mercoledì 5 novembre 2025

Revisionismo talebano

 


E’ uno spaccato utile per aggiornarsi, confrontare, capire frammenti di vita distanti due decenni. Quelli dell’Afghanistan delle Repubbliche fantoccio create e sostenute dall’Enduring Freedom statunitense e dell’Occidente intruppato nella Nato e l’attuale orizzonte del secondo Emirato Islamico con quattro anni di conduzione sulle spalle. Ce l’offre un report di Sharif Akram, ricercatore e collaboratore del network Afghanistan Analysts, che assembla testimonianze, dialoghi, incontri avuti per settimane con mercanti dei tempi andati e presenti, e alcuni miliziani talebani e cittadini che si sono schierati con loro, non solo negli ultimi mesi del 2021 affacciati sulla vittoria finale, ma durante la lotta per il potere. E’ significativo e inquietante che nessuna donna o comunque nessun pensiero, anche indiretto, del genere femminile appaia nel resoconto. Che illustra soprattutto, con la voce di protagonisti, cos’era e qual è il commercio odierno. Un modo per sbarcare il lunario o magari posizionarsi bene, poiché è indubbiamente la merce che fa la differenza, con tanto di prezzi e costi del materiale. Ma anche nel limitato business d’una panetteria, di cui parla più d’un intervistato, oggi si pagano meno tangenti dell’epoca di Kharzai e Ghani. Questo sostengono gli interpellati. “Anni addietro il mio negozio è stato chiuso perché ero di Wazakhwa (nel distretto di Paktika, zona a lungo controllata dai turbanti) e perché avevo la barba”. Mentre bazari, fermati un tempo come ora nei trasbordi fra le province, ricordano che polizia e miliziani filogovernativi erano più duri rispetto all’esercito nazionale contro cui i taliban combattevano. Attualmente, riferiscono gli intervistati, le province s’attraversano più facilmente, tutte e trentaquattro le province. Uno rivela che durante il governo Ghani si nascondeva e lavorava a Kabul, pur combattendo fra le file degli insorti. Lo faceva per campare, perché non sempre e non tutti i miliziani venivano sovvenzionati dal centro. E chi doveva pure mantenere la famiglia aveva necessità di lavorare. Dunque, militanza part time. Eppure nessuno l’ha scoperto. Per anni. Altri, a periodi, facevano addirittura la spola fra Emirati Arabi e monarchia saudita, perché lì il lavoro era certo. I combattenti-lavoratori venivano aiutati nell’espatrio e dovevano versare una quota del guadagno all’unità militare d’appartenenza. Questo è il passato. 

 

Il presente vede egualmente la creazione di un’élite direttiva che, al di là del governo e del Gotha di Quetta, nutre con un lavoro statale una cerchia di filo taliban inseriti nell’occupazione statali. Né più né meno di quanto accadeva con gli esecutivi para occidentali. L’unica differenza sta nel numero dei posti disponibili che, per ragione di fondi, sono decisamente ridotti rispetto ai tempi d’oro della Repubblica. In aggiunta l’Emirato, impedendo la presenza di Ong internazionali o limitandole sensibilmente, non può offrire lavoro ai locali che le strutture non governative sempre privilegiano nei loro interventi. E allora ancora commercio. Il bazar, i mercati dislocati dove si può continuano a rappresentare un diffuso mezzo di sostentamento, se non si è contadini oppure coinvolti nei cantieri edili tuttora presenti e attivi. Un tempo erano ex Signori della guerra a controllarli, investendo sul mattone denari d’ogni provenienza. Certo, attualmente essere nel manico di figure di spicco della galassia talebana favorisce queste e altre imprese. Al di là dei recenti venti di guerra col governo di Islamabad, già due anni addietro l’amministrazione pakistana iniziava ad alzare steccati verso il confinante Emirato, non solo per ragioni ideologiche e securitarie sugli scambi di favori fra pashtun inturbantati lungo quella linea Durand. Di mezzo ci sono rifugiati e profughi, tutti afghani, che stazionano a milioni fra Peshawar e le pietraie del Khyber Pass. Il premier Sharif e il generale Munir non li vogliono più, è la punizione e il ricatto per il rifugio che i Tehreek-i Taliban ricevono dai seguaci di Akhundzada. Il rimpatrio fa aumentare la cittadinanza povera, tuttora esistente e impossibilitata a qualsiasi impresa. Ma il percorso delle interviste si snoda fra il ceto dei piccoli e medi mercanti, ciascuno afferma di riuscire a guadagnare cifre maggiori rispetto a un pur dignitoso stipendio statale, facendo il ristoratore (anche con piatti pakistani, sic), il sarto, il venditore di tessuti, addirittura di cosmetici e profumi della localmente nota azienda Al Makah Khushboo Mahal. Cosmetici? Pare di sì, probabilmente utilizzati in privato dalle mogli delle élite mercantili e politiche.  

 

Insomma, per quella che si potrebbe definire una mutazione antropologica dei talebani d’Afghanistan quest’ultimi consumano e investono. Non sono più quelli del primo Emirato, almeno negli usi hanno tagliato i ponti coi princìpi del mullah Omar. Così si dice. Religiosi lo sono tuttora, ma non più diffidenti verso ambienti che finora rigettavano a priori. Il tempo scorre, e cambia. Sarà che la permanenza a Doha, dove dal 2010 stabilirono una propria agenzia all’epoca dei primi colloqui con gli Stati Uniti che volevano uscire da una situazione geopolitica e militare per loro ingovernabile, li ha plasmati verso i dollari? Certo è che taluni mercanti della capitale parlano addirittura di luoghi dove s’ostenta ricchezza. Le attività commerciali di lusso in aree come Shahr-e Naw e Wazir Akbar Khan (zona residenziale nord della capitale, dov’era l’ambasciata americana) luoghi dell’élite politica della Repubblica ora coinvolgono la classe emergente dell’Emirato. Vecchia situazione che ricorda l’altra faccia dell’imperialismo, quella dei beni di consumo che da un trentennio nel Vietnam si son presi la rivincita sulle sconfitte militari dell’Us Army. Accanto all’ostentazione della ricchezza appaiono trasformazione dei valori sociali e stili di vita. Ovviamente per cerchie ristrette che comunque danno lavoro al  commercio citato. Addirittura con mode del caso: i copricapo alla Yaqubi e Muttaqi, rispettivamente ministro della Difesa e degli Esteri, diventano un fenomeno di cui magari fra qualche tempo s’occuperà Vanity Fair. Per ora, si dice, facciano tendenza fra i taliban che se lo possono permettere. I bazari intervistati sostengono che “durante la Repubblica la gente di Kabul non indossava quelle cose e non c'erano negozi che le vendessero. Molti funzionari erano soliti ordinare e acquistare i loro vestiti dall'estero”. Risulta che gli ex talebani, entrando nel settore privato urbano, si sono ampiamente adattati a un ambiente modellato da norme molto diverse da quelle alle quali erano abituati. 

 

Chi li aveva visti in azione solo un quinquennio fa conferma che sono cambiati, influenzati da meccanismi globali e capitalistici: “Nei primi anni del potere talebano avevamo perso la maggior parte dei clienti che erano per lo più funzionari della Repubblica, stranieri o persone provenienti da Ong. Ora ne acquisiamo di nuovi dagli stessi talebani, gli uomini con i turbanti comprano esattamente le stesse cose”. Si registra anche un allentamento degli standard d’austerità, si cercano nomi, design e menu in stile occidentale. Addirittura? Sembra di sì. Magari non da parte delle figure più in vista dell’esecutivo islamista, ma dalla nuova casta affarista che li contorna, li segue, li ossequia, li venera. Come accade a qualsiasi potente. E i vertici lasciano fare? Parzialmente. Ci sono limiti, ad esempio nell’esposizione merceologica pure nei centri lussuosi della capitale le lingue ammesse sono pashtu e dari, l’inglese è vietato. Nella pubblicità non compaiono immagini umane come manichini, teste, figure di donna. Ridotta è la visibilità dei beni di consumo femminili di cui comunque i mercanti hanno parlato con tanto di marche di profumi. Però le attività ricreative, il cinema, le sale giochi non esistono, le restrizioni sulle società di media private, i divieti su musica e teatro, hanno costretto molte aziende a chiudere. Egualmente il veto al lavoro femminile ha prodotto il blocco di molte Ong che in alcuni casi erano diventate micro imprese sociali volte al sostegno di minori abusati e abbandonati e contrasto alla violenza di genere. Ma queste sono considerazioni, certamente fondamentali, fatte a margine, poiché i soggetti interpellati, tutti uomini, prevalentemente filo talebani e impegnati in attività commerciali, sebbene in alcuni casi di mercanzia alimentare e non pregiata, non offrivano valutazioni sulla nota dolente del nuovo corso talebano: la ferrea sottomissione ed emarginazione femminile.  

giovedì 30 ottobre 2025

La custode delle tre P

  


Un nuovo anniversario. Stavolta di morte. Una morte straziante e violentissima. Quella del poeta del secolo Pier Paolo Pasolini. Ce n’erano stati altri, il trentesimo lo trascorsi con la benefica compagnìa di Angela Molteni, che avevo conosciuto qualche tempo prima, sul web. Lei a Milano, io a Roma incrociati per caso scrivendo di Pasolini e raccontando, io, quando ancora militante e pure podista, organizzavo con un Circolo politico che s’occupava di sport sociale una corsa nella romana Villa Gordiani affinché il Comune della capitale diventata rossa, di Argan prima e Petroselli poi e sempre del frizzante Nicolini, dedicasse al poeta delle borgate l’ampio terreno dell’ex borghetto Prenestino, liberato dalla baraccopoli. Angela era affascinata dal racconto e da lì mi propose di scrivere, io che letterato non ero ma passionale sì, alcune note sugli Scritti Corsari e sulle Lettere Luterane. Insomma sul Pasolini politico eretico nonostante le frequentazioni con l’allora Partito Comunista. Rientravano nelle “Pagine Corsare” della sua creatura informativa, inventata nel 1997 col supporto d’un amico-studente: www.pasolini.net ora  in   https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/. Un pozzo d’informazioni, documenti, testimonianze, interventi culturali anche di accademici, intellettuali, giornalisti, studenti, appassionati di poesia e altro incentrati sui mille e mille volti di quell’immensa galassia che è stato il giovane di Casarsa e di Bologna trapiantato a Roma. E diventato un monumento del pensiero critico di molte arti. Angela occupatissima e precisa nel tenere contatti e relazioni, appassionatissima divulgatrice per quella meraviglia che è la cultura senza intenti di lucro, libera come il suo sito direzionato sulle onde del ruolo originario di Internet: creare connessioni orizzontali, certamente curate e vigilate, ma lontane da parrocchie d’appartenenza e da lobbismi. Angela, con cui dal 2005 in più occasioni ci ripromettevamo un incontro, su nella sua Milano, ch’è stata anche per me seconda patria, sia politica sia lavorativa in certe fasi della vita. Ma c’era sempre un intoppo, un impegno pure mio, non solo suo. E in occasione del suo bel lavoro “Enigma Pasolini” poi pronto fra il 2009 e 2010, e alla fine orfano di pubblicazione cartacea per non so quali problemi editoriali (però reperibile tuttora sul web  https://www.yumpu.com/it/document/view/6925070/illustrazioni-fuori-testo-pier-paolo-pasolini-pages), mi chiese una prefazione. Onorato gliela spedii, dicendole stavolta ci dobbiamo assolutamente incontrare. Certo, ma certo, vieni su al più presto. Maledetti tempo e fatalità che scorrevano e il mio rincorrere poi le ‘Primavere arabe’ e la malattia che la colpì e di cui celava i risvolti. Così per me, in fondo un semisconosciuto nella sua vita di studio e di amorevole cura della figura pasoliniana, fu un fulmine sentire a metà ottobre 2013 che l’attivissima Angela Molteni aveva cessato di custodire con dedizione quotidiana la memoria del poeta. Lo stesso fulmine con cui, ancora studente, la mattina del 2 novembre 1975 apprendevo della morte, di mano immediatamente assassina per un omicidio di Stato, delle tre P Maiuscole della cultura nostra. Giunge il cinquantenario di quello strazio, e non riesco a non pensare a Pasolini abbracciato a Molteni. Lui ci ha offerto il cuore della sensibilità e della profondità critica, lei ha aperto un generoso cuore alla semina di quelle idee.  

lunedì 27 ottobre 2025

Senza guerriglia molti affari

 


Fibrilla il Parlamento turco, e ancor più il governo, per la ritirata definitiva del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che nella scorsa primavera ha chiuso il capitolo della lotta armata in Anatolia assieme ai fratelli delle Unità di protezione del Popolo (Ypg). Migrano tutti nel Kurdistan iracheno, fra i monti di Qandil, da decenni casa e casamatta della leadership kurda. Il Pkk ha decretato da maggio scorso il suo addio alle armi, anzi le ha pure simbolicamente bruciate in piena estate. Le Ypg le trasportano altrove, senza rivendicare l’autonomia della regione denominata Rojava. Un autogoverno da difendere con l’autogestione del territorio e della comunità e, quando occorreva, a colpi di mitra. Ma questo è il passato. Quella lotta era diventata impari, contro l’esercito di Ankara, e sullo scacchiere internazionale. Poiché fino a quando l’Isis agiva sul territorio siriano giungevano rifornimenti e armamenti statunitensi, poi è prevalso il graduale e inesorabile abbandono. Col mutare del quadro politico in Siria, il fronte anti Asad ha preso il potere e guarda a una transizione-trasformazione del territorio rimasto a lungo avamposto delle alleanze iraniane con Hezbollah libanese e Hamas palestinese. L’attuale Israele, che ha inferto duri colpi a entrambi, incarna la variabile impazzita col suo piano d’inglobare terre dei vicini. Non solo i palestinesi aggrediti con una peggiore Nakba che sa d’annientamento totale, ma a scapito appunto delle debolezze libanesi e siriane. Sostituendo Washington, Tel Aviv lancia l’amo del sostegno a senso unico verso i kurdi dell’ex Rojava, lusingandoli e illudendoli come sta facendo coi drusi. Appoggi, sovvenzioni, protezioni per usarne talune avversioni a proprio vantaggio. I leader del Pkk non si fanno irretire, però restano isolati in luoghi mai risultati centrali per lo stesso progetto dibattuto oltre quindici anni or sono da Erdoğan e Öcalan. In seguito congelato e di fatto reso praticabile in pochi mesi da chi aveva sempre avversato la grande minoranza kurda, il capo nazionalista Deviet Bahçeli, ora ferreo amico del presidente. 

 

Un accordo tattico per i due fronti. Utile all’Alleanza del popolo (Akp più Mhp) vincitrice delle elezioni nel 2018 e 2023, ma messa sotto pressione sui temi dell’economia, dell’autocrazia e della sicurezza dal Partito Repubblicano (Chp). Utile per il vicolo cieco in cui era finita la lotta armata, foriera solo di carcere e repressione a detta del medesimo leader storico Öcalan. Fra le sue richieste l’attuazione di quell’autonomia locale nelle aree del nord-est anatolico dove i rappresentanti kurdi sono eletti con ampie maggioranze ma subiscono commissariamenti, repressioni,  arresti. E l’altamente simbolico utilizzo della lingua kurda nelle stesse assemblee istituzionali come il Meclis. Proprio dello stallo di tali procedure s’è lamentato il portavoce kurdo nella conferenza stampa di ieri a Qandil, per tacere delle istanze di scarcerazione di reclusi eccellenti: Öcalan da ventisei anni, Demirtaş da quasi un decennio. I politici turchi plaudono convinti che tutto s’appianerà e guardano soprattutto i vantaggi dell’insperata pacificazione che risolleva la linea del ‘sultano’ tenuta a galla solo dal perpetuo suo moto diplomatico, ma che necessita d’un potenziamento sul claudicante fronte economico a lungo strapazzato da una straziante inflazione. Una piaga per la patria e i cittadini. Perciò politologi e analisti, ricordando le pazzesche ricadute finanziarie sulle casse interne (finora sono stati spesi 1,8 trilioni di dollari per la “lotta al terrorismo”), prospettano un futuro stabilizzato da progetti che potrebbero creare in tre anni più di 500.000 posti di lavoro. Evidentemente non indirizzati a reclutamenti dei Ministeri della Difesa e dell’Interno, come accadeva nella Turchia iper militarizzata degli esecutivi repubblicani ed erdoğaniani, bensì per agricoltura, turismo, servizi. E investimenti privati proprio nella depressa regione del nord-est. Quanto questa via sarà inclusiva e partecipativa per la gente kurda è la scommessa in atto. Al tempo stesso la pacificazione è la carta che lo Stato gioca a favore di due obiettivi al centro ai programmi di grandezza di Erdoğan. 

 

Quello di fare della Turchia un grande ‘hub energetico’ proiettato sui continenti europeo, asiatico e africano. Convogliando dai luoghi di estrazione: Paesi del Golfo e Libia fino al Caucaso e Mar Nero idrocarburi e gas, e fungendo da ponte di connessione e distribuzione. Chiusa la fase in cui i guerriglieri facevano saltare i condotti, il gasdotto transanatolico TANAP che trasporta 16 miliardi di metri cubi all'anno in Europa, TurkStream (31,5 miliardi di metri cubi nell'Europa sud-orientale), l'oleodotto BTC Baku–Tbilisi–Ceyhan fornitore di 1,2 milioni di barili al giorno,  sono esempi già esistenti in predicato di ulteriori implementazioni. Cui s’unisce il sogno sempre vivo di Mavi Vatan, la Patria blu. Cavallo di battaglia, pardon, vascello d’assalto della marina turca e del nazionalismo anatolico già all’epoca dei golpe militari, è tornata in auge fra gli ammiragli (dal suo ripropositore Cem Gürdeniz) con funzione di difesa delle cosiddette Zone Economiche Esclusive, tratti di mare di competenza delle nazioni prospicienti che nel Mediterraneo orientale vede penalizzata la costa anatolica per il ruolo giocato dalle isole greche e da Cipro. Al di là delle diatribe, comunque di non poco conto se si pensa alla gestione dei giacimenti di gas nello spazio di mare che interessano e coinvolgono Egitto, Gaza (l’unica diseredata e senza diritti) Israele, Libano, Cipro, Turchia e Grecia, Mavi Vatan su cui punta Ankara riguarda i traffici marittimi fra Mediterraneo, Oceano Indiano e Pacifico. Un affarone su cui dagli inizi del Millennio sta puntando la Cina per salvaguardare la sua linea commerciale diretta e per conto terzi nella ‘Via della seta’. Un impegno che per impotenza di capitali mercantili non coinvolge la Grecia e neppure un’Italia che ha svilito qualsiasi attività commerciale e infrastrutturale marittima ad ampio respiro. Per ora Middle Corridor (rotta commerciale dal sud-est asiatico e Cina attraverso Kazakistan, Mar Caspio, Georgia,  Turchia) funge già da affidabile ponte terrestre, ha trasportato 4,5 milioni di tonnellate di merci nel 2024 e alla fine di quest’anno supererà i 6 milioni. Dopo guerriglie interne striscianti e conflitti locali combattuti o mimati la Turchia senza terrorismo è pronta a cercare nuovi spazi di grandezza. Neo o post ottomani si vedrà.   

   


sabato 25 ottobre 2025

Gaza

 


Se tutto quello che doveva finire, è lì. E’ maledettamente lì mentre attorno s’affannano gli orchi delle soluzioni dorate, accanto ai fantasmi di risoluzioni definitive che di definito hanno solo un’inutile irrisolutezza, fra i ruderi di Gaza continua a muoversi l’indigente disperazione di chi è lasciato senza futuro nella speranza che muoia. E’ questa la lurida speranza sparsa da Israele a caccia di cadaveri dei propri prigionieri defunti e al tempo cacciatore delle vite gazawi, sebbene tutt’attorno si parla di “tregua”. La tregua non c’è finché si spara. Non esiste se attenta a quelle vite cui da più d’un anno si cerca di dare la morte per fame, freddo, malattie. Basta pensare come si è stato e come si sta al riparo d’una tenda fra i quaranta gradi estivi, con poca o nessuna otre d’acqua potabile. Sì, acqua da bere in uno spazio ridottissimo, non nell’esteso Sahara. Basta meditare come si starà fra due mesi nelle gelide notti che seguono il solstizio d’inverno. Sarà il terzo per i sopravvissuti al genocidio, pensato e attuato dal popolo eletto che intanto festeggia il ritorno a casa di chi s’è salvato dalla prigionia, ma non rivolge, non vuole rivolgere lo sguardo al popolo tenuto prigioniero nella Striscia. Ancora per poco, meditano gli orchi delle soluzioni dorate. Intanto le settimane scorrono e altri ammalati s’aggravano e crepano. E altri sopravvissuti s’ammalano, in un circuito della distruzione alimentato dalla geopolitica dell’orrido e dell’odio. Ai sessantottomila cadaveri di gazawi conteggiati, s’è detto più volte, occorre aggiungerne altrettanti e forse più rimasti sotto le macerie. E quelli che deperiscono per la straziante vita offerta dalla guerra e dalla sedicente pace. Una vita senza soluzioni. Dicono i Medici senza frontiere e la Mezzaluna Rossa: “Sono state documentate migliaia d’amputazioni e di casi di lesioni alla colonna vertebrale e al cervello, un numero sproporzionato che colpisce adulti e bambini”. Eppure le disabilità personali e collettive, ben oltre l’ultimo immane massacro, risiedono anche nell’impossibilità di rilanciare una propria dimensione e organizzazione sociale, non solo di soccorso sanitario e alimentare, ma d’istruzione, rapporti sociali, e serena umanità.

 

Questo accadeva da quando, vent’anni addietro, Gaza s’è emancipata dall’occupazione di Tsahal e dallo sfratto dei coloni. Da quando ha votato e ha scelto un partito, Hamas, su un altro, Fatah. I due gruppi per un mese si sono scontrati e sparati, lotta fratricida per il potere. Quindi ci hanno pensato Israele, l’America e l’Occidente a praticare e avallare un blocco aereo, marittimo, terrestre, il blocco dell’isolamento dal Medio Oriente anche quello a portata di check point, e dal mondo. Prigionieri. E bersagli di repressione. Dal 2007 Israele vietava l’ingresso di elementi di fibre di carbonio. Per costruite avveniristici telai di bici? No. Per armi altrettanto sofisticate. Neppure. Per curare – dicono gli ortopedici – le lesioni agli arti. Così per le resine epossidiche, utili alle protesi leggere e sopportabili. Disumana vendetta, eroi di Tsahal. Giovani schiavizzati a “difendere” uno Stato coloniale, complici delle ferite, delle infezioni e amputazioni, delle disabilità permanenti inferte a quei vicini di casa, cui avete rubato la casa, e che volete far morire per salire in alto nella gloria nazionale militare e poltica. A imitazione di Ben Gurion, Yitzhak Rabin, Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Shimon Peres. E Barak. E Sharon. Molti già terroristi. Tutti soldati e poi generali e Primi Ministri d’uno Stato in stato d’assedio permanente. Oggi per attuare il genocidio palestinese Israele crea generazioni di oppressi e disabili. A Gaza epatite e meningite si sono radicate perché Israel Defence Forces, anche dopo la risibile pace trumpiana, tiene a sua discrezione chiusi i valichi (Rafah, Erez, al-Karara, al-Shujaiah)  impedendo ai camion con vaccini e presidi medici di entrare. La mancanza di cibo e acqua disabilita lentamente i gazawi, causa carenze vitaminiche, deperimento muscolare, deterioramento cognitivo e soppressione immunitaria, aumentando la suscettibilità alle malattie infettive. Grazie ai giornalisti locali, quelli internazionali Israele li tiene lontani dall’Inferno che crea, osserviamo sequenze inquietanti di famiglie che spingono in modo impossibile i propri cari su sedie a rotelle antiquate, fra macerie e devastazione mentre le bombe esplodono dietro di loro.

mercoledì 22 ottobre 2025

Consulenze criminali

 


C’è un comune denominatore che nelle ultime settimane ha messo in relazione più dei tempi passati il presidente egiziano al Sisi e l’ex premier britannico Tony Blair: la gestione del potere. Che ciascuno esercita o ha esercitato nel proprio Paese, il generale del Cairo dal golpe-bianco del 2013, l’ex leader laburista nel decennio (1997-2007) di permanenza a Downing Street, e che ora riverbera le proprie inquietanti ombre sulla gestione futura della Striscia di Gaza. Da quando il ‘fautore della pace’ Donald Trump ha designato Blair quale capo staff per il sedicente “Transito internazionale di Gaza” e nel recente summit di Sharm el-Sheikh promosso il dittatore del grande Paese arabo quale timoniere delle trattative presenti e future, i due stravedono l’uno per l’altro. Del resto s’apprezzano da tempo. All’epoca delle “Primavere arabe” l’inglese che aveva terminato i suoi mandati, ma continuava a influenzare la geopolitica avviando una personale carriera di lobbista internazionale, attraverso proprie consulenze con la petromonarchia emiratina dette ‘suggerimenti’ sul da farsi al generale. Questi s’era presentato con una strage: mille o duemila (non si seppe mai) attivisti della Fratellanza Musulmana crivellati a colpi di mitra davanti alla moschea Rabaa al-Adawiyya per spodestare l’islamista Morsi dalla presidenza.  Da quel momento il comune nemico islamista (che Blair aveva personificato nel popolo iracheno provocandone massacri con la guerra del 2003) sarebbe stato spazzato via in metropoli e villaggi egiziani con qualunque mezzo. Cioè assassini di singoli e gruppi, sparizioni a migliaia, arresti a decine di migliaia, condanne, detenzioni a vita, misteriosi suicidi carcerari e tonnellate d’intimidazioni per favorire un potere tuttora duraturo fra il plauso e l’omertà della comunità internazionale anche al cospetto di tali crimini. Blair, del resto, propone consulenze diffuse a livello planetario con una meticolosa organizzazione che porta il suo nome “Tony Blair Institute” (megalomania o strapotere?) ammantando l’iniziativa da missione, quasi umanitaria.  

 

Aiutiamo i governi e i leader a fare cose - recita il suo sito -. Lo facciamo consigliando strategia, politica e sbloccando la potenza della tecnologia in tutti i campi. Come no-profit possiamo lavorare nei contesti più impegnativi e sui progetti più trasformativi perché il nostro focus è sui leader piuttosto che sui profitti. E come organizzazione apartitica, possiamo portare il meglio della nostra esperienza ai leader che vogliono tradurre la loro ambizione in un'azione significativa per le loro persone”. Parrebbe una sorta di Ong, a-partitica, a-confessionale, che però odia l’Islam politico, soprattutto interfacciandosi a leader arabi (al Sisi, bin Zayed, bin Salman) che praticano la repressione di questa componente politica vista non come avversario, ma nemico da sradicare e seppellire. Politicamente e non solo. In tal senso il piano per la transizione a Gaza secondo i progetti trumpiani è un tutt’uno con le volontà d’Israele: distruggere militarmente e politicamente Hamas, porre in esilio l’attuale leadership favorendo la collaborazionista Anp, deportare i gazawi, collocarli in campi profughi magari egiziani (Sisi è stato scelto per collaborare), libanesi, siriani. Tanto per allungare lo sguardo sul corpo dell’Istituto di Blair, a esso collaborano operatori di qualità (https://institute.global).  Lunga e fitta è la lista, ci sono tanti giovani esperti provenienti dai Paesi dell’Europa un tempo colonialista e oggi ambiguamente sostenitrice di cambi di regime. Ma pure consulenti dei Paesi più colonizzati, africani e non. Certo, quando nella lista s’incontra il nome di Matteo Renzi (dal giugno 2024 c’è anche lui), ex premier come Blair, ex sedicente progressista sulla medesima via del leader laburista che nel Regno Unito ha spalancato le porte al neo thatcherismo del Terzo Millennio, mentre in Italia il rampollo fiorentino incarnava una personale versioncina del berlusconismo affarista e demolitore dello Stato pubblico, qualche dubbio sorge. A chi giovano questi aiuti? All’affarismo criminale che soggioga popolazioni, con la forza come accade a palestinesi ed egiziani, o con le lusinghe di finanziamenti, rilanci, innovazioni, quelli passati attraverso il sistema Trump-Blair. Per il futuro della Striscia l’ex leader laburista pare  incarnare il ruolo del liquidatore, come fu il connazionale Herbert Samuel, “commissario” sostenitore del sionismo che negli anni Venti del Novecento disgregava la Palestina a favore del futuro Israele.

venerdì 17 ottobre 2025

Armi made in Italy

 


L’Italia patriottica della produzione bellica non vuol essere da meno di quella politica, presenzialista nelle trattative internazionali. L’asse sovranista con Trump rivendicato con orgoglio da Giorgia Meloni che l’ha posta, unica esponente femminile fra i machi in cravatta o dishdasha di Sharm el-Sheikh, costituisce per il Belpaese un avamposto più economico che geopolitico. Ma tant’è. Anche perché gli affari d’ogni genere galoppano dalla Striscia di Gaza a qualunque altro conflitto che produce profitti sia se proseguirà, sia se s’interromperà. Armi, sistemi bellici  elettronici e cibernetici di sicurezza che sta per guerra e cemento servono e serviranno. Così nei bilanci dello scorso anno le nostre aziende leader, Fincantieri e Leonardo, aumentano fatturati e volano in Borsa (rispettivamente +135% e +83%) sebbene arricchiscano parecchio i vertici aziendali e molto meno le maestranze, siano esse figure professionali o esecutive. I dati 2024 di Leonardo riferiscono come il presidente Stefano Pontecorvo e l’amministratore delegato Roberto Cingolani (fu ministro dell’Ambiente e della Transizione Ecologica nel governo Draghi) hanno intascato rispettivamente 490.000 euro e 1 milione 897.000 euro a fronte d’un guadagno medio per i dipendenti di 55.000 euro. I dati vengono diffusi da un dossier di BdS Italia (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) curato dall’attivista Rossana De Simone. Le sessanta pagine sono un rincorrersi informativo a mezzo stampa ripreso da Agenzie internazionali e mediorientali, quotidiani (Le Figaro, Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale, Il Manifesto) che soprattutto nelle pagine economiche, volenti o nolenti, riportano le “imprese” delle nostre imprese di punta. I medesimi siti ufficiali di dette aziende riferiscono notizie su lanci di prodotti, contratti, joint venture, e poi i siti delle nostre Aeronautica militare, Camera dei Deputati, Senato oltre a quelli scandalizzati e critici del BdS e dell’Osservatorio dei diritti

 

E’ una meticolosa raccolta di dati e di informazioni assolutamente aggirati dai tiggì e pure da talune trasmissioni televisive d’approfondimento e inchiesta. Quello degli armamenti è un settore che l’attuale governo italiano punta a incrementare in base alla spinta della Nato che ha chiesto al comparto militare europeo un aumento delle spese del 5% del Pil per ciascun membro, cui è seguito il ReArmEurope del Consiglio Europeo pronto ad approvare, nel marzo scorso, un piano di 800 miliardi di euro. Un riarmo sostenuto per il nostro Paese dagli europarlamentari di Fratelli d’Italia, Forza Italia e dalla metà dei deputati del Partito Democratico. Non è una novità, la tendenza è nota da anni ma nessun Esecutivo recede. Anzi solitamente i governi d’ogni colore incentivano e vantano questo ‘made in Italy’ che ci fa produttori di bombe, mine e munizioni a Ghedi, in provincia di Brescia, e Domusnovas nell’Inglesiente sardo; radar, lanciatori, cannoni, antidroni nella Tiburtina valley della capitale. Del resto l’attuale maggioranza ha scelto come ministro della Difesa un lobbista delle armi: Guido Crosetto ex presidente della Federazione Aziende Italiane dell’Aerospazio (Aiad), ex advisor di Leonardo a oltre mezzo milione di euro di parcella,  ex presidente di Orizzonti Sistemi Navali per molto meno 82.000 euro, tutte strutture produttrici di armamenti. Competente? forse. Impelagato in conflitti d’interesse già da parlamentare di FdI di sicuro. Ma lui ha giurato d’aver tagliato i ponti col passato e minaccia di querelare chiunque insinui il dubbio sulla trasparenza del suo operato. Questo è l’uomo. Attuale presidente di Aiad è Giuseppe Cossiga, figlio del noto Capo dello Sato Francesco, esponente di spicco di Gladio di cui si dichiarava (sic) “piccolo amministratore”. Coincidenze sulla carriera del rampollo? più che altro eredità politiche. Comunque i ricavi di questo ‘made in Italy’ vanno a gonfie vele, il quadriennio industriale fino al 2029 di Leonardo prevede ordini per 118 miliardi di euro, con oltre 72% di mercato militar-governativo. Mentre l’azionariato è per metà d’investitori istituzionali in gran parte nord-americani. Vantano poi un 30% il nostro ministero dell’Economia e un 18.5% gli investimenti individuali. 

 

Quali i “gioielli” di tanta creatività ipertecnologica?  Caccia Eurofighter, prodotto di partenariato con Regno Unito, Germania e Spagna. Eurodroni, con Francia, Spagna e Germania. Fregate Freemm, quelle vendute al presidente al Sisi nel 2020, e poi elicotteri, software radio, sistemi missilistici da combattimento sempre in collaborazione multipla, la lista completa è pubblicata sul dossier. Quindi spiccano le nuove joint venture con chi è diventato un campione internazionale di certa merce, il gruppo turco Baykar, che vanta LBS Systems, cui l’azienda italiana fornisce la ‘sensoristica’ per la gioia di chi lavora a Ronchi dei Legionari (velivoli senza pilota), Torino (ingegneria e certificazione), ancora Tiburtina valley (tecnologie multidominio), Nerviano (soluzioni congiunte), Grottaglie (materiali compositi). Wow!! per l’Italia che tira il fatturato. Il bello è che il settore strizza l’occhio a giovani scienziati  per implementare lo sviluppo di simili articoli d’esportazione. Scrive De Simone: “Per attrarre giovani ricercatori, assicurarsi un flusso continuo di talenti, flessibilità e rinnovamento di capacità e competenze professionali, l’azienda (Leonardo, ndr) ha creato una rete d’incubatori di tecnologia, i laboratori chiamati Innovation Labs. I pilastri interessati sono: Intelligenza Artificiale, Digital Twin, Quantum Computing, Deep Digital Technologies”. Tutto supportato, ad esempio, da istituzioni pubbliche come l’Università Federico II, mallevatrice dell’Aerotech Campus di Pomigliano d’Arco. Brividi sul futuro? Abbastanza, e non è tutto. Pro Palestina e cittadini che osservano e denunciano il genocidio bellico sui gazawi perpetrato da Israele (l’altro atto genocidiario è incentrato su affamamento, malnutrizione, blocco sanitario) apprendono sgomenti i contributi offerti dal Fondo Europeo per la Difesa a Israeli Aerospace Industries per rendere più efficienti gli F-35 impiegati contro la popolazione civile della Striscia e in operazioni di guerra rivolte a Libano, Iran, Yemen. E pure al Qatar. La nostra Leonardo ha siglato diversi accordi con l’industria aera israeliana Elbit Systems che prevedono lancio siluri da un veicolo navale a pilotaggio remoto (Seagull) e da droni subacquei. E ancora triangolazioni che coinvolgono la tedesca Thyssenkrupp Marine Systems che fornisce a Tsahal corvette denominate Sa’ar 6 che montano il cannone navale italico Multi-Feeding. Mano italiana (sempre Leonardo) pure nel sensore radar mobile applicato al nuovo modulo del decantato Iron Dom, l’intercettatore di razzi e missili. Insomma una gran lista di tecnologia della guerra di cui tanti nostri tecnocrati e parlamentari vanno fieri.

mercoledì 15 ottobre 2025

I cantieri di Gaza

 


C’è ressa sul cosiddetto piano di ‘Pace per Gaza’ trasformato in ‘Affari su Gaza’. La premessa già a inizio anno, quando Trump faceva girare il filmato su sé stesso disteso al sole a drinkare con l’amico Netanyahu killer allora di quarantamila gazawi, era speculativa. Ne ammazziamo un altro po’, sfrattiamo i restanti e costruiamo resort che vanno bene a me (pensava il tycoon) e garantiscono a te e compari potere e sicurezza. Cin!! Da quell’istante a oggi le vittime sono raddoppiate, due-trecentomila abitanti son riparati nei campi profughi di confine, altri seguiranno e la ridefinizione finanziaria e geopolitica della Striscia avrà il suo corso. Intanto il sedicente Ufficio internazionale che segue gli sviluppi ha dettato a Sharm el-Sheikh il primo vademecum. E le petromonarchie hanno subìto un declassamento. Il Qatar di al-Thani, che per mesi aveva ospitato oltre ai vertici di Hamas anche fasi di trattative su ‘cessate il fuoco’ e ‘aiuti’ non ha conservato la sede per i nuovi incontri. Evidentemente lo sdegno qatarino per i raid aerei sul suo territorio hanno indisposto i bombardatori di Tel Aviv, perciò retrocessione a favore dell’Egitto di al-Sisi che passa alla testa dei mediatori. Il presidente-golpista gongola. Ha sempre cercato d’indirizzare gli obiettivi mediatici sul suo volto per distrarli dalle mani intrise di sangue. Chiunque, repubblicano e democratico d’Oltreoceano, lo stimi ne apprezza la funzione poliziesca per la normalizzazione autoritaria del Medio Oriente. Le stesse monarchie del petrolio che s’aprivano a Israele con gli ‘Accordi di Abramo’ l’avrebbero accolto nel clan ma con un profilo basso e defilato, non certo a favore di telecamere e per giunta in prima fila. Perciò a Sharm, due pesi da novanta del capitalismo arabo: il saudita bin Salman e l’emiratino bin Sayed, non si sono presentati. 

 

Un’assenza che fa da monito alla stessa coppia padrona della ‘pace presente’ e sottolinea come senza i dollari degli sceicchi la sistemazione di Gaza può vacillare. Non tanto nell’edificazione d’ogni genere che comunque vedrà anche capitali emiratini, qatarioti, sauditi - come confermano l’urbanistica di lusso e lo sport mondiali - quanto perché altri petrodollari dovranno provvedere al mantenimento di profughi palestinesi, adesso che per volere dello Studio Ovale le agenzie Onu vengono ridimensionate. Insomma il messaggio dei due Bin a Trump sottolinea il loro scontento sulla direzione degli incarichi geopolitici di vertice. Entrambi considerano il generale egiziano, nonostante la presidenza del più grande Paese arabo, uno spiantato da assistere. Lui non può né dev’essere l’uomo-immagine della nuova fase mediorientale. Potrà aggregarsi, venire accettato nell’ipotetico rilancio dell’Accordo di Abramo, però sempre in subordine a chi profonde i capitali per far marciare ogni cosa. Che altrimenti potrebbe marcire, tramite finanziamenti ad Hamas, alla Jihad palestinese e a chi volesse rilanciare l’instabilità regionale. Altro che disarmo islamista… Tutto ciò non sta in alcuna dichiarazione ufficiale e neppure ufficiosa, ma Trump non può trattare gli sceicchi come in Europa tratta Zelensky. Siamo in un altro scenario. Del resto se il primo cittadino d’Egitto risulterà utile come controllore di valichi d’un territorio da ristrutturare (Rafah soprattutto ma sempre col benestare dell’Idf), i suoi mallevadori Trump e Netanyahu ne apprezzano la fedele subordinazione. Necessitano d’un presuntuoso servitore e Sisi è perfetto per il ruolo. Fra i leader regionali di spicco con desiderio di comando sulle trattative, c’è il turco Erdoğan, finora incredibilmente discreto. La sua diplomazia è di facciata, Trump e Netanyahu che lo detestano lo sanno. Ma il primo deve cibarselo in qualità di maggior alleato Nato, il secondo quale ingombrante ostacolo alle mire del Grande Israele su Cisgiordania e pezzi di Siria e Libano. Il nuovo cantiere mediorientale continuerà a lungo a decretare: lavori in corso.