lunedì 15 settembre 2025

No pasan

 


Non passano loro, i ciclisti della Israel-Premier Tech, e non passa l’intero gruppo della Vuelta, fermato a cinquantasei chilometri dal traguardo finale di Madrid, perché nella capitale era rivolta. Migliaia di spettatori hanno divelto le transenne occupando il percorso, si sono scontrati con la Guardia Civil, hanno esaltato una protesta che aveva già avuto in più punti della corsa a tappe dissensi, proteste, accuse alla formazione creata ad arte dall’immobiliarista  israeliano-canadese Sylvan Adams per sostenere Israele attraverso il ciclismo. Certo, nel progetto partito undici anni or sono, c’è anche un ex corridore israeliano, Ran Margaliot, professionista poco conosciuto, per i limiti agonistici d’una carriera spesa fra i giri di Slovenia, Picardia, Baviera, tutte gare minori. Margaliot, nel progetto di Adams e del socio statunitense Baron, è servito a offrire credibilità agonistica a un’operazione che ha tutto il sapore di propaganda politica, non tanto perché Israel Cycling Academy sottolineasse un’appartenenza statale pur in un’iniziativa privata, ma per l’insistenza con cui il suo mentore, che tre anni fa ha trasformato la denominazione in Premier Tech (azienda canadese di elettrodomestici per la casa), conservava ostinatamente il nome Israel accanto allo sponsor. Del resto Adams si fa vanto di promuovere nel mondo sportivo la causa d’Israele. Operazione di supporto all’attuale linea governativa e di Stato che gran parte del mondo considera indegne. C’è, dunque, poco da stupirsi se le contestazioni piovono sul manipolo di faticatori del pedale ingaggiati dalla squadra, che nei giorni scorsi aveva rimosso dalla maglia il riferimento a Israel, mentre le bandiere palestinesi dal bordo dei tornanti baschi invadevano il percorso. Non è servito. Nel finale madrileno  una marea umana ha bloccato tutto. Alla faccia di Adams e del suo progetto di “diplomazia sportiva”, già utilizzata nel periodo dello sdoganamento d’Israele nel mondo arabo con gli “Accordi di Abramo” cui Israel Cycling Academy contribuiva partecipando al Giro degli Emirati (sic). 

  

Ora il sindaco della capitale spagnola Martinez-Almeida grida alla vergona gettata addosso al Paese dai manifestanti e pure dal premier Sanchez, ritenuto “responsabile della violenza vincitrice sullo sport”. Martinez-Almeida un cinquantenne il cui curriculum lo dà già ventenne inserito nel Partito Popolare fino all’ingresso in pompa magna nella municipalità nell’anno 2019, in virtù dell’alleanza del suo partito con le formazioni Ciudadanos (gruppo liberale nato nel 2005) e Vox (più recente raggruppamento di estrema destra che proprio nelle elezioni dell’aprile 2019 fece un balzo al 10% con punte nella Spagna provinciale e pure nei distretti di Madrid e Valencia). Il rampante Martinez-Almeida sotto il doppiopetto liberale cela parentele imbarazzanti quale nipote del diplomatico franchista Emilio de Navasqués. Sarà questo lo spirito che l’ha avvicinato alla ricca borghesia barcellonese monarchica, nazionalista, nostalgica da cui proveniva il primo presidente di Vox, il professor Quadras-Roca? O forse è più a suo agio con l’attuale leader del gruppo alleato Abascal Conde, sociologo rude abbastanza da definirsi esplicitamente reazionario, antiislamico e antifemminista per onorare la memoria del nonno sindaco nella Spagna franchista. Gente che in ogni proclama, in qualsiasi affermazione pubblica rigurgita concetti di violenza inaudita, e poi addita gli avversarsi, li accusa, li incolpa di “seminare odio”. Come fa la loro amica, la presidente italiana del Consiglio Giorgia Meloni. Anch’ella beneficiaria di un’alleanza di comodo e d’affari con cui guida fra astensioni maggioritarie un’Italia già “rieducata” dal suo padre putativo Berlusconi e imbesuita da un’opposizione talmente balbettante da risultare scioccamente inutile. Forse le nostre piazze, in troppi casi tradite eppure palpitanti, seguendo l’esempio degli ostinati espectadores de ciclo amantes de la libertad, possono alzare la propria voce, da opporre ai passatisti, ai colonizzatori e usurpatori dello sport, ai massacratori del popolo di Palestina.

 

 


martedì 9 settembre 2025

Bombardare le trattative

 


I quindici missili dell’aviazione israeliana sganciati su un’area residenziale nella qatarina Doha, dov’era ospitato e riunito il vertice Hamas, ha un duplice valore. Quello immediatamente espresso dal governo israeliano: controbattere a suon di bombe l’assalto di ieri nelle strade periferiche di Gerusalemme est, inizialmente pensato come spontaneo e comunque lodato dal Movimento islamista, quindi rivendicato come proprio. Da qui il via libera al raid denominato “Giorno del giudizio” che doveva colpire i restanti leader vecchi e nuovi della resistenza palestinese: Khalil al-Hayya, presidente dell’Ufficio politico di Hamas, Khaled Meshal, Zaher Jabarin. Israele afferma che il colpo è riuscito, facendo intendere che, com’era accaduto ad altri capi palestinesi, l’omicidio mirato è compiuto. La forza palestinese ha rintuzzato la notizia dicendo il contrario: il terzetto è salvo, a perdere la vita sono stati il figlio di al-Hayya, Hammam, e il funzionario del partito Jihad Lubbad. L’ulteriore intento dell’operazione era quello di stoppare l’iniziativa trumpiana d’inseguire un tavolo di trattative, al quale Hamas aveva risposto favorevolmente. Le bombe di oggi pomeriggio ribadiscono la chiusura di Netanyahu verso qualsiasi accordo, anche momentaneo e parziale, rilanciando la linea dell’occupazione di tutta la Striscia, l’evacuazione della popolazione locale, strada unica e forzata senza nessuna alternativa. Poiché per l’odierno raid, Tel Aviv ha avvisato Washington, traspare il doppio taglio con cui il premier d'Israele impone al presidente-tycoon il tragico ‘giorno per giorno’ che disegna il drammatico futuro mediorientale. Comprese le mosse atte a invadere e bombardare Stati sovrani - non solo i nemici libanesi, iraniani, yemeniti, ma gli stessi Paesi alleati dove gli statunitensi conservano proprie basi, come al-Udeid - mentre trova conferma il doppismo del presidente americano. Lui proclama di condurre il gioco, militare e diplomatico, nella regione; invece risulta un complice succube di quanto il sionismo ortodosso e l’ebraismo fondamentalista mettono sul piatto dell’imposizione geopolitica internazionale.

lunedì 8 settembre 2025

Fuoco a Gerusalemme

 


In due, disperati più che accecati di rabbia, stamane hanno preso a sparare nell’agglomerato di Robot, Gerusalemme est, quartiere e territori occupati. Contro un autobus strapieno e contro la cittadinanza ebraica presente alla fermata. Erano, perché li hanno freddati, palestinesi. Venivano dai dintorni di Ramallah, quella della Muqata di Arafat e del sogno che fosse una nuova Palestina, una patria in nuce. Invece era solo illusione compromissoria, era Cisgiordania soffocata dall’occupazione e dai coloni, soprattutto gli haredi una branca degli ultraortodossi che girano armati e fanno fuoco. Pure loro a freddo. Così i due attentatori che stamane hanno assassinato sei cittadini israeliani, fra cui quattro rabbini, e ferito altre dieci persone, sono finiti crivellati loro stessi. Sangue su sangue. Come sia potuto accadere fra muraglie e contro muraglie, una selva di check-point e polizia e militari e civili ebrei armati fino ai denti non è facile capire. Effetto sorpresa da parte di due sfuggiti a ogni controllo, partendo dai villaggi di Qatanna e Qubeiba. Luoghi ora già circondati da blindati e, c’è da giurarlo, puniti in giornata o al più domani. Come? con arresti, sbancamenti perché Netanyahu, che ha mollato ogni impegno accorrendo sul posto per comiziare a suo vantaggio l’accaduto, promette vendetta sulla cerchia degli aiuti. Su chi ha procurato mitra, pur artigianali e imprecisi,  ma efficaci nell’impattare da posizione ravvicinata, nel caos che s’è creato appena è partito il primo colpo, con la gente che si riversava fuori dal bus preso di mira. Perciò i commenti nell’area sono del tono: “Il nemico vuole solo ucciderci, per questo dobbiamo ripulire Gaza e prenderci la Cisgiordania”. Nessuno rivendica un gesto criminale che pare opera diretta di quegli abitanti di serie B, reclusi e frustrati per quel che gli accade attorno, per le esecuzioni di civili che in contemporanea hanno visto crepare quaranta gazawi. Fare paralleli non esiste e non ha senso, ma questi sono i rapporti: sei a quaranta. Duemila a sessantatremila, morto più, morto meno in un calcolo non feroce e cinico bensì approssimativo e reale. Lo Shin Bet sostiene che di simili mattanze volanti ne sventa dieci e più al mese. Stavolta non l’ha fatto, non c’è riuscito, non ha voluto come un po’ per il 7 ottobre? Non lo sapremo mai, anche perché la geopolitica sta avanti e oltre. Ha già scelto cosa far fare a Israele: occupare tutto, trucidare a discrezione, evacuare con lusinghe e con la forza, ogni angolo dove i palestinesi vivono per cancellarne la memoria. Come di quei villaggi e paesini dove la loro progenie trascorreva giorni e notti fino alla metà degli anni Quaranta. E di cui è scomparso qualunque ricordo.  


 

giovedì 4 settembre 2025

Cina vicinissima

 


Fanno più effetto le fitte e perfette file di divise multicolori che percorrono a passo marziale la piazza Tienanmen oppure lo scorrere iper armato di ordigni nucleari (DongFeng-61, JL1 Fulmine), i missili antinave supersonici, i carri e i droni, al cospetto di cittadini estasiati e orgogliosi più del regista e padrone dell’intero spettacolo di grandiosa grandezza dell’Oriente più evoluto? Entrambi. Ma la seconda voce si trascina a suo conforto l’effettiva capacità di questa potenza che è esibizione di tecnologia. L’odierna Cina antioccidentale, anche perché un certo Occidente la stuzzica e continua a bistrattarla, sta raggiungendo quello status per cui gli imperi s’innalzano e s’impongono: la tecnica creata e applicata. La padroneggia ovunque, e ora che ne mostra gli effetti anche nell’antico mestiere delle armi, su cui i nemici storici, nipponici e statunitensi, avevano la meglio diviene lo spettro da cui difendersi. In realtà è più d’un ventennio che l’ora ics è attesa da politologi e analisti economici, ma chi pratica gli effetti di queste materie, che per il dominio del mondo sono accampate fra la Casa Bianca, il Pentagono e Wall Street, dunque dai tempi di Bush junior, passando per Obama, Trump, i generali e i finanzieri posti ai vertici di quegli organismi, ha nicchiato facendo finta che il Dragone esistesse solo nei brutti sogni. Certo, ancora oggi che uno Xi Jinping vestito da Mao Tse Dong si bea sul palco godendosi la propria Pace Celeste, le classifiche del Pil globale mettono gli affari statunitensi davanti a tutti, coi propri sei trilioni di dollari di vantaggio a trainare il carro capitalistico del pianeta. Ancora oggi JB Morgan e Bank of America primeggiano in tutte le Borse, anche in quelle asiatiche di Shanghai e Singapore. Però non durerà. Lo dicono gli advisors di Manhattan, e le statistiche dei numeri che pongono sempre più studenti cinesi (e indiani) nelle università del mondo e conseguentemente negli organismi della ricerca tecnologica e poi della finanza internazionali,  così da scavare spazi per la trasformazione della supremazia e creare sorpassi. La demografia presenta il conto quando s’accompagna a pianificazioni statali, e in questo lo statalismo postcomunista in salsa capitalistica punta a fare Bingo, con la soddisfazione nell’iperuranio dell’uomo che alla scomparsa del grande Timoniere tirava la volata a simili soluzioni, Deng Xiaoping. 

 

 


Forse l’ex “capo architetto” della riforma economica cinese, solo approssimandosi alla dipartita terrena subodorava che il grande balzo avrebbe aperto scenari catastrofici per il cosiddetto Vecchio Mondo, ma chi osservava da un mondo egualmente antico e compassato aveva tutto il tempo di attendere sulla sponda del fiume il passaggio di cadaveri. Capitalismo di Stato, mix di statalismo e privatizzazione, controllo socialista del capitalismo, capitalismo collettivistico burocratico, le definizioni d’un orizzonte socio-economico fino a mezzo secolo addietro sconosciuto si sono sprecate in questi anni. Fra l’altro i tratti sono in divenire e sono mutati dal 1980 ai giorni nostri, con tanto di tratti d’indicibile profitto, corruzione, criminalità speculari alle peggiori storie delle fortune (capitalistiche) indissolubilmente legate al crimine, come ricordava il Balzac di Papà Goriot, perché certi vizi non hanno latitudini geografiche e possono riprodursi ovunque. Ma non sono tali righe una disamina sul dna cinese, non ne avrebbero le competenze che illustri studiosi di sistemi economici realizzano da tempo, proponendo distinguo e contraddizioni di questo Paese, idealizzato prima e dopo il Sessantotto per marxismo-leninismo allo stato puro, con comuni agricole, studenti-operai, ore di studio e lavoro a forgiare una nuova gioventù per una società migliore, comprensiva di ‘rivoluzione culturale’ e Rivoluzione con la maiuscola. Del cambio di passo di Deng, s’è ricordato, e si può pure rammentare la Tienanmen della rivolta studentesca dell’Ottantanove - rivoluzionaria? borghese? - la cortina dell’epoca ne discorreva poco. A Occidente s’insinuava, s’ipotizzava, dall’interno un Deng matusa  celava tutto, soprattutto le vittime d’una repressione protratta nel tempo. Fu l’ultimo anelito d’una Cina  ideologica e ideale? Forse. L’immagine dei Novanta e molto oltre è data dalle impattanti China National Petroleum Corporation, Sinopec, China State Construction Engeneering attive, attivissime ed efficaci sulle piazze mondiali, accusate d’impossessarsi dei tesori dell’altrui sottosuolo in Africa, Asia, Sudamerica. Accusate da chi? dalla concorrenza che pratica il medesimo scippo dall’epoca del colonialismo seicentesco. Nel pieno rilancio dei blocchi commerciali, geopolitici, geo militari, imperi invecchiati e innovati si confrontano, proponendo adesioni. Con uno spazio per le utopie scarso o nullo; i sistemi forti s’espongono per imporsi, gli altri osservano più o meno persi o angosciati.

lunedì 1 settembre 2025

L’altro organismo

 


Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva, assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza. Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’ pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi. 

 

 

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India, rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh, e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da soli fanno un quarto della cittadinanza   globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan, perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil. Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori, da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso vale  per la Turchia erdoğaniana, liberata dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto collo, ma tant’è. 

giovedì 28 agosto 2025

Sepolti vivi

 


Fra i sepolti vivi nelle carceri mediorientali i prigionieri egiziani, dall’epoca del golpe bianco di al Sisi, hanno un privilegiato posto di dannazione. Sono oppositori, islamisti e laici, che superano la metà degli ‘ospiti’ delle locali galere stimati in oltre centoventimila nell’ultimo censimento del 2021. Gli appartenenti alla Fratellanza Musulmana, che nella rivolta anti sistema e anti Mubarak del 2011 risultarono i più organizzati, lesti e scaltri fra le formazioni politiche ad accaparrarsi il potere (vincendo comunque legalmente le elezioni col partito Giustizia e Libertà), hanno poi riempito in gran numero le celle delle antiche e terribili strutture come Tora, e le nuove creazioni stile “Badr Correctional and Rehabilitation Center”, collocato a 70 km dalla capitale, di cui il regime militare e i sostenitori sauditi e statunitensi vanni fieri. In questi complessi di costruzione recente e tecnologica può accadere che manchi l’energia elettrica per un numero imprecisato di ore, fino a un’intera settimana. Un atto voluto, denuncia un’associazione dei familiari, una coercizione collettiva che lascia i reclusi al caldo e al buio, nell’impossibilità di avere accesso ai turni d’aria per via delle porte automatiche bloccate, gli impedisce di cucinarsi del cibo in proprio, peraltro già ridotto nelle forniture che non possono essere distribuite dai parenti le cui visite finiscono per essere proibite con un’assoluta discrezionalità. La resistenza fisica e psicologica degli internati non è affatto scontata. C’è chi si lascia andare fino a tentare il suicidio e c’è chi irrimediabilmente lo pratica. Ong straniere che non possono più lavorare nel Paese arabo hanno denunciato tali condizioni di particolare oppressione e disumanizzazione; lo fa anche qualche intellettuale impegnato nella difesa dei diritti umani, lo scrittore e analista politico Mohamed al Sayed è fra i più attivi. Però nulla si muove. 

 

 


Fra i detenuti politici più colpiti c’è la categoria dei figli dei leader, in tanti casi agguantati dai militari solo per ragioni anagrafiche. Anas al Beltagy, figlio di Mohamed ex parlamentare della Fratellanza, è dentro da undici anni, molti dei quali trascorsi in isolamento. Un’istanza internazionale ne ha sottolineato i pericoli per la sua incolumità, poiché respingere all’infinito la richiesta di visite a un detenuto può incidere sulla sua possibilità di sopravvivenza, sostengono gli avvocati. Mohammad Khairat al Shater, il businessman della Confraternita per la sua attività d’imprenditore oltre che per le competenze ingegneristiche, è stato fra i primi arrestati della controrivoluzione di al Sisi, prima dello stesso presidente Morsi. Le autorità militari lo prelevarono il 5 luglio 2013 sebbene fosse un parlamentare di Giustizia e Libertà.  Sua figlia Aisha e il di lei marito, l’avvocato Horeira, sono anch’essi custoditi nella terza struttura del mega carcere di Badr, condannati a quindici anni. L’unica motivazione è la parentela col l’ex onorevole islamista. Se fra i detenuti comuni, periodicamente ci scappa qualche liberazione, i politici devono sudarsela. Ne sa qualcosa Alaa al Fattah, la cui madre, Laila Soueif, nonostante l’età inanella scioperi della fame a rischio della sua vita. I politici islamisti non possono nutrire speranze di redenzione da parte del regime che, appunto, ne perseguita gli stessi familiari. E per rilanciarne e prolungarne la reclusione inventa accuse per alimentare un processo infinito, simile a quello che negli anni scorsi bloccava la scarcerazione dello studente cairota-bolognese Patrick Zaki. La macchia di Zaki era la critica alla coercizione egiziana, ma i fratelli e le sorelle musulmane sono molto più odiati dalla lobby delle stellette: il loro islam politico dev’essere sotterrato e i loro corpi murati. Che serva da esempio a chi pensasse di riprenderne il pensiero.  

lunedì 25 agosto 2025

Israele, viva la morte

 


Ore undici. Ospedale Nasser di Khan Yunis. Israel Defence Forces colpisce con un missile il quarto piano della struttura sanitaria. Ci sono vittime. Una decina di operatori intervengono su una scala esterna per prestare soccorso ai feriti dalle schegge, si vedono un fotografo, dei cronisti. Passano alcuni secondi. Mentre il gruppo lavora al soccorso magari ciascuno immagina di poter essere comunque un bersaglio. Tutti prestano aiuto, come non potrebbero... Nella carneficina ordinata da Israele lungo l’intera Striscia, ognuno aiuta l’altro. Eppure l’essenza assassina dell’esercito della morte impone la propria logica al manipolo della vita e puntuale giunge un secondo missile che deflagra squassando i dieci soccorritori, smembrando quei cuori che assistevano chi era già stato colpito. Schegge, calcinacci, fumo, polvere. E urla strazianti. Sotto, la fuga di chi partecipava moralmente al sostegno da offrire a sorelle, fratelli, cittadini cui lo Stato ebraico ruba terra, vita, futuro volendoli cadaveri o profughi eterni. Nelle esplosioni vengono assassinate venti persone, gli ennesimi abitanti senza pace, gli ennesimi giornalisti cui Israele impone viscidamente la morte per sotterrare con loro la temuta verità sul suo disegno genocidario. Ne ricorda i nomi Middle East Eye che perde i collaboratori Abu Aziz, attivissimo sin dai primi giorni degli assalti avviati dall’Idf e il suo collega Salama. Oltre a loro vengono uccisi: Mariam Dagga, giornalista freelance che ha lavorato con Associated Press, Moaz Abu Taha della NBC, Hussam al-Masri fotoreporter dell'agenzia Reuters. David Hearst, caporedattore di MEE, è disperato. 

 

 

Considera Aziz e SalamaCronisti eccezionali, capaci di lavorare in condizioni impossibili” prima d’essere maciullati da Israele. "Aziz aveva il dono di vedere cose che gli altri non riuscivano a vedere e descriverle in modo dettagliato - aggiunge Hearst - Non potendo nascondere la verità sul genocidio che sta perpetrando a Gaza, Israele sta uccidendo quante più persone possibile. Quello che fa è terrorismo praticato da uno Stato”. Nella trappola per soccorritori, col doppio missile che va a martoriare chi presta aiuto quale secondo bersaglio, ricorda gli attentati dello Stato Islamico, fra Siria e Afghanistan. Accadeva a Kabul nel 2018, quando impazzava la strategia dell’orrore imposta dall’Isis-K in funzione antitalebana, oltreché antigovernativa. Era una mattanza per il controllo del territorio, con ampio utilizzo di kamikaze. E soprattutto con bombe che esplodevano fra le braccia dei soccorritori e dei giornalisti accorsi a documentare. Ce ne fu una serie di questi vili agguati, morivano giovani reporter, validissimi fotografi, che mostravano quella guerra solitamente tenuta celata da chi la pratica. La logica del caos, del sangue innocente e copioso da far sgorgare a fiumi per terrorizzare, s’accompagna all’intento di tacitare la realtà, offuscarla con proclami di propaganda, imponendo non solo il veto all’informazione internazionale, ma applicando lo stragismo alla libera informazione di quei palestinesi che dal proprio territorio ridotto a disastro totale praticano audacemente una militanza dell’informazione. A tutti i costi. A costo della vita. Perché un’esistenza schiacciata sotto il giogo impositivo dei crimini reiterati da Tel Aviv, protetti da Washington, ignorati da Bruxelles è una non vita. Denunciarlo è un dovere, come professionisti della notizia, come cittadini d’un popolo che subisce un genocidio, come giovani appassionati della vita, capaci di lottare in ogni modo contro chi, alla maniera dei falangisti d’un tempo, gli sbatte in faccia il suo lugubre: “Viva la morte”.