mercoledì 31 luglio 2024

Israele, l’inefficacia degli omicidi mirati

 


Neppure quarant’anni di vita politica e una filiera fittissima di leader passati per le armi, in genere esplosive, missili, razzi, micro bombe andate a segno soprattutto grazie alle molte facce di spia infiltrate o acquisite tramite il più banale e scontato dei tradimenti: vendersi per denaro. Shabak, che sta per Sherut Ha-Bitachon Ha-Klali, è il servizio segreto che divide i bersagli col Mossad, l’altra Intelligence israeliana che agisce in giro per il mondo. Il raggio d’azione delle due strutture è amplissimo, coadiuvato da collaborazioni con le agenzie degli imperi amici, la Cia americana e l’MI6 britannico, sebbene per spirito di corpo, orgoglio e vanità gli 007 di Tel Aviv si piccano di muovere fino in fondo le proprie strategie rendendo conto d’un operato estremo agli alleati solo a cose fatte. Proprio la guerra di spie, fra le più losche della campagna antipalestinese, contro il Movimento di Resistenza Islamico ha visto Israele praticare l’eliminazione dei leader nemici con una pervicacia da sterminio pianificato. Accade da decenni appena spenti i fuochi della Prima Intifada (1987-1993) che aveva ridato vigore alla protesta a sostegno causa palestinese dopo gli smarrimenti degli accordi di Camp David, cui seguivano proprio nell’agosto 1993 gli Accordi di Oslo. I vertici israeliani vedevano che una nuova generazione di oppositori ai loro piani di occupazione-sbandamento-cancellazione dell’essenza palestinese, era nata e ne erano angosciati.  La teoria, tuttora inseguita e praticata dal ceto politico di Israele che ben prima di Netanyahu ha avuto altri esecutori, di sconfiggere la resistenza palestinese eliminando cruentemente i suoi capi, mostra una palese inefficacia per la continuità con cui Hamas si rigenera e rinnova la sua leadership. Eppure Israele vuole convincersi del contrario, proseguendo la mattanza. 

 

Una delle esecuzioni mirate che fece più scalpore fu quella dello shaykh Yassin, uomo della pre Nakba, nato nel 1936 e rimasto tetraplegico per un incidente giovanile con un amico diventato nel tempo anche compagno di lotta. Yassin era uno dei padri del Movimento islamico fra i palestinesi, l’aveva fondato dopo aver frequentato la Fratellanza Musulmana e risultava fra gli oratori più ascoltati dalla sua gente anche prima della creazione di Hamas, quando negli anni Sessanta e Settanta la resistenza anti sionista vestiva i panni laici dell’Olp e delle organizzazioni ispirate dal marxismo, i gruppi guidati da Aswad e Habash. Lo sceicco, spesso accompagnato da un giovane Haniyeh che gli spingeva la carrozzina, pareva più anziano del sessantottenne che era nel marzo 2004 quando venne disintegrato da un razzo d’un elicottero che gli volava sulla testa. Tempo un mese e il successore alla guida del partito Aziz Rantisi subiva la stessa sorte. A settembre il nuovo capo Izz El Din Khalil veniva assassinato a Damasco. Una striscia di colpi letali a effetto contro nemici simbolo, trattati come qualsiasi miliziano combattente, magari angosciosamente bombarolo come l’artificiere Yehia Ayyash, l’ingegnere, attivo a metà anni Novanta per vendicare la strage della Tomba di Abramo dell’ebreo americano Goldstein. Ayyash introdusse una fase di attentati suicidi rivolti anche ai civili israeliani, stigmatizzati da Yassin e da altri leader di Hamas, ma questo non servì a salvare la vita di nessuno. Alla fine l’ingegnere venne fatto esplodere con un telefonino, che sarebbe stato sicuro se suo cugino, comperato dagli agenti israeliani, non l’avesse tradito. Ma quella fase, siamo nel 1996, e anche il decennio successivo  nel quale sotto Sharon Israele passava al setaccio i capi nemici volendo “tagliare la testa del serpente Hamas”, il livello tecnologico risultava di molto inferiore ai giorni in cui la precisione digitale e la potenza tecnologica orientano le armi nei meandri più reconditi. Sembrano non esserci più ripari, nascondigli, bunker inviolabili, sebbene la soffiata, l’infiltrazione, l’inganno riescano a guidare il colpo dove il bersaglio non l’aspetta. Ciò nonostante il pluridecapitato Hamas continua a muoversi. Quanti figli e fratelli minori dei 40.000 massacrati a Gaza possono diventare un Ismail Haniyeh? A Israele non interessa, al Medioriente che brucia sì. 


 

Israele raddoppia: ucciso Haniyeh a Teheran

La sciagurata marcia verso la guerra regionale di Israele aggiunge l’ennesimo tassello di sangue rivolto ai vertici di Hamas e all’alleato iraniano. Un’ulteriore esplosione, seguita a quella della periferia di Beirut dove ieri sera un drone aveva smembrato Fuad Shukr leader in seconda di Hezbollah, ha spento per sempre il sorriso di Ismail Haniyeh, dal 2017 a stanotte capo politico  del Movimento islamico palestinese di Gaza. Inseguito dal desiderio omicida dei suoi nemici da anni Haniyeh viveva lontano dalla Striscia perché non diventasse un bersaglio fisso o mobile, com’è accaduto ai suoi familiari (tre figli e tre nipoti) sterminati nei mesi scorsi dall’Idf. Qatar, Turchia l’avevano ospitato in più occasioni, ma l’uccisione di stamane compiuta a Teheran presenta un ulteriore valore simbolico. I vertici di Tel Aviv, stretti attorno all’unica ragione di vita del governo Netanyahu: proseguire la guerra all’infinito per mantenere l’emergenza e il potere, hanno disintegrato il più noto leader palestinese e una sua guardia del corpo colpendo un edificio della capitale iraniana dov’era alloggiato per presenziare all’insediamento del neo eletto presidente Pezeshkian. Hanno portato guerra sul territorio di un nemico che più volte ha dichiarato di non voler entrare in prima persona nel conflitto pur sostenendo e foraggiando la causa palestinese. L’azione bellica diretta nei cieli del Paese avverso, già in altre circostanze colpito con operazioni di Intelligence rivolte contro tecnici impegnati sul fronte nucleare e capi delle milizie Pasdaran, può segnare un passo di non ritorno per il conflitto che sta già deflagrando nel Libano meridionale. Il pragmatico riformista Pezeshkian non spingerà sull’acceleratore bellico come potrebbero volere i Guardiani della Rivoluzione, perché il suo disegno è provare a ricucire i rapporti con l’Occidente. Ma la moderazione non appartiene al quadro internazionale in atto Oltreoceano dove i quattro mesi che precedono l’elezione presidenziale americana paiono favorevoli a senso unico per il rilanciato Donald Trump. Amicissimo del sionismo massacratore incarnato da Netanyahu e lui stesso destabilizzatore con iniziative assassine, come quella in cui ordinò di colpire il capo della Forza Al Quds Soleimani a Capodanno 2020. Tutto questo il sanguinario Benjamin lo sa. E prepara una strada infuocatissima. Certo, l’eliminazione dei leader non produce la decadenza delle strutture politiche da loro dirette. Pur senza Haniyeh il gruppo politico palestinese prosegue il suo percorso. “L’assassinio di questo nostro fratello mira a spezzare Hamas. Noi siamo fiduciosi nella vittoria finale” ha dichiarato Abu Zuhri, alto funzionario del gruppo mentre si preparano esequie solenni che avvicineranno buona parte del mondo islamico, sunnita e sciita.

martedì 30 luglio 2024

Beirut, Israele fa esplodere la spalla di Nasrallah

 


Haret Hreik, cintura meridionale di Beirut e da anni roccaforte del Partito di Dio, non riesce a preservare militanti e capi. Questo il messaggio letale lanciato dal missile israeliano che ha abbattuto tre piani d’un palazzone di otto, facendo tre vittime. Una eccellente: Fuad Shukr, numero due del movimento Hezbollah, vicinissimo al responsabile politico Nasrallah e alle Forze Al-Quds iraniane. Così mentre l’Idf e la forza sciita continuano a ripetere di non pensare né voler aprire un fronte bellico, la morte s’insinua, uccidendo sia innocenti come sul campo di calcio di Majdal Shams nel Golan, sia i coinquilini beirutini di stasera assassinati assieme al capo Hezbollah. E’ indubbiamente vendetta. Tel Aviv l’annunciava da due giorni, “colpiremo duro” aveva detto Netanyahu visitando il luogo della strage pur schifato da una parte della comunità drusa che non vuole avere nulla da spartire con Israele, mentre i militanti sciiti attendevano un attacco, non sulla pelle d’un loro leader. Non nel cuore del proprio sistema pensante prima che operante. Così gli esperti d’intrecci bellici ricordano che se quasi sicuramente Hezbollah non voleva eliminare ragazzini che correvano dietro un pallone, e quella strage è frutto d’una tecnologia se non scadente comunque in taluni casi carente, le capacità missilistiche e soprattutto informative d’Israele restano elevate ed efficaci a danno dei nemici. Sicuramente più quando colpiscono a sorpresa rispetto alle invasioni di terra come accade da mesi nella Striscia di Gaza di cui si strazia la gente, senza riuscire a estirpare Hamas. Eppure sul confine libanese lo scontro strisciante c’è da mesi, non solo per i ripetuti lanci di missili e razzi, le intercettazioni dell’Iron Dome, la contro-artiglieria di Tsahal, ma per le botte letali andate a segno: sempre stasera l’abitante d’un kibbutz è finito morto sotto un razzo. Gli analisti danno per certo un freno alla guerra aperta, considerando buone le intenzioni dei politici. Ma in una crisi che non vuol trovare tregua né soluzioni diplomatiche, il clima regionale amplia i suoi roghi. Gli obiettivi si susseguono e possono diventare sempre più ambiziosi, anche quelli teoricamente non praticabili, in una linea rossa superatissima e sanguinosissima. 


   

Bilancio indiano, Gandhi dolceamaro

 


Modi, Shah, suo ministro degli Interni, Mohan Bhagwat, leader del movimento paramilitare e fascista Rashtryia Swayamsevak Sangh, Ajit Doval, ex capo dei Servizi segreti, attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale, più la coppia Adani e Ambani, i super capitalisti indiani influenti sulla scena finanziaria globale. E’ il sestetto che per Rahul Gandhi forma il chakravuyuh che condiziona l’India. Nella tradizione chakravyūha è una formazione militare utilizzata per circondare i nemici. La metafora lanciata in Parlamento dal leader del Congresso indica la lobby degli interessi politico-finanziari-militari e paramilitari che oggi controlla il Paese. “A tutto danno dei ceti subalterni: agricoltori, operai e pure piccole e medie imprese, perché questo gruppo è l’essenza del monopolio che distrugge altre forme economiche e la stessa struttura democratica della nazione”. Seduta caldissima della Lok Sabha che sta discutendo il bilancio economico del governo Modi insediatosi a inizio luglio. Gandhi, col sostegno dell’Alleanza denominata India e un cospicuo numero di seggi, attacca senza remore i piani dell’esecutivo. Riferendosi ai due magnate, li addita come i pugnalatori di quel ceto medio indiano che da anni s’è affidato alla linea di Modi, popolare a parole, classista di fatto e ancor più favorevole solo ai grandi gruppi d’impresa. L’insistenza su quei nomi ha scatenato accesi scontri verbali con alcuni parlamentari del Bjp e lo stesso ministro degli Affari parlamentari, Rijiju, ha accusato il leader dell’opposizione di non rispettare le regole, “abbassando la dignità di questa Camera”. Nel battibecco Gandhi ha proseguito evitando di pronunciare i nomi dei due super industriali e li ha chiamati A1 e A2. Ma la polemica non è finita. Contrasti anche quando lo scatenato Rahul ha mostrato un’immagine della cerimonia denominata halwa, dal nome d’un dolce locale a base di carote, frutta secca, latte, realizzata alla vigilia della presentazione del bilancio. Nella foto era presente la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman, alla quale Gandhi chiedeva: “Non c’è un adivali, un dalit in questa foto. Si mangia halwa ma il resto del Paese non lo vede”. Ulteriore provocazione sul tema delle caste, su cui i gruppi dell’opposizione chiedono un censimento che da anni il governo evita di fare.

giovedì 25 luglio 2024

Bangladesh, la strage taciuta

 


5% dei posti riservati agli epigoni degli eroi dell’Indipendenza, ha da poco sentenziato la Corte Suprema, dopo due settimane di rivolta studentesca contenuta prima e brutalmente repressa nei giorni seguenti. Una diminuzione del 25% delle ambìte funzioni pubbliche in  Bangladesh, considerato un favoritismo del governo di Sheikh Hasina all’elettorato a lei fedele. Ma gratta gratta, quando i fumi degli incendi si sono diradati, il coprifuoco continua a contenere l’ordine pubblico, l’esercito con armi spianate osserva e minaccia l’andirivieni nelle strade della megalopoli di Dacca, che dopo l’ora convenuta si trasforma in un deserto controllato quartiere per quartiere, crocicchio per crocicchio da migliaia di elmetti in mimetica, viene a galla la cruda realtà. Non solo Abu Sayeed, che nei primi giorni della protesta offriva il petto ai comunque letali proiettili di gomma, è tra le vittime della repressione. Gli iniziali sei-dieci morti si sono centuplicati. Lo scrive il quotidiano bengalese Photom Alo e denuncia ben 174 uccisioni. Alcuni organismi dei diritti umani interessati alla vicenda parlano d’una inusitata violenza poliziesca nella pur breve storia del Paese. Dal 20 luglio le comunicazioni telefoniche interne e dall’estero risultano disturbate, uno stratagemma che consente all’esecutivo di mantenere una parvenza di normalità, impedendo di fatto i collegamenti col mondo. Il partito d’opposizione BNP, nazionalista e conservatore, denuncia che fra gli oltre cinquecento arrestati, molti sono giovani bloccati in strada durante gli scontri, si contano anche alcuni loro dirigenti, colpiti dal clima oppressivo in atto. Del resto la premier pur davanti al citato pronunciamento della Corte s’ostina a ribadire la giustezza del decreto contestato dalla piazza; per contro uno dei portavoce degli universitari in rivolta afferma che il movimento non si fermerà finché il Parlamento non azzererà la misura.

 

Ci sono tutti i presupposti perché lo scontro riprenda al di là della stessa vicenda delle quote, visto che la “regnante” come qualcuno definisce Hasina o peggio la dittatrice secondo i manifestanti, da anni al governo con una maggioranza elettorale in odore di brogli e una scarsa partecipazione al voto, non ammette confronto politico. Sicura dell’appoggio della cerchia di categorie protette da misure simili a quella contestata, la leader della Lega Awami non molla il potere davanti a una popolazione ormai in subbuglio socio-economico. Certa anche del sostegno di organismi mondiali, Fondo Monetario Internazionale su tutti, che nell’ultimo biennio le hanno coperto copiosi debiti. Il boom produttivo dell’industria tessile, capace a inizio millennio di lanciare economia e occupazione è in crisi da almeno un quinquennio. Frutto di pandemia e conflitto ucraino, sostengono taluni analisti, a cui altri aggiungono vizi propri di chi si sente sicura del ruolo  che esercita. Non ascoltare le voci del dissenso, non solo quelle organizzate politicamente, ma direttamente della gente, delle figure sociali, dei tanti giovani fra i 18 e i 24 anni, oltre il 10% della popolazione, che non trovano lavoro. Vedersi preclusi alcuni spazi a vantaggio di chi non fa nulla per raggiungerli, è l’elemento di rottura vissuto in questi giorni. Eppure l’anziana Primo ministro soffia sul fuoco. Lei ha tutelato l’ala giovanile del suo partito, Chhatra League, scesa in strada ad attaccare gli studenti che la contestavano. Ha chiesto al suo ministro dell’Interno di non fermarli mentre assaltavano gli anti-quote. “Hasina lavora per spaccare la nazione” constata  amaramente un navigato osservatore della politica asiatica, e in una comunità popolosa che ha conosciuto miseria nera e parziale ripresa la mancanza di equilibrio è quanto di peggio un politico possa fare.  Sostenere solo una parte della cittadinanza per biechi fini elettorale non può che produrre frustrazione sull’altro fronte. E il Bangladesh sta andando alla resa dei conti con una dirigenza cieca e sorda. Gli scontri e la repressione di questi giorni annunciano conflitti ben peggiori.   

domenica 21 luglio 2024

Abu Sayeed, un corpo da trafiggere

 


Sono le braccia sollevate di Abu Sayeed, lo studente dell’università Begum Rokeya che protesta davanti alla polizia, l’atto d’accusa senza appello per il governo di Sheikh Hasina. Il suo assassinio è stato ripreso dalle telecamere televisive e mostrato all’opinione pubblica.   Diversi commentatori l’hanno paragonato al cinese wángwéi lin, cioè l’uomo del carro armato, come venne definito il giovane che il 5 giugno 1989 si parava davanti ai carri militari disposti nella pechinese piazza Tienanmen e che fu  probabilmente stritolato. Di lui non si seppe né la fine né il nome. La repressione scatenata in Bangladesh contro la protesta studentesca sulle quote di assunzioni statali riservata a figli e nipoti dei reduci dell’indipendenza nazionale del 1971, è la punta dell’iceberg di un più diffuso malcontento popolare. A un primo impatto d’un ordine pubblico improntato sul contenimento delle manifestazioni, con la polizia che usa lacrimogeni e cannoni ad acqua, sono seguiti attacchi mirati con l’uso di proiettili di gomma e di piombo. Sono bastati i primi ad atterrare il ventiduenne Abu, bersagliato mentre levava le braccia. Colpito una prima volta lui ha un moto di autotutela, si piega. Poi rioffre il petto su cui giungono diversi proiettili. Il ragazzo si ripara come può, visto che è in campo aperto, s’accartoccia finché non viene portato via a braccia dai compagni. L’esame post-mortem ha decretato che sul corpo c’erano parecchi segni di colpi ricevuti a distanza ed è stata un’emorragia interna a causare il decesso. Secondo testimoni e alcuni partecipanti alla protesta le vittime sono scaturite da questi ordini draconiani, colpire per uccidere, così da sfibrare i ranghi degli attivisti e impaurirli. Si fa un parallelo con la repressione del 2018, altra circostanza in cui le forze dell’ordine si scatenarono contro chi scendeva in strada. L’atto d’accusa è rivolto a lei, la populista Hasina che odia una parte del popolo, quella che non accetta passivamente il suo volere. La polarizzazione è alimentata anche da questo genere di provvedimenti contestati, e chi era in piazza lancia duplici accuse: contro Chhatra League, l’organizzazione studentesca del partito di governo che armata ha lanciato attacchi alla protesta, e contro la polizia intervenuta a senso unico sui contestatori della Hasina, senza muovere un solo manganello sulla fazione giovanile a lei vicina. Gruppi dell’opposizione hanno additato sicari prezzolati per fomentare caos e uccidere. Non ci sono prove che abbiano coadiuvato gli attacchi del Chhatra League, ma i sospetti sono tanti. Fra le componenti attaccate dai filo governativi ci sono alcuni collettivi femministi, presenti in strada, che negli ultimi anni si sono battuti contro la pratica dello stupro teorizzata e attuata dai militanti CL. Insomma da tempo il clima interno sta degenerando sul fronte della violenza, perché il partito pigliatutto della premier non tollera alcun genere di critica. I collettivi studenteschi hanno denunciato la presenza in alcune università di aulette adibite nientemeno che a celle di tortura, e si parla anche di omicidi extragiudiziari. Il ministro dell’Interno sorvola sulle accuse, nessun organismo internazionale interviene sulle vicende interne al Paese anche per la buona rete diplomatica tessuta da Hasina durante ogni suo esecutivo. Eppure la piazza continua ribollire, sotto la spinta giovanile anche la popolazione che sembrava narcotizzata si risveglia. Certo, l’attuale potere ha dalla sua parte Forze armate e alcune categorie protette della cittadinanza, ma le tensioni crescono. Tanti bengalesi non piegano più la testa. 


  

giovedì 18 luglio 2024

Bangladesh, sangue su reducismo e protezione

 


Più del fuoco dell’indipendenza, lontano oltre mezzo secolo, sono le conseguenze economiche e i privilegi a rinfiammare in questi giorni le strade di Dacca, Chittagong e altri centri del Bangladesh. Si scontrano con armi improprie ma capaci di far male e uccidere fazioni di studenti pro e contro il governo della premier Sheikh Hasina, al potere ininterrottamente da un quindicennio, dopo esserlo stata a metà anni Novanta. E’ lei a voler conservare spazi privilegiati ai figli e ormai ai nipoti dei combattenti per l’indipendenza del 1971. Costoro godono di quote protettive per l’accesso ai ben remunerati impieghi pubblici, ai quali altri giovani ambiscono e si sentono discriminati. Quest’ultimi rivendicano una selezione meritocratica per quegli impieghi, considerando la misura che la leader vuole mantenere un anacronistico retaggio del passato. Sul tema proteste c’erano già state sei anni fa, e il governo s’era visto costretto a eliminare la norma. Di recente l’Alta Corte del Paese si è pronunciata contro la sospensione, rilanciando la misura d’un terzo delle assunzioni riservate ai parenti dei reduci. Nei tumulti finora si registrano sei vittime, reparti anti sommossa sono stati schierati per via più con l’intento di dissuadere e contenere che di schiacciare una protesta che dopo due giorni continua a montare, occupa stazioni e binari ferroviari, vede partecipare anche le studentesse solitamente esenti da manifestazioni. La polizia non ha esitato a sparare proiettili di gomma, tre delle sei vittime sarebbero state uccise in questo modo, sebbene il governo neghi. Dietro le dirette motivazioni dello scontro alberga anche un conflitto fra il partito della Hasina, Lega Awami, e lo storico partito nazionalista, conservatore che riceve l’appoggio dei ceti medi e della casta militare. All’esordio come primo ministro (1996-2001) Hasina aveva incentivato l’economia,  aprendo spazi a investimenti privati con cui poneva un rimedio alle ampie sacche di povertà presenti nel Paese, che oggi conta 170 milioni di abitanti. L’intento della leader della Lega Awami è stato quello di attrarre capitali esteri per disporre di fondi da destinare a una sorta di politica sicurezza sociale rivolta a determinate categorie: un certo numero di anziani poveri, vedove, donne abbandonate, disabili. 

 

Agli ultimi due gruppi, nella misura contesa in questi giorni dalla piazza, spettano il 10 e il 6% dei posti pubblici. Insomma la storica premier nel proporre da circa trent’anni un’ammortizzazione sociale, è finita a realizzare un populismo politico che le garantisce popolarità e voti, ma conserva sacche di privilegio verso soggetti per nulla bisognosi e di fatto discriminanti nei confronti di quei giovani che ora la contestano. Il passato non è stato sempre rose e fiori per la Hasina, comunque ben vista dalla comunità internazionale occidentale (i suoi figli vivono negli Stati Uniti) per un approccio economico volto a un liberismo morbido. Nel 2007, quando il suo partito era finito all’opposizione, venne arrestata per estorsione. Quindi sulla base d’un presunto tentativo di attentato nei suoi confronti ordito da oppositori, venne liberata. La resurrezione politica si materializza nel dicembre 2008, il successo elettorale la riporta alla guida del Paese e il populismo riprende: impegno contro il carovita, ancora rete di sicurezza per i poveri, sistema giudiziario imparziale e rilancio dei diritti umani. A seconda dei casi disatteso: fece scalpore nel 2012 il rifiuto di accogliere profughi rohingya in fuga dal Myanmar.  Il seguente successo elettorale nel 2014 era macchiato da proteste e contestazioni per violenze e brogli operati dalla Lega Awami, eppure la comunità internazionale, attenta altrove a denunciare questi casi, non mosse un dito. Nel 2016 Hasina volava al G7 in Giappone come ospite dei suoi protettori. L’anno seguente una svolta: il Bangladesh concede rifugio a circa un milione di profughi rohingya e il Paese sfoggia due sottomarini nel suo arsenale militare. Nel 2019 la premier rivince l’ennesima tornata elettorale conquistando 288 seggi su 300 (votò circa il 40% dell’elettorato), e il debito fiscale che nel biennio 2021-22 segnava un aumento del 238% rispetto al decennio precedente, ricevette un sostegno del Fondo Monetario Internazionale. Circa cinque miliardi di dollari per l’ormai nonnina sola al comando. Dribblando scandali, accuse di corruzione e attentati (nella biografia ne vanta addirittura diciannove) Hasina è ancora lì. Non sarà un gruppo di studenti scalmanati a farla cadere. Questo pensa sotto il velo.

mercoledì 10 luglio 2024

Anniversario Nato, ospedali bombardati, informazione immemore

 


Basterebbe ricordare. Gli operatori dell’informazione, i colleghi dovrebbero farlo. Invece… In tanti casi è l’Editore a porre il veto o aggirare la notizia, ridurla nel pallino cartaceo oppure citarla a fine notiziario, quasi si trattasse di una nota di colore, d’un gossip. Correttamente le aperture di queste ore sono rivolte alla strage nell’ospedale pediatrico di Kiev, colpito da un missile da crociera KH101 sparato, secondo fonti occidentali, dalla Federazione Russa, mentre il portavoce del Cremlino parla di messa in scena ucraina. Restano la conta delle vittime, oltre quaranta fra cui bambini in cura nei reparti oncologici resi inservibili, le immagini della devastazione, l’orrore d’un conflitto che chi piange e biasima vuole proseguire per ricambiare terrore all’aggressore. Eppure nelle recenti devastazioni della Striscia di Gaza gli ospedali rasi al suolo, disintegrando attrezzature e chi ne fruiva, sono più di venti. Forse venticinque, i dati sfuggono così come le vittime, il cui conto è attorno alle quarantamila, e c’è chi ne calcola molte di più. Se ne parla? Sì, se ne parla. Forse non abbastanza se chi è ancora vivo fra i cronisti palestinesi, che pagano un tributo altissimo alla propria controinformazione avendo visto uccidere centotrenta di loro, critica i racconti del giornalismo americano ed europeo. In troppi casi un racconto di parte e lo schieramento è filo israeliano, visto che al più le critiche possono scivolare sull’attuale governo di Tel Aviv, sul leader Netanyahu, ma non devono sfiorare la politica militarista e colonizzatrice di Israele dal momento della sua nascita perché questo è giudicato antisemita. Mentre le Nazioni Unite proseguono le giuste, giustissime, accuse su svariati crimini di guerra in atto, che se non arrivano a fermare i criminali bellici, restano denunce sterili, la Nato festeggia se stessa. La sua ingombrante boria, foriera di pace e democrazia, si trascina dietro conflitti mascherati da “missioni internazionali” infarcite di motivazioni: umanitarie, di polizia internazionale, stabilizzazione, interposizione, di fatto mai neutrali e sempre rivolte ad avversari di comodo. 

 

Nel corso di queste missioni crimini contro l’umanità sono stati perpetrati e seppelliti, prim’ancora dei cadaveri innocenti che hanno provocato. Inizi d’un caldo ottobre 2015, Kunduz, circa trecento chilometri a nord di Kabul, verso il confine afghano col Tajikistan. Un bombardiere statunitense della Nato sorvola il capoluogo e punta sull’ospedale di Medici senza Frontiere. E’ da poco scoccata  l’una e trenta di notte. Preoccupato il responsabile della struttura telefona ripetutamente agli uffici amministrativi locali, e anche agli apparati militari Nato a Kabul. Costoro conoscono la dislocazione delle strutture sanitarie e il lavoro degli operatori rivolto alla popolazione. Il medico lo ribadisce successivamente quando si cercò, senza esiti, di organizzare una commissione d’inchiesta sull’accaduto. L’accaduto fu una strage: mezz’ora di sorvolo sul nosocomio, a ogni passaggio un missile. Non uno, una gragnuola. Più di venti vittime, di cui nove fra medici e infermieri, cinquanta feriti, in venti restarono fortunatamente illesi. In seguito non accadde nulla. Poca stampa ne parlò. Quella italiana pochissimo. L’informazione pubblica neppure citava gli eventi, il ministro degli Esteri Gentiloni per il governo Renzi, prendeva per buone le direttive di Washington che a un certo punto sostenne la tesi dell’errore con conseguente “danno collaterale”. Quindi un dispaccio della Nato giustificava l’attacco, sostenendo che l’ospedale fosse un rifugio per i talebani, stesso refrain con cui Israel Defence Forces afferma che gli ospedali rasi al suolo nella Striscia sono delle caserme di Hamas. E tratta chi è ricoverato come un miliziano, ovviamente da colpire. A Kunduz c’erano madri e bambini, come nel centro pediatrico Okhmatdyt. Buona parte dell’informazione sceglieva di non parlarne, per non disturbare Resolute Support una delle varie sigle con cui la Nato occupò l’Afghanistan, spargendo sangue, gettando al vento denaro, sostenendo governi-fantoccio corrotti, patteggiando alfine coi talebani un futuro sulla pelle d’un popolo disprezzato, buono solo per l’ennesimo proprio ‘Grande gioco’ di guerra. Che, ahinoi, continua.

martedì 9 luglio 2024

India, lezioni d’induismo

 


Dopo la grande avanzata elettorale del mese scorso il blocco denominato India, che raccoglie gran parte dell’antagonismo al Bharatiya Janata Party del confermato premier Modi, rende il Parlamento molto meno soggetto ai voleri del partito di maggioranza, relativa e non più assoluta. L’opposizione ha conquistato seggi, compattezza, fiducia e durante la sessione d’insediamento della 18° Lok Sabha (la Camera bassa della Federazione indiana) si è assistito a una sorta di lezione d’induismo a casa degli hindu. A sviscerarla è stato l’uomo simbolo del riscatto anti Modi, quel Rahul Gandhi emancipato dal ruolo di predestinato della politica nazionale. Figlio, nipote, pronipote d’una casta familiare che lotta contro le caste etnico-sociali ma ingombra la scena dall’epoca della nascita dell’India moderna. Eppure appartenere al clan Nerhu-Gandhi è stato per Rahul quasi più un peso che un vantaggio. Solo ora, a cinquant’anni suonati, riesce ad aprirsi spazi direttivi, rilanciando il malconcio Partito del Congresso e la stessa coalizione India. Cosa s’inventa dopo la ‘lunga marcia’ che l’ha fatto conoscere ai più? Pur non essendo un teologo Rahul, davanti ai deputati riuniti in consesso, ha avviato una riflessione sulle radici dell’induismo. L’ha rivolta all’attualità, entrando nel terreno solitamente percorso dai propagandisti hindu, compresi gli onorevoli e i ministri degli esecutivi formati da Modi. Ha scomodato la scrittura e l’iconografia del culto col maggior seguito di fedeli nel Paese, ricordando che: “Essere veri hindu significa essere amanti della pace, tolleranti, veritieri e senza paura. Coloro che spesso si proclamano hindu non mostrano questi princìpi”. Un colpo durissimo al leader del Bjp che sull’identità religiosa ha creato l’appartenenza politica dei concittadini elettori. E allora, chi è un vero hindu? Rahul non ha dubbi.

 

Chi si richiama all’insegnamento del Mahatma e dunque alla non violenza. Sono hindu coloro che l’hanno conosciuto e continuano a vedere la sua eredità come il principale antagonista d’un altro induismo”. Poi domanda: “La violenza rappresenta un anatema al vero induismo o è una caratteristica distintiva della storia dell’Hindutva?” Per rispondere cita un recente testo di Vinayak Chaturvedi: Hindutva and Violence: V.D. Savarkar and the Politics of History. Gli studiosi sottolineano come  l’autore non sia un sostenitore del Partito del Congresso né tantomeno un militante di sinistra. Per giunta i genitori l’hanno denominato Vinayak in onore dello stesso Savarkar. Dovevano essergli fedeli… Chaturvedi afferma che l’intento del suo libro è quello di “comprendere il pensiero di Savarkar, non di lodarlo o d’infangarlo”. Nello studio dell'intera e considerevole opera di Savarkar, Chaturvedi trova che “il concetto di violenza era al centro della definizione dell’Hindutva”. "Gli hindu non solo erano esistiti in uno stato di guerra in passato, ma avevano anche bisogno di abbracciare la guerra permanente come parte del loro futuro" perché "gli hindu si comprendono come tali solo attraverso atti di violenza." Questo però è l’induismo di Savarkar, non dei testi sacri, e l’esegeta Chaturvedi che l’ha studiato sostiene come “l'ala destra dell'Hindutva s’impegna regolarmente in quello che viene chiamato ‘Shastra puja’, la propiziazione attraverso l’uso di armi da fuoco…”. Insomma in apertura dei lavori assembleari l’ultimo dei Gandhi ha messo il dito nella ferita purulenta della nazione indiana con affermazioni dirette e concetti duri, ma usando la pacatezza che lo caratterizza. Così ha solleticato lo spirito critico dei partner del blocco India, intervenuti anch’essi contro i fallimenti sociali dei governi finora guidati da Modi, fallimenti di cui dovrebbe rispondere personalmente visto i disastri causati sul terreno dell’occupazione e della salute pubblica. L’accusa al Bjp è esplicita: usare l’induismo per mascherare copiose magagne economiche e politiche, strumentalizzarlo con una lettura violenta e fondamentalista del fanatico fondatore dell’Hindutva, discriminare altre fedi e voci della nazione. Secondo Rahul e alleati non può durare. Modi risponderà cambiando rotta?

sabato 6 luglio 2024

Iran, Pezeshkian l’uomo della mano tesa

 


Vince Pezeshkian, l’uomo della mano tesa. Vince con tre milioni di preferenze più di Jalili. E lo fa con un elettorato che sfiora il 50% di partecipazione, risollevando di dieci punti la percentuale della settimana scorsa. Dunque sei milioni di astenuti non se la sono sentita di voltare le spalle ai seggi. E già che c’erano hanno consegnato la presidenza al riformista, scudisciando il candidato d’apparato Saeed Jalili. Perdono gli ultraconservatori, almeno nell’aspetto di facciata di non avere un proprio uomo al vertice delle Istituzioni. Possono sperare nel tradizionalismo di Khamenei che però già da un anno chiude gli occhi davanti a una tolleranza di fatto: accettare tante donne, non solo giovanissime, che girano per le strade senza velo. Il simbolo intoccabile voluto da Khomeini, che aveva infiammato le proteste dopo le azioni violente della Gašt-e Eršâd innanzitutto contro Masha Amini e poi su centinaia di donne che bruciavano pubblicamente l’hijab e si tagliavano ciocche di capelli, non è più al centro della repressione. Almeno per ora. Fra i duellanti Masoud Pezeshkian ha promesso in campagna elettorale tolleranza assoluta sulla questione. Da presidente non cambierà idea, ma il suo impegno ancor più corposo sul fronte geopolitico resta la disponibilità a riaprire le trattative sul nucleare, e qui bisogna vedere come reagiranno le controparti internazionali e interna. Molto dipenderà da chi governerà quello che per Teheran resta il Grande Satana, la Casa Bianca. Un ritorno di Trump, teoricamente dovrebbe chiudere tutte le porte a un rilancio del dialogo, visto che fu proprio lui a staccare il filo sette anni or sono. Ma sia il tycoon sia un rivale miracolato come 47° presidente americano potrebbero sorprendere tutti e riproporre le trattative. Come la prenderebbe il partito dei militari sarà tutto da scoprire. Per costume costoro risultano sì integerrimi, ma sono al tempo stesso pragmatici, non avvezzi a colpi di testa. Davanti a decisioni delicate, soprattutto in politica estera, valutano ciò che può maggiormente convenire.

 

E l’attuale momento non è fra i migliori per decisioni puramente ideologiche, visti: la crisi economica pungente, il malcontento popolare, il rischio di nuove rivolte, il rovente clima bellico mediorientale, la sponda ritrovata per il riformismo interno. In fondo c’è un gran pezzo del Paese disgustato dalla gestione repressiva del potere che protesta astenendosi dal voto, e fra chi si è recato alle urne è cresciuto il sostegno a un elemento partito out-sider e diventato presidente. Entrambi i candidati di potenti apparati come i basiji (Jalili) e i pasdaran (Ghalibaf) sono stati battuti da chi teoricamente non vanta gruppi di pressione dalla sua parte. L’aria sembrerebbe tornata a girare. Ma almeno due generazioni che hanno sostenuto il riformismo con tanto di presidente eletto per due mandati, Khatami fra la fine degli anni Novanta e il nuovo secolo, oppure mediato, Rohani perché i più esposti Karroubi e Mousavi erano finiti ai domiciliari dopo l’Onda verde, hanno incamerato delusioni in luogo di soddisfazioni. E non perché siano mancate idee e proposte, ma perché i pilastri del khomeinismo, l’ingombrante presenza del clero nelle Istituzioni, lo strapotere dei Guardiani della Rivoluzione fin dentro l’economia col controllo delle Fondazioni, chiudevano  spazi politici e d’impresa. In aggiunta il clima internazionale non è favorevole, la stessa diaspora od opposizione iraniana all’estero, a meno che non elabori nostalgie para dinastiche, è carezzata da tanti che parlano di diritti negati, ma considerano l’Iran uno Stato-canaglia. Alcuni lo rivorrebbero come ai tempi in cui la Cia e l’MI6 scalzavano con metodi spicci Mossadeq. Perché agli imperi che non tramontano, gli amici piacciono prostrati o sottomessi. Per ora il neo eletto presidente dichiara di voler “Tendere la mano dell’amicizia a tutti. Siamo tutti popolo di questo Paese. Ci sarà bisogno di tutti per il progresso”. Una scommessa e un azzardo. Eppure l’azero dal sorriso triste ci prova. 


 

giovedì 4 luglio 2024

Iran, un voto conflittuale


Alla fine avranno ragione quei giovani che, interrogati sul ballottaggio presidenziale fra Pezeshkian e Jalili, ribadiscono l’astensione, proprio come al primo turno, perché la vera alternativa manca. Un’alternativa che non riguarda la prossimità o lontananza dal clero dei due candidati, fra i quali il gradimento dell’unico turbante in corsa, Mostafa Pourmohammadi, è rivolto al riformista. Un sostegno che nei conteggi del preliminare vale poco, duecentomila voti se pure questi si riversassero su Pezeshkian. Di maggior peso, nel distacco che il 28 giugno è risultato di circa un milione di schede a favore del candidato d’origine azera (come Khamenei), risulterebbero le preferenze raccolte da Ghalibaf e che lui stesso ha invitato a rilanciare su Jalili. Orientamenti di elettori attivi. Eppure nella consultazione di domani la partecipazione, scesa al 40% la più bassa nella storia elettorale della Repubblica Islamica, potrà diminuire ulteriormente se appunto il ‘fascino’ che qualche commentatore ha riservato a Pezeshkian per la sua apertura alle donne senza velo e alla ripresa delle trattative sul nucleare, non convoglierà verso i seggi gli incerti. Sicuramente mancherà la partecipazione del movimento “Donna, vita, libertà”, certamente andrà alle urne lo zoccolo duro del conservatorismo clericale e laico, ciascuno arroccato nei propri santuari di potere che sono le bonyad, gli enti di beneficienza che controllano un terzo dell’economia del Paese. Una nota dolentissima l’economia, che i contendenti cercano di rivitalizzare con formule opposte: riaprendo il dialogo con l’Occidente, soprattutto sul nucleare interno, Pezeshkian, per limitare il nodo scorsoio delle sanzioni. Cercando vie nuove Jalili, che contrario a qualsiasi compromesso sul programma di arricchimento dell’uranio rilancia la così definita “economia della resistenza”, avviata da tempo con gli scambi con la Cina, ribaditi ultimamente dalla mediazione saudita. Proprio così. 

 

I tempi cambiano, già durante la presidenza di Raisi l’adesione iraniana alla ‘Shangai Cooperation Organization’ ha tamponato i vuoti di mercanzia e di capitali che il boicottaggio del blocco euro-americano produce da decenni. Però diversi studiosi fanno notare come le aperture asiatiche non abbiano prodotto effetti concreti sull’economia. Magari i banchi dei bazari non risultano sprovvisti di mercanzia, non tanto quella interna ma quella derivante dai commerci internazionali, come pure non lo sono del tutto i magazzini di certe industrie. Quel che si vede poco sono gli investimenti. E nei duetti televisivi delle ultime ore che cercano di far presa sull’elettorato comunque deciso a non disertare, giungono le punzecchiate provocatorie: “Il nostro Paese vende il greggio alla Cina, ma con enormi sconti e soprattutto in cambio di beni, non di valuta estera”. E’ Pezeshkian che fa le pulci all’avversario, sapendo bene di non poter proporre molte alternative. Quei contratti parzialmente capestro, evitano alla gestione domestica di tracollare. Lui, qualora venisse eletto, ha fatto sapere di investire Ali Tayebnia del ruolo di ministro dell’Economia. Si tratta d’un elemento prestigioso, accademico, che ha ricoperto quel ruolo dal 2013 al 2017 sotto Rohani, avviando un contenimento dell’inflazione. Altro momento. Le aperture occidentali dell’epoca finirono azzerate da Trump che, da presidente, volle il disimpegno dalla trattativa sul nucleare e più tardi fece aprire il fuoco su un uomo simbolo per la nazione: il generale Soleimani, centrato da un drone. Così conteranno ben poco le promesse di sgravi fiscali con cui Pezeshkian ha costellato il primo e secondo turno della campagna elettorale. L’aria che si respira, anche per espressa volontà dello storico nemico israeliano, offre a Jalili, ai principialisti, agli stessi possibili alleati del partito dei Pasdaran argomenti che raccolgono l’attenzione di chi vota  e inesorabilmente anche di chi ha deciso d’astenersi.  

martedì 2 luglio 2024

Comunardo, il calciatore della Storia

 


Dove guardava Niccolai quando lanciava la crapa, pronta a spelarsi già a ventiquattr’anni, su un pallone che poi gonfiava la propria rete? L’emblematico faccia a faccia, lui poggiato al palo della porta, Albertosi a braccia aperte a imprecare, è rimasto immortalato in un’immagine che supera nella sconsolatezza i versi di Saba sul portiere “caduto alla difesa ultima vana”. L’estremo difensore cagliaritano non “cela la faccia contro terra” indirizza un sicuro improperio al compagno che ne aveva vanificato l’uscita esibendosi nel più celebrato dei suoi autogoal. Accadeva contro la Juventus, una pericolosa concorrente per lo scudetto del 1970 che, nonostante quello e altri inciampi, il Cagliari Calcio si cucì sulla maglia. Era goffo Niccolai? Talvolta sì, ma per eccesso di zelo difensivo, lui che era al centro dell’area e doveva spazzarla, come insegnava più il calcio d’una volta che quello del filosofo della panchina Scopigno, fumatore incallito al pari di certi suoi calciatori. Un aneddoto lo vuole, da poco giunto in società, perlustrare il luogo del ritiro e trovarvi gli atleti infoiati in un pokerino con sigarette e whisky sui letti. ”Dispiace se fumo?” disse il mister, colpendoli a tal punto che tutti rientrarono nelle stanze e nei ranghi senza trasgredire. Poi, non è un segreto, qualche sigaretta di troppo non mancava al cannoniere di quella squadra, lui che l’aerobìa la distribuiva solo in quindici metri, ma per fare in quel fazzoletto cose che gli umani sugli spalti difficilmente avrebbero rivisto. In quel Cagliari del miracolo c’erano campioni come Gigi Riva, Angelo Domenghini, Pierluigi Cera, Claudio Olinto de Carvalho in arte Nené, e buoni gregari - Martiradonna, Tomasini e appunto Niccolai che stupiva per certi improvvidi, autolesionistici passi e per il nome. Comunardo. Uno della Comune, prima del comunismo stesso. E’ grazie a quel nome che taluni ragazzini s’infilarono sin dalla scuola media in un pezzo di Storia, celata pure negli studi accademici. Sicuramente a vergogna delle stragi conseguenti. 

 

Sempre i racconti, stavolta familiari, dicono che il babbo Niccolai, Lorenzo, sportivo anch’egli, portiere tutto fegato e cuore a Livorno, la città del Teatro Goldoni e della nota scissione comunista di Bordiga e Gramsci, per amore antifascista avesse voluto identificare il figliolo con uno di quei nomi dell’epica ideologica, caduti poi in disuso con le ventate del boom economico, quando il consumismo aveva definitivamente scalzato il comunismo. A quel punto Comunardo era cresciuto, s’era gettato nella mischia pallonara nella nativa Toscana, giovanili del Montecatini per poi sbarcare nell’isola, Torres e dal 1964 Cagliari, che voleva anche dire il massimo campionato. Sempre da difensore, sempre a centro area, con 174 centimetri dignitosi all’epoca per uno stopper. Calciatore normale, nonostante il primato della stagione 1969-70 e addirittura una convocazione in Nazionale, in quell’annata d’oro segnata dai Mondiali in Messico che fecero sognare i tifosi di tutt’Italia. Niccolai si fermò all’esordio, bloccato da un infortunio dopo mezz’oretta di partita. I superstiziosi tiravano un sospiro di sollievo, non l’Albertosi portiere che dall’isola era passato a difendere la rete azzurra, e trovò nell’incertezza di Poletti l’ennesima beffa sotto porta che poteva inceppare la Storia. Non accadde. Nella memorialistica resta l’Italia-Germania 4-3. Nelle personali memorie, in virtù proprio del nome Comunardo, restano le vicende d’un secolo prima. Le fervide giornate del 18 marzo (1871) all’Hôtel de Ville parigino che accoglie gli insorti - i comunardi - che abolivano l’esercito e armavano il popolo, bloccavano gli sfratti, separavano lo Stato dalla Chiesa (l’aveva già fatto la rivoluzione dell’89, ma erano giunti Napoleone, il Congresso di Vienna e Napoleone III), creavano un’istruzione laica e gratuita, e cooperative operaie e camere sindacali femminili. Ma presto si profilavano di cannoni del maresciallo Mac-Mahon a spezzare le ultime resistenze popolari di Belleville e del cimitero di Père-Lachaise, monumentale già allora con la tomba, fra gli altri, di Balzac. All’aristocrazia e ai militari assetati di sangue non bastava la disfatta della Comune, cercavano vendetta e continuarono per settimane a fucilare comunardi ribelli. A migliaia. La Comune di Parigi “governo della classe operaia, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro”, dice Marx l’avremmo incontrata negli studi storici, eppure Niccolai, il calciatore dell’autogoal segnato da quel nome e da oggi riunito a Gigi, ci apriva gli occhi quand’eravamo poco più che bambini.