Uno degli attivisti più noti
del movimento laico egiziano e uno dei più perseguitati dalla locale lobby
militare rischia di non vedere il suo quarantunesimo compleanno. Alaa Adb
al-Fattah lo festeggia il 18 novembre, ma il suo sciopero della sete, iniziato
il 6 del mese dopo oltre duecento giorni di riduzione del cibo a una manciata
di calorie - cento al giorno - può stroncarlo prima. Perché fa questo? perché
non ce la fa più a sopravvivere da carcerato. Attualmente sta scontando una
condanna di cinque anni per ‘diffusione di notizie false’ alternativamente in
due terribili prigioni di massima sicurezza Tora
e Wadi el-Natrun. Sono luoghi che
divorano la vita a gente come lui sospesa fra una condanna e l’altra con accuse
pretestuose che fanno del grande Paese arabo una delle nazioni che calpesta
ogni diritto, umano e sovrumano, nonostante il presunto rispetto della fede. La
sorella Sanaa, che lo sostiene con la madre e un’altra sorella, ha lanciato
un’invettiva ai capi di Stato e di governo presenti alla conferenza sul clima Cop27,
organizzata dal regime di Al Sisi a Sharm el-Sheikh: “Se Alaa muore il suo sangue cadrà sulle mani dei governi occidentali
che hanno chiuso gli occhi davanti a quel che da tempo accade in Egitto”.
L’odissea carceraria di quest’uomo libero, di mestiere informatico e giocoforza
attivista e blogger, è iniziata quasi per caso, durante una mobilitazione per
l’indipendenza della locale magistratura. Certo, i pensieri di Alaa erano
tutt’uno con gli ideali di sinistra del padre avvocato e della mamma docente universitaria
attivi contro Mubarak. Il genitore, prima di lui, conobbe galera e tortura, appunto
della gestione Mubarak, durante la quale nel 2006 al-Fattah junior venne
arrestato per la prima volta. Furono poi i mesi della ribellione al vecchio
raìs e una delle stragi più atroci a segnare l’avvìo dello strazio per gli
egiziani e per lo stesso Alaa. Ottobre 2011: manifestanti copti protestano per
l’abbattimento di chiese e abitazioni nella provincia di Aswan. Si riuniscono
in una zona centrale del Cairo, chiamata Maspero, fra il ministero degli Esteri
e la sede della tivù di Stato.
Arrivano poliziotti a
frotte, coi blindati cercano di spingere via la folla, ma presto attuano una
follìa omicida con cui schiacciano ventiquattro persone uccidendole. Le odierne
parole taglienti di Sanaa per i politici occidentali hanno alle spalle quello e
altri massacri. Migliaia di giovani come lei ricordano. Erano adolescenti e pur
a rischio della vita percorrevano le strade della capitale che vibrano in
cortei e sit-in comunque gioiosi e densi di speranza. La definivano Thawra, rivoluzione. Una rivoluzione mai
sbocciata perché strangolata per settimane, mesi, anni nel sangue infinito
d’una moltitudine di cittadini. Il desiderio di rinnovamento è stato schiacciato
da una repressione che semina crimini, morte e terrore di cui il ceto politico
mondiale non vuol sapere. E allo stesso modo anche in Italia, perfino quando l’ennesimo misfatto dei militari egiziani ha stroncato l’esistenza di un italiano. Così, se
l’assassinio di Giulio Regeni ha aperto gli occhi del mainstream informativo
fino a quel momento vago o assente davanti a eccidi, rapimenti, torture e carcere
infinito inflitti a oppositori e semplici cittadini d’Egitto, questa nequizia
non è terminata. I morti non ricevono giustizia. I killer vivono protetti dal regime e perpetuano
delitti. Le galere strabordano d’innocenti. Alaa, che nel frattempo ha assunto pure
la cittadinanza britannica, non sembra potersene avvantaggiare per evitare di crepare
in prigione. Sarebbe disposto a rinunciare al passaporto egiziano, vivendo
all’estero com’è accaduto nel 2020 agli statunitensi d’Egitto, Mohamed
Amashah e Reem Desoukya. Ma i funzionari del Cairo non glielo permettono. E’
l’ennesimo abbandono al volere punitivo d’un potere criminale mascherato di
presunta normalità. In più il sistema dell’economia mondiale sta aiutando Al Sisi,
permettendogli di gestire vetrine internazionali come quella di Sharm in cui si
parla d’emergenza climatica perorando quanto di anti climatico c’è
nell’affarismo metanifero egiziano.
Ma al di là di considerare
un ormai insostenibile utilizzo di fonti energetiche fossili, questione di non
facile e rapida soluzione che trova Paesi con responsabilità gigantesche
rispetto ad altri, esiste l’opportunità o meno di scegliere uno stretto partenariato
con tale regime oppressivo. La leadership dell’Ente Nazionale Idrocarburi e i politici italiani non hanno dubbi:
avallano il percorso comune nello sfruttamento del giacimento mediterraneo
denominato Zohr, per ora 3 miliardi di euro con ampi sviluppi futuri. Altrettanto
fanno aziende come Snam Spa, che predispone un gasdotto fra Egitto e Israele, Fincantieri che finanzia con 1,4
miliardi di euro navi da combattimento e ulteriori armamenti tattici per mare.
Quindi Leonardo Spa pronta a una
fornitura di aerei egualmente da combattimento (Eurofighter, altri 3 miliardi)
di valenza strategica per il ruolo di controllore oltre confine che la giunta
egiziana interpreta nel Mashreq mediorientale. Denaro e affari, alla faccia di
quell’attenzione ai diritti umani che in differenti scenari diventano motivo
per embarghi economici, ostacoli finanziari, ostracismi politici. Citiamo gli
interessi italiani verso l’Egitto, che non son roba da poco se risultano i
secondi in Europa e i quinti al mondo, ma il Belpaese è in buona compagnìa. Quello
sguardo rivolto altrove, denunciato da organismi come Human Rights Watch, refrattario a qualsiasi porcheria compiuta da mukhabarat, poliziotti, militari e una
stessa magistratura nient’affatto autonoma, è una realtà con cui ipocritamente si
fa buon viso. Parlando magari di archeologia, arte e sport coi mondiali del
pallone dietro l’angolo nella petromonarchia qatariota, altra campionessa dei
diritti violati. In quest’umanità alla rovescia il comune denominatore
oppressivo, presente non solo fra gli islamici o nel mondo arabo, fa apparire la
solidarietà e la tensione per la vita con cui quindici premi Nobel hanno
lanciato un appello per liberare Alaa e i detenuti egiziani come qualcosa di
fantasioso, irreale, addirittura eccessivo. Magari non lo dichiarano
pubblicamente, ma parecchi conferenzieri di Cop27 pensano che tali attivisti
dovrebbero restare marchiati a vita, sospesi fra la prigione vissuta e quella
che rischiano d’incontrare da un momento all’altro. Oppure volare via come Bobby
Sands, Helin Bölek e altri digiunatori della libertà. Tanto neppure i simboli
scalfiscono il cinismo del potere.