venerdì 21 novembre 2025

Fuoco kashmiro

 


I figli, il padre, la repressione, l’immolazione. Potrebbe essere la trama d'una pièce teatrale, è una cruda realtà dell’odierno Kashmir. La regione geografica divisa fra India e Pakistan dove nella prima il governo Modi ha sospeso da sei anni l’autonomia gestionale, imponendo ai cittadini, in gran parte di fede islamica, restrizioni e imposizioni politico-amministrative. Più cospicue immissioni coloniali di famiglie hindu. E’ la linea dell’occupazione mascherata che da decenni Israele attua in Cisgiordania colpendo il territorio e i palestinesi che lo abitano. Giorni addietro i reparti speciali della polizia indiana si sono introdotti nell’abitazione della famiglia Bilal, prelevando i giovani Jasir e Nabeel Ahmad. L’accusa: appartenere alla rete ribelle che opponendosi al governo di Delhi s’è resa responsabile dell’attentato nel cuore della capitale indiana e provocato tredici vittime. La colpa dei Bilal sta nell’abitare accanto al dottor Ahmad Rather, sospettato d’aver predisposto l’autobomba deflagrata nei pressi dello storico Forte Rosso.  Wani, il padre dei ragazzi, si dispera. Dopo il loro fermo va dalla polizia, dichiara che i figli non s’occupano di politica, né praticano agguati omicidi. Nessuno l’ascolta, anzi lo minacciano d’arresto se avesse insistito nella protesta. Wani e la sua famiglia sono d’origini umili. Lui è un venditore ambulante di frutta, di quelle mele che crescono rigogliose sul territorio. Però non sa a chi rivolgersi, men che meno agli amici del dottore accusato di terrorismo. Passa alcuni giorni d’angoscia, raccontano i vicini, non mangiava né usciva più, né per lavoro né per commissioni. Finché domenica scorsa Wani si dà fuoco. Lo trasportano d’urgenza all’ospedale di Srinagar, ha il corpo devastato. Le ustioni hanno liquefatto l’80% della cute, il volto è irriconoscibile, i sanitari disperano di salvargli la vita. Infatti dopo un giorno di ricovero il cuore si ferma. Definitivamente. 

 

Una vicenda che, per chi segue la geopolitica dalla parte degli oppressi, ricorda il dramma dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, immolatosi per protesta contro il regime di Ben Ali nel dicembre 2010 e diventato simbolo delle rivolte scoppiate nei mesi seguenti dal Magreb al Mashreq. Il Kashmir s’è ribellato in varie occasioni alle norme accentratrici di Modi, ne sono scaturiti morti di strada e arresti di massa. Attivisti, giornalisti, intellettuali sono incarcerati da anni, tre nomi per tutti: Khurram Parvez, Irfan Mehraj, Shafat Wani per ciascuna delle categorie. Per i due Wani, solo omonimi del citato studioso, difficilmente si creeranno rivendicazione perché il clima repressivo è diventato amplissimo e raffinato. Ormai il Kashmir sta subendo una trasformazione identitaria attraverso l’inserimento nel territorio di famiglie hindu, meglio se fanaticamente hindu come stabilisce la linea politica del partito di maggioranza Bharatiya Janata Party. Una tattica d’inserimento etnico-religioso cui fa seguito la discriminazione programmata dei cittadini musulmani. E quando questo non basta vere persecuzioni per sradicarli rendendogli impossibile la quotidianità. La distruzione delle abitazioni di chi è solo sospettato di ribellione, in tanti casi ingiustamente, è diventata una pratica diffusa. Nell’ultimo quadriennio si sono registrate milleduecento di queste distruzioni denuncia il Legal Forum for Kashmir. Chi perde la casa spesso non può proseguire neppure le povere occupazioni, in genere manuali concesse ai locali islamici, e va via. Certo, fra loro esistono pure professionisti, è il caso del gruppo di medici accusati dalla polizia indiana d’aver organizzato l’attentato di Delhi, ma si tratta d’eccezioni. La polizia sostiene d’aver trovato un’enorme quantità di esplosivo in dotazione ai sanitari membri d’una cellula terrorista. Ma tutto dev’essere provato dalla magistratura. Per ora prosegue la repressione, che colpisce alla cieca inserendo fra i ricercati vicini di casa, com’è accaduto ai fratelli Wali. Per la disperazione e il terribile gesto del loro genitore.   


 

martedì 18 novembre 2025

Bomba costituzionale

 


L’autobomba che devasta il diritto costituzionale pakistano deflagra in Parlamento. La innescano le due famiglie padrone incontrastate della politica del Paese, gli Sharif e i Bhutto, tramite i rispettivi partiti: Lega Musulmana-N e Partito Popolare Pakistano, solitamente avversari per ragioni di dominio e potere, ma stavolta riuniti in un voto che sancisce un blitz istituzionale. La comune approvazione del 27° emendamento alla Costituzione trasforma il potere forte della lobby militare in potere fortissimo. Rafforza oltremodo il legame fra il ruolo dell’esercito e quello della casta politica più inamovibile, la loro, di fatto proprietaria del simulacro di democrazia che sono le Camere. A farne le spese - insieme alla divisione dei poteri, a chi è fuori dalle logiche spartitorie di militari e clan, ai semplici cittadini - gli outsider della politica come l’ex premier Khan, già estromesso in malo modo con accuse personali, attentati d’avvertimento, pene domiciliari e quelle da scontare in prigione. Con l’aria che tira difficilmente saranno possibili exploit simili a quello del suo partito, Tehreek-e Insaf, che nel 2018 vinse le elezioni, imponendosi come movimento anti casta. Allora i militari tollerarono l’ingerenza, ma per poco. Quel governo anti casta e anti corruzione non terminò neppure la legislatura, fu estromesso con un ribaltone partitico, la defezione di alleati minori, e pseudo giudiziario. Ma ora è anche il potere giudiziario a tremare. Una nuova  Corte Costituzionale viene insediata con giudici nominati dall’attuale Capo dello Stato, Ali Zardari, già marito della defunta Benazir Bhutto e noto come “Mister ten per cent” la percentuale tangentizia che intascava per ogni iniziativa istituzionale, e dal governo retto da Shehbaz Sharif, fratello d’un altro pregiudicato della corruzione: l’ex premier Nawaz. L’ambientino è niente male e si perpetua da decenni.

 

 

Ora, però, compie un salto di qualità. Vanifica la divisione dei poteri (in confronto l’Italietta di Meloni e Nordio risulta dilettantesca), il presidente incassa l’immunità nonostante le molteplici pendenze a carico, il feldmaresciallo Asim Munir ingigantisce i suoi privilegi e amplia il controllo su tutte le armi (Esercito, Aviazione, Marina) dotate, non da oggi per volere statunitense, di 165 testate nucleari. Nel quinto Paese più popolato al mondo. Del resto Munir in persona e l’aviazione nazionale sono stati osannati dall’attuale esecutivo quali vincitori (sic) della settimana di fuoco con cui nel maggio scorso hanno abbattuto cinque aerei da guerra indiani negli scontri sul confine kashmiro contro il nemico di sempre. E quasi reincarnasse Zia-ul Haq, il presidente-dittatore anch’egli generale ed accentratore dei poteri nelle sue mani nel decennio 1978-88, Munir accende lo scontro con l’India induista coi tratti della religione islamica grandemente maggioritaria nel proprio Paese. I musulmani d’ogni colore politico dovrebbero riconoscersi e abbracciare questo nuovo stato delle cose che di nuovo ha il patto d’acciaio fra militari e clan politici, in altre fasi vantaggioso solo per i primi. Per la storia Zia-ul Haq compì il suo golpe contro un capostipite dei Bhutto, Zulfiqar Ali che finì addirittura impiccato. Però verso i cittadini comuni, magari elettori anche dei soliti noti sempre adusi a tangenti e voto di scambio, il passo compiuto è assolutamente tranciante: il governo sceglie il corpo giudicante, cambia le regole costituzionali a suo piacere, stabilisce esclusive immunità di ceto, patteggiando con generali e ammiragli un ricambio di favori dilatato nel tempo. Non risultano reazioni del Convitato di Pietra della nazione: l’Inter Services Intelligence, un tempo lunga mano della Cia che ne preparava i membri, oggi un po’ meno.  L’agenzia in varie occasioni ha giocato la personale partita, a favore dei gruppi familiari e/o delle Forze Armate. O contro tutti. Duettando con il jihadismo presente sul territorio. Seppure i propri vertici provengano in gran parte dall’esercito, l’Isi è uno dei Servizi più imprevedibili della geopolitica internazionale. E non c’è da stupire se il recente attentato di Islamabad che ha preceduto d’un paio di giorni il voto parlamentare sia opera più sua che degli accusati talebani interni. Frattanto l’attentato alla Costituzione può provocare esplosioni socio-politiche più gravi dell’autobomba d’una settimana fa.

lunedì 17 novembre 2025

Incendi anti migranti

 


Dicono i volontari triestini di Linea d’Ombra, No Name Kitchen, della Onlus Ufficio Rifugiati che nel vecchio porto cittadino gli incendi sviluppatisi nell’ultima settimana sono dolosi. Dinamiche, informazioni, testimonianze rendono l’ipotesi plausibile visto che risultano colpiti locali dismessi dove trovano riparo profughi e rifugiati. Testate locali attribuiscono i roghi a fuochi di fortuna accesi da chi abita quei luoghi, invece ultimamente proprio due giovani afghani di ronda negli edifici hanno messo in fuga individui che provavano a incendiare tubi corrugati di plastica depositati nei pressi dei locali. Gli assalti dei piromani si sono susseguiti per alcuni giorni dal 10 novembre, bruciando sacchi a pelo, povere masserizie, quanto le persone raccolte nella sistemazione di fortuna tenevano a riparo. I punti d’incendio sono diversi, nei piani inferiori e superiori, così i tentativi andati a segno e quelli limitati per l’intervento dei migranti stessi, dei cittadini volontari che hanno avvisato Vigili del Fuoco e Carabinieri, costituiscono un allarme per l'incolumità di tutta la popolazione, migranti e residenti. Le associazioni di volontariato fanno notare una diffusione di considerazioni, anche con l’ausilio della stampa locale, miranti a criminalizzare quei rifugiati che in mancanza di misure di sostegno e inadempienze istituzionali sono costretti a utilizzare gli edifici, ma chi appicca roghi e soffia sul fuoco son ben altri. Per le reiterate modalità degli episodi, oltre al reato di danneggiamento d’un bene edilizio, si prefigurano quelli di possibili lesioni fino all’omicidio di chi frequenta la struttura. L’allarme sociale sono i piromani con intenti delittuosi, non chi trova un giaciglio di fortuna nell’incipiente inverno. 



 
 
 


 

venerdì 14 novembre 2025

L’autobomba e la piazza

 


Mentre la polizia pakistana dichiara d’aver arrestato alcuni miliziani della catena omicida di martedì a Islamabad (12 vittime e oltre 30 feriti) l’islamico Pakistan s’interroga se temere maggiormente gli agguati dei Tehreek-e Taliban o le violente manifestazioni di massa e il cospicuo peso elettorale dei Tehreek-e Labbaik. Le due formazioni islamiste hanno radici teologiche differenti. I TTP s’ispirano a un deobandismo radicale che chiede l’applicazione della Shari’a nella legiferazione statale. Anche i TLP agognano la legge coranica ma secondo una visione barelvi di giurisprudenza hanafita sussunta da varie scuole sufi. Tradotto volgarmente e pragmaticamente le due tendenze si detestano e combattono da secoli, mentre nell’attuale politica ciascuno segue la propria agenda. I primi risultano fuorilegge e clandestini, i secondi sono addirittura radicati in Parlamento. Il percorso istituzionale di Tehreek-e Labbaik, diventato partito nel 2015 e solo dal 2018 presente alle urne, con punte massime di consenso nel Punjab ma con una diffusa forza d’erosione verso i partiti tradizionali d’ispirazione islamica come la Lega Musulmana–N, è tenuto  sotto osservazione dai politologi. E’ accaduto che in alcuni governatorati (c’è anche l’industrializzata Karachi) quasi la metà degli elettori del PML-N abbiano voltato le spalle al clan Sharif convogliando il consenso sul movimento di protesta inventato da Khadim Rizvi. Animatore e agitatore d’un raggruppamento conservatore islamista che attaccava la corruzione e la speculazione dei vecchi ceti nazionali incarnati dalle famiglie Bhutto e Sharif. Accadeva nella consultazione vinta da Imran Khan, il campionissimo di cricket, creatore anch’egli d’un partito Tehreek denominato Insaf, dunque Movimento per la Giustizia, che con un exploit elettorale l’ha portato al governo. Khan raccoglieva i frutti d’un programma populista scagliato contro le camarille tangentizie che a turno i mammasantissima della politica pakistana, Sharif e Bhutto, implementavano a vantaggio dei propri conti correnti, sotto l’occhio  dell’onnipresente lobby militare. Però nelle elezioni del 2018 i generali guardarono con interesse il ricco, bello, famoso e outsider della politica, spendendo parole al miele per la sua scalata al potere. 

 

Se una parte dei ceti marginali riversava il consenso su Khan, un altro ceppo di proletariato rurale e urbano, religiosissimo sino al fanatismo, seguiva Rizvi. Dalla sedia a rotelle impostagli da un incidente stradale nel 2006, il barbuto leader non faceva mancare la voce ai comizi e nelle gigantesche manifestazioni di piazza. E nelle strade dove gli scontri erano all’ordine del giorno. La capitale, Lahore, Rawalpindi tutte popolosissime hanno visto gli attivisti TLP inscenare cortei, erigere barricate, scontrarsi senza timore con le Forze dell’ordine. Morire e uccidere creando un’instabilità crescente. Chiuse scuole e autostrade, sospesa la telefonia mobile, lo scarico dei container, la stessa distribuzione di merci e viveri per le agitazioni dove i Labbaik conquistavano il primato e mettevano in difficoltà anche gruppi legati a proteste e scioperi come il Muttahida Qaumi Movement di Mustafa Kemal. Sì, una denominazione all’Ataturk per l’ex sindaco di Karachi che accusava: “I Rizvi, padre e figli, usano la religione come un’arma”. Poi cinque anni fa il genitore morì, probabilmente per un’infezione di Covid, Saad ne ha ereditato leadership e impeto oratorio, senza il timore di finire incarcerato; anzi per questo sostenuto da piazze sempre caldissime e reattive contro la repressione. Se la politica di maggioranza e taluni magistrati hanno cercato di carezzare figure religiose dell’élite barelvi così da allontanarle dalla militanza del partito Labbaik, la tattica non fa presa fra i supporter che dicono “Non ci sono buoni e cattivi barelvi”. Certo gli attacchi infuocati, anche nel senso stretto del termine, con cui i militanti si sono scagliati in più occasioni accusando di blasfemia minoranze religiose, soprattutto cristiane, hanno creato casi di rilevanza internazionale. Bruciare chiese, aggredirne e uccidere i fedeli è poco giustificabile per il ceto politico pakistano leale all’Islam ma non complice del fondamentalismo. Comunque quello che cammina sulle gambe di milioni di militanti ed elettori TLP, che vorrebbe giustiziare i giudici assolutori della ‘blasfema’ Asia Bibi, che considera un martire il poliziotto Qadri condannato a morte per l’assassinio del governatore difensore della donna cristiana, è più insinuante e potente delle autobomba disseminate dai kamikaze talebani.

mercoledì 12 novembre 2025

La linea dell’autobomba

 


L’incrocio di autobombe nei centri pulsanti di Nuova Delhi, lunedì scorso, e di Islamabad, ieri, con un numero imprecisato di vittime in India e dodici accertate in Pakistan pone i due giganti demografici in condizione di allerta interno e di contrapposizione estera. Al punto che il premier e il ministro della Difesa pakistani si sono lanciati in accuse dirette, parlando rispettivamente di “terrorismo fomentato dall’India nella regione” e “stato di guerra latente”. Affermazioni trancianti che riportano la tensione all’ultimo scontro militare fra i due confinanti lontano solo di sette mesi. Più cauto, almeno finora, l’establishment di Delhi, con ministri in visita sul luogo dell’attentato (vicino allo spettacolare Forte Rosso) e fiducia nelle indagini in corso. Queste riferiscono del trasporto di materiale esplosivo nella vettura d’un medico kashmiro, smembrato dalla conseguente deflagrazione, e l’ipotesi d’un coinvolgimento, non si sa se diretto o casuale. La sua responsabilità sarebbe avvalorata dal fermo di due suoi colleghi custodi d’una vera santa barbara d’esplosivi. Ciascuno potrebbe essere colluso o collaboratore di gruppi fondamentalisti operanti nella regione, dove ad aprile nei pressi di Pahalgam s’è consumata una strage di turisti con una trentina di vittime, tutte indiane, in visita a un luogo di vacanza noto ormai come ‘la Svizzera indiana’. Lashkar-e-Tayyiba e Jaish-e-Mohammed sono i movimenti sospettati, ma senza prove concrete se non la loro propensione al jihad locale. Che è in crescita esponenziale dal 2019, quando una legge del governo Modi ha privato il Kashmir indiano della consolidata autonomia amministrativa a tutto svantaggio della cittadinanza di fede musulmana. Ecco i sospetti jihadisti sull’attentato nel centro di Delhi. 

 

Invece l’autobomba esplosa a ridosso del Tribunale distrettuale a Islamabad? Il governo pakistano punta il dito sull’India che favorirebbe i Tehreek-i-Taliban, spina nel fianco della dirigenza pakistana già dall’epoca della gestione politica di Nawaz Sharif, fratello dell’attuale primo Ministro Shehbaz. Il clan gestore della Lega Musulmana del Pakistan   che guida l’attuale governo, è cosa della famiglia Sharif, un partito islamico conservatore finito nel mirino dei jihadisti per ragioni di potere oltreché d’osservanza religiosa. Del resto un po’ tutto lo schieramento statale, dunque anche il partito della famiglia Bhutto che s’alterna storicamente alla dirigenza della nazione, considera khawarij gli appartenenti ai TTP, un termine spregiativo che indica chi ‘si separa dalla dottrina’. Costoro restituiscono lo spregio considerando infedeli (kafir) i presunti ortodossi. Questo in termini di conflitto dottrinale. Più prosaicamente sono la gestione amministrativa e il controllo del territorio a rinfocolare lo scontro fra le parti. Un ennesimo atto dei contrasti interni al Pakistan è il recente attacco al college militare di Wana, nel Waziristan meridionale. Regione dove il fondamentalismo islamico è radicato da tempo e neppure repulisti militari come la famigerata Zarb-e Azb, vera azione di guerra attuata nel giugno 2014 con bombardamenti aerei e l’evacuazione di 100.000 civili, sono riusciti a sradicare. Nei giorni precedenti all’esplosione di Islamabad la scuola di Wana è stata attaccata da un commando, probabilmente dei TTP, su cui ha avuto la meglio l’intervento dell’esercito, capace di sgominare il commando. Il governo ha lodato l’azione repressiva: “Le vite degli studenti sono state salvate con successo grazie alla perseveranza e alla competenza delle Forze Armate”. Eppure il timore che si potesse ripetere una strage come quella di Peshawar del dicembre 2014 (138 figli di militari uccisi) è stato enorme. Quell’eccidio, compiuto dai Tehreek-i-Taliban, costituiva la risposta alla Zarb-e Azb di sei mesi prima. In Pakistan la cenere continua palesemente a covare sotto il fuoco. E l’uscita anti indiana di Sharif non si basa su preconfezionati preconcetti. 

 

Esiste il realismo geopolitico delle ultime settimane con la visita ufficiale del ministro degli Esteri di Kabul Muttaqi all’omologo indiano Jaishankar, proprio a Delhi. Hanno parlato di commercio e aiuti umanitari, ma il ministro dell’Emirato proveniva da Mosca dove aveva incontrato colleghi russi, cinesi e pure pakistani per discutere fra l’altro delle infrastrutture internazionali da proporre sul territorio afghano, in opposizione agli interessi statunitensi di riprendere possesso della base aerea di Bagram, a sessanta chilometri dalla capitale. Ecco, al di là degli svariati argomenti di colloquio fra potenze mondiali e soggetti regionali, Islamabad vede come fumo negli occhi l’apertura politica indiana ai turbanti. Perché da tempo accusa l’attuale gestione dei taliban afghani di accogliere, proteggere, supportare i fratelli fondamentalisti pakistani, inaffidabili e soprattutto terroristi. La gestione dei recenti attentati può risultare totalmente autonoma, ma potrebbe ricevere il sostegno delle agenzie dei Servizi. Questo il ceto politico di Islamabad lo sa bene. Molti degli intrighi interni, recenti o lontani, sono passati attraverso la gestione della sua Inter Services Intelligence. Nella saggezza popolare: chi pensa male, vive male. Dunque i sospetti della leadership pakistana rispecchiano i propri complotti e adombrano i fantasmi di casa. Ma possono non essere lontani dalla verità. Infatti anche Modi, incarnando l’intransigenza induista agisce e traffica contro quella parte dell’India che non si riconosce nel fanatismo dell’hinduva abbracciata dal Bharatiya Janata Party. Lo dimostrano da tempo le campagne contro minoranze etnico-religiose e nazioni considerate antagoniste. Certo, un conto sono le congetture altro è il segno tangibile di quanto accade. Gli attentati gemelli che colpiscono la sicurezza dei bizzosi confinanti possono avere matrice autoctone e nessun collegamento. Ma la linea dell’intrigo può egualmente farci domandare a chi giova la destabilizzazione d’un tratto del continente asiatico, se non proprio ago della bilancia, contrappeso alla megalomania trumpiana sparsa per il globo.

lunedì 10 novembre 2025

Elezioni classiste

 


La farsa elettorale era già iniziata col voto all’estero, fra gli espatriati per affari e lavoro oppure per rifugio dalle divise che controllano l’Egitto. Che da dodici anni racconta la favola d’un governo democratico con tanto di libere elezioni. L’ennesima ‘democratura’ che però i media mainstream e la geopolitica non considerano tale puntando il dito a senso unico su Russia e Bielorussia, Turchia e Iran.  Oggi gli egiziani votano nei distretti di Alessandria, Assiut, Assuan, Beheira, Beni Suef, Fayoum, Giza, Luxor, Matrouh, Minya, Nuova Valle, Qena, Mar Rosso, Sohag; risultati attesi per il 18 novembre. Il 21 e 22 novembre votano al Cairo, Daqahlia, Damietta, Gharbia, Ismailia, Kafr El-Sheikh, Menoufia, North Sinai, Port Said, Qalyubia, Sharqia, South Sinai, Suez; risultati il 2 dicembre. Se non serviranno ballottaggi entro la fine dell’anno il quadro sarà definitivo per l’elezione di 596 deputati, fra una metà di candidati individuali, un’altra metà sostenuta dai partiti e ventotto designati dal Capo di Stato. Un quarto della rappresentanza spetta di diritto al genere femminile. Altra perla con cui il regime manifesta la propria indole ‘democratica’. Sebbene nel 2015, a un anno dal primo mandato presidenziale, le Forze Armate di al Sisi, le candidate le freddavano per via, come accadde a Shaimaa al-Sabbagh, leader del Partito dell’Alleanza Popolare Socialista di Alessandria, di cui resta il volto spaurito, rigato di sangue fra le braccia d’un sindacalista soccorritore. I punti oscuri dell’ennesima sceneggiata elettorale si legano al controllo autoritario della grande nazione araba che ha ormai superato i 110 milioni di abitanti e, nonostante ambisca a un ruolo regionale di primo piano come se la geopolitica fosse ferma ai Sessanta del termondismo nasseriano, è densa di contraddizioni. 12% d’inflazione, disoccupazione giovanile a due cifre, quella di strati laureati al 6,3%, 4,12 di dollari pro capite di Pil, e un ranking da centesimo posto fra i 193 Stati membri delle Nazioni Unite. 

 

Insomma malgrado i dollari delle petromonarchie che ossigenano un’economia disastrata e sostengono il progetto securitario nell’area voluto da ogni inquilino dello Studio Ovale sin dai tempi di George W. Bush, l’Egitto pilastro anti Fratellanza Musulmana, incarnato dalla lobby militare dopo il disarcionamento popolare di Mubarak, ha fatto della presidenza Sisi la pietra miliare di reazione e rilancio autoritario. Il generale è al terzo mandato, ma tramite un Parlamento posto sotto il suo ferreo controllo potrà prolungarlo fino al 2030 per un ritocco costituzionale operato nel 2019. E si pensa a un ulteriore intervento sulla Carta. Anche il miliardario Sawiris, fondatore nel 2011 del Partito degli Egiziani Liberi con cui avrebbe voluto giocare un doppio ruolo d’imprenditore e leader alla maniera berlusconiana e ben prima della comparsa di Trump, fu ridotto a più miti consigli dai militari: “Pensa agli affari e tutt’al più finanziaci, delle questoni statali ci occupiamo noi”. Rodatissima sin dai tempi di altri presidenti generali – Sadat, Mubarak - la lobby delle stellette ha orientato i cittadini ai propri voleri con le buone o le meno buone. Che dall’investitura di Sisi si sono tradotte in migliaia di assassinati e scomparsi, oltre sessantamila prigionieri in corso di tortura e detenzione. Questo è la Repubblica libera d’Egitto. Nelle attuali consultazioni le leve giudiziarie e finanziarie hanno introdotto paletti in alcuni casi insormontabili per i candidati, specie individuali. L’iscrizione alla tornata elettorale s’aggira sui 900 euro, per tacere dei costi della campagna elettorale che nelle punte massime può sfiorare il milione di euro. Spese all’occidentale. Poi altri due filtri. Il primo sanitario con richieste di analisi antidroga, per garantire candidati non segnati da questo vizio. Mentre un secondo vizio, quello che ha portato cittadini all’esenzione dalla leva militare edifica un muro invalicabile. 

 

Chi s’è macchiato di tale mancanza nel curriculum, non può proporre la candidatura. Associazioni dei diritti sono ricorse per ragioni ideali: così si negano l’obiezione di coscienza, la scelta d’occuparsi di questioni civili, la possibilità d’essere riformati per ragioni sanitarie. Lo Stato egiziano versione al Sisi se ne infischia e setaccia cittadini privi dell’amore per la divisa considerati potenziali teste calde. Sul fronte dei partiti è presente una pletora di sigle (Lista Popolare, Lista Generazionale, Lista per l’Egitto…) di non facile identificazione se non nell’alveo d’una tradizione consolidata costituita da gruppi filo regime. “Il risultato è un Parlamento preconfezionato, se non apertamente comprato, e immunizzato contro il dissenso” dichiara uno che gli apparati di sicurezza interni li studia da tempo, il giornalista egiziano Hossam el-Hamalawy, anche se per ragioni d’incolumità in molti casi lo fa a distanza a tutela dell’integrità intellettuale e fisica. Poiché questo è il volto dell’Egitto e gli asserviti interni, oltre un terzo della popolazione che vive direttamente o attraverso l’indotto economico e commerciale delle Forze Armate, non sputa nel piatto dove mangia. Eppure accanto al ricatto economico, anche costoro non vivono nella tranquillità personale e familiare. Tirano avanti con una convinzione parziale. Un riscontro traspare proprio dalla partecipazione alla ritualità dell’urna. Alle elezioni della Camera Alta tenutesi nell’estate l’affluenza s’è aggirata sul 17% degli iscritti ai seggi, un dato in flessione rispetto alle cifre offerte dal regime in genere gonfiate sino al 40%. Gli stessi osservatori internazionali già negli anni passati parlavano di dati gonfiati del 10-15%. I consensi risultano ovviamente alle stelle. Al Sisi è stato eletto col 97% alle prime consultazioni e  dato all’89% nell’ultima del 2023. Numeri ritoccati, come il suo sedicente impegno per un popolo che vuole dominare e piegare al volere della lobby d’appartenenza e del clan familiare, coi figli investiti d’incarichi, favori, guadagni. Come e più del predecessore-tiranno Mubarak.

sabato 8 novembre 2025

La luce e il buio

 


Bianco e nero assoluto, quasi accecante. Definito e definitivo nel descrivere quello che neppure il neorealismo politico produsse in pellicola. In realtà una chicca coeva esiste: Il tetto di Vittorio De Sica su soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1956, che parla di sottoproletari, baracche, poveri cristi che non volano in cielo come i barboni di Miracolo a Milano, secondo titolo dell’aggirato I poveri disturbano. Disturbavano i derelitti nella derelitta Italia post fascista e post bellica, secondo i parametri del riformismo e del conservatorismo. Si costruiva la Repubblica democratica e ci si voleva dare un tono. Ma Milano, Roma, il profondo sud di Matera e persino Parma contavano coree, baraccopoli, sassi, capannoni dove gli emarginati sociali vivevano. Il servizio di Franco Pinna - grande isolano d’una più piccola isola, e fotografo immenso del neorealismo delle immagini - nel borghetto del Mandrione, a ridosso dell’Acquedotto Felice fra le consolari Casilina e Tuscolana (in mostra a Roma alla Casa del cinema), appartiene alla fase di profonda militanza artistico-politica fra le file del Partito Comunista Italiano. Pinna con De Martiis, Garrubba, Sansone diede corpo alle testimonianze su pellicola di cos’era l’Italia contemporanea immortalata dalla Cooperativa Fotografi Associati. Nelle settimane successive alle nevicate del febbraio 1956 che gelarono anche chi un alloggio decente l’aveva e dei morti assiderati fra i più deboli ai borghetti Prenestino, Pietralata, Primavalle l’antropologo e storico d’arte Franco Cagnetta, lo scrittore Alberto Moravia, gli attivisti del Pci Giovanni Berlinguer, Piero Della Seta e lo stesso Pinna si recarono alla baraccopoli del Mandrione recuperando immagini e parole per il settimanale Vie Nuove. Il primo passo di un’inchiesta sul fenomeno di borgate e borghetti che gli amministratori cittadini e i governi dell’epoca tendevano a occultare, mentre incentivavano il sacco urbanistico della città orientandola verso il mercato immobiliare privato. 

 

Gli scatti del fotografo sardo al Mandrione si rivolgevano alla cospicua presenza nel luogo della comunità rom, concentrati attorno a un gruppo familiare proveniente dall’Abruzzo, i Casamonica, che vent’anni dopo entrerà nella cronaca nera e dagli anni Novanta addirittura criminale della città. All’epoca del servizio, tutto era emarginazione, disagio, disperazione e pur’e folklore che attrasse il ‘Centro Studi di Musica Popolare di Nataletti e Carpitella verso le usanze coreutico-musicali dell’etnìa lì raccolta. Pinna non si fermò, altri suoi servizi in differenti borghetti ritraggono i residenti, prevalentemente meridionali fuggiti dalle terre d’origine, per inseguire il miraggio del lavoro o addirittura del benessere economico, quei manovali e casalinghe che dalle baracche speravano di sistemarsi in una casa. Un fenomeno proseguito fino agli inizi dei Settanta. Le facce scarne, ingenue oppure intriganti, sono quelle del popolo un tempo contadino cantato e amato da Pasolini, gli antenati di chi a Roma è diventato altro: mezzamanica o rapinatore. Di chi un pizzico di scalata sociale ha provato a farla in un’Italia catto-comunista che un’elemosina o una conquista sociale ancora le praticava. Oppure chi dal sottoproletariato cercava soluzioni di riscatto tutte individuali e assolutamente borderline. Certo  quegli occhi, quelle posture che non erano pose sceniche ma modi d’essere, comportamenti d’assoluta naturalezza, umori e timori, ascosa umiltà e piglio sbarazzino, son difficili da ritrovare. E non è nostalgia d’un passato che, se si è lasciato alle spalle abbrutimento e miseria, ha conquistato un raggio di sole. Ma è smarrimento dell’identità di persone, di origini sociali e geografiche nel parlare di chi con decoro e forza di volontà ha seguito la via della vita. Sudata e limpida. Dei bambini che diventavano uomini nella “Scuola 725” di don Sardelli, di chi è uscito dal buio del Mandrione forgiandosi nelle difficoltà, e ha schivato le emancipazioni malavitose degli epigoni di quel clan natale assurto a clan dei boss.