamenti aerei e l’evacuazione di 100.000 civili, sono riusciti a sradicare. Nei giorni precedenti all’esplosione di Islamabad la scuola di Wana è stata attaccata da un commando, probabilmente dei TTP, su cui ha avuto la meglio l’intervento dell’esercito, capace di sgominare il commando. Il governo ha lodato l’azione repressiva: “Le vite degli studenti sono state salvate con successo grazie alla perseveranza e alla competenza delle Forze Armate”. Eppure il timore che si potesse ripetere una strage come quella di Peshawar del dicembre 2014 (138 figli di militari uccisi) è stato enorme. Quell’eccidio, compiuto dai Tehreek-i-Taliban, costituiva la risposta alla Zarb-e Azb di sei mesi prima. In Pakistan la cenere continua palesemente a covare sotto il fuoco. E l’uscita anti indiana di Sharif non si basa su preconfezionati preconcetti. 

 

Esiste il realismo geopolitico delle ultime settimane con la visita ufficiale del ministro degli Esteri di Kabul Muttaqi all’omologo indiano Jaishankar, proprio a Delhi. Hanno parlato di commercio e aiuti umanitari, ma il ministro dell’Emirato proveniva da Mosca dove aveva incontrato colleghi russi, cinesi e pure pakistani per discutere fra l’altro delle infrastrutture internazionali da proporre sul territorio afghano, in opposizione agli interessi statunitensi di riprendere possesso della base aerea di Bagram, a sessanta chilometri dalla capitale. Ecco, al di là degli svariati argomenti di colloquio fra potenze mondiali e soggetti regionali, Islamabad vede come fumo negli occhi l’apertura politica indiana ai turbanti. Perché da tempo accusa l’attuale gestione dei taliban afghani di accogliere, proteggere, supportare i fratelli fondamentalisti pakistani, inaffidabili e soprattutto terroristi. La gestione dei recenti attentati può risultare totalmente autonoma, ma potrebbe ricevere il sostegno delle agenzie dei Servizi. Questo il ceto politico di Islamabad lo sa bene. Molti degli intrighi interni, recenti o lontani, sono passati attraverso la gestione della sua Inter Services Intelligence. Nella saggezza popolare: chi pensa male, vive male. Dunque i sospetti della leadership pakistana rispecchiano i propri complotti e adombrano i fantasmi di casa. Ma possono non essere lontani dalla verità. Infatti anche Modi, incarnando l’intransigenza induista agisce e traffica contro quella parte dell’India che non si riconosce nel fanatismo dell’hinduva abbracciata dal Bharatiya Janata Party. Lo dimostrano da tempo le campagne contro minoranze etnico-religiose e nazioni considerate antagoniste. Certo, un conto sono le congetture altro è il segno tangibile di quanto accade. Gli attentati gemelli che colpiscono la sicurezza dei bizzosi confinanti possono avere matrice autoctone e nessun collegamento. Ma la linea dell’intrigo può egualmente farci domandare a chi giova la destabilizzazione d’un tratto del continente asiatico, se non proprio ago della bilancia, contrappeso alla megalomania trumpiana sparsa per il globo.

lunedì 10 novembre 2025

Elezioni classiste

 


La farsa elettorale era già iniziata col voto all’estero, fra gli espatriati per affari e lavoro oppure per rifugio dalle divise che controllano l’Egitto. Che da dodici anni racconta la favola d’un governo democratico con tanto di libere elezioni. L’ennesima ‘democratura’ che però i media mainstream e la geopolitica non considerano tale puntando il dito a senso unico su Russia e Bielorussia, Turchia e Iran.  Oggi gli egiziani votano nei distretti di Alessandria, Assiut, Assuan, Beheira, Beni Suef, Fayoum, Giza, Luxor, Matrouh, Minya, Nuova Valle, Qena, Mar Rosso, Sohag; risultati attesi per il 18 novembre. Il 21 e 22 novembre votano al Cairo, Daqahlia, Damietta, Gharbia, Ismailia, Kafr El-Sheikh, Menoufia, North Sinai, Port Said, Qalyubia, Sharqia, South Sinai, Suez; risultati il 2 dicembre. Se non serviranno ballottaggi entro la fine dell’anno il quadro sarà definitivo per l’elezione di 596 deputati, fra una metà di candidati individuali, un’altra metà sostenuta dai partiti e ventotto designati dal Capo di Stato. Un quarto della rappresentanza spetta di diritto al genere femminile. Altra perla con cui il regime manifesta la propria indole ‘democratica’. Sebbene nel 2015, a un anno dal primo mandato presidenziale, le Forze Armate di al Sisi, le candidate le freddavano per via, come accadde a Shaimaa al-Sabbagh, leader del Partito dell’Alleanza Popolare Socialista di Alessandria, di cui resta il volto spaurito, rigato di sangue fra le braccia d’un sindacalista soccorritore. I punti oscuri dell’ennesima sceneggiata elettorale si legano al controllo autoritario della grande nazione araba che ha ormai superato i 110 milioni di abitanti e, nonostante ambisca a un ruolo regionale di primo piano come se la geopolitica fosse ferma ai Sessanta del termondismo nasseriano, è densa di contraddizioni. 12% d’inflazione, disoccupazione giovanile a due cifre, quella di strati laureati al 6,3%, 4,12 di dollari pro capite di Pil, e un ranking da centesimo posto fra i 193 Stati membri delle Nazioni Unite. 

 

Insomma malgrado i dollari delle petromonarchie che ossigenano un’economia disastrata e sostengono il progetto securitario nell’area voluto da ogni inquilino dello Studio Ovale sin dai tempi di George W. Bush, l’Egitto pilastro anti Fratellanza Musulmana, incarnato dalla lobby militare dopo il disarcionamento popolare di Mubarak, ha fatto della presidenza Sisi la pietra miliare di reazione e rilancio autoritario. Il generale è al terzo mandato, ma tramite un Parlamento posto sotto il suo ferreo controllo potrà prolungarlo fino al 2030 per un ritocco costituzionale operato nel 2019. E si pensa a un ulteriore intervento sulla Carta. Anche il miliardario Sawiris, fondatore nel 2011 del Partito degli Egiziani Liberi con cui avrebbe voluto giocare un doppio ruolo d’imprenditore e leader alla maniera berlusconiana e ben prima della comparsa di Trump, fu ridotto a più miti consigli dai militari: “Pensa agli affari e tutt’al più finanziaci, delle questoni statali ci occupiamo noi”. Rodatissima sin dai tempi di altri presidenti generali – Sadat, Mubarak - la lobby delle stellette ha orientato i cittadini ai propri voleri con le buone o le meno buone. Che dall’investitura di Sisi si sono tradotte in migliaia di assassinati e scomparsi, oltre sessantamila prigionieri in corso di tortura e detenzione. Questo è la Repubblica libera d’Egitto. Nelle attuali consultazioni le leve giudiziarie e finanziarie hanno introdotto paletti in alcuni casi insormontabili per i candidati, specie individuali. L’iscrizione alla tornata elettorale s’aggira sui 900 euro, per tacere dei costi della campagna elettorale che nelle punte massime può sfiorare il milione di euro. Spese all’occidentale. Poi altri due filtri. Il primo sanitario con richieste di analisi antidroga, per garantire candidati non segnati da questo vizio. Mentre un secondo vizio, quello che ha portato cittadini all’esenzione dalla leva militare edifica un muro invalicabile. 

 

Chi s’è macchiato di tale mancanza nel curriculum, non può proporre la candidatura. Associazioni dei diritti sono ricorse per ragioni ideali: così si negano l’obiezione di coscienza, la scelta d’occuparsi di questioni civili, la possibilità d’essere riformati per ragioni sanitarie. Lo Stato egiziano versione al Sisi se ne infischia e setaccia cittadini privi dell’amore per la divisa considerati potenziali teste calde. Sul fronte dei partiti è presente una pletora di sigle (Lista Popolare, Lista Generazionale, Lista per l’Egitto…) di non facile identificazione se non nell’alveo d’una tradizione consolidata costituita da gruppi filo regime. “Il risultato è un Parlamento preconfezionato, se non apertamente comprato, e immunizzato contro il dissenso” dichiara uno che gli apparati di sicurezza interni li studia da tempo, il giornalista egiziano Hossam el-Hamalawy, anche se per ragioni d’incolumità in molti casi lo fa a distanza a tutela dell’integrità intellettuale e fisica. Poiché questo è il volto dell’Egitto e gli asserviti interni, oltre un terzo della popolazione che vive direttamente o attraverso l’indotto economico e commerciale delle Forze Armate, non sputa nel piatto dove mangia. Eppure accanto al ricatto economico, anche costoro non vivono nella tranquillità personale e familiare. Tirano avanti con una convinzione parziale. Un riscontro traspare proprio dalla partecipazione alla ritualità dell’urna. Alle elezioni della Camera Alta tenutesi nell’estate l’affluenza s’è aggirata sul 17% degli iscritti ai seggi, un dato in flessione rispetto alle cifre offerte dal regime in genere gonfiate sino al 40%. Gli stessi osservatori internazionali già negli anni passati parlavano di dati gonfiati del 10-15%. I consensi risultano ovviamente alle stelle. Al Sisi è stato eletto col 97% alle prime consultazioni e  dato all’89% nell’ultima del 2023. Numeri ritoccati, come il suo sedicente impegno per un popolo che vuole dominare e piegare al volere della lobby d’appartenenza e del clan familiare, coi figli investiti d’incarichi, favori, guadagni. Come e più del predecessore-tiranno Mubarak.