sabato 7 dicembre 2024

Asad, un disastro durato a lungo

 


Solo questo può condivide da oggi Bashar Asad col suo popolo: la fuga. La differenza è che il suo allontanamento dalla Siria è comunque sicuro e dorato, si dice sia riparato a Mosca e il resto del clan negli Emirati Arabi Uniti; quello dalle città e dalle aree rurali iniziato dal 2012 da sette milioni di concittadini era concitato e disperato. Se è andato a buon fine staziona tuttora fra mille contraddizioni nei campi profughi, in caso contrario è finito in fondo al mare. E’ questa la maledizione che si trascina l’oftalmolo che non s’occupava di politica, ma che la prematura morte del fratello Basil e le bramosie del clan familiare condussero nel 2000 alla presidenza d’una Repubblica nata filo socialista e finita, già nelle mani del padre Hafiz, in satrapìa. Eppure la sciagura maggiore l’uomo di Damasco l’aveva costruita mese dopo mese a partire dal 2011, in occasione delle ribellioni interne in sintonìa con quelle di Maghreb e Mashreq. Le fiammate delle cosiddette ‘primavere arabe’ avrebbero potuto sradicare Asad dal “regno”, com’era accaduto ai raìs Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, ciascuno con le proprie storie ma col comune denominatore di schiacciare la popolazione e in alcuni casi affamarla. Bashar rimase in piedi grazie al radicamento presso la comunità alawita istaurato dalla sua stirpe, ai ruoli di potere militare ed economico occupati da parenti stretti, figli e nipoti del capostipite Hafiz, ai legami acquisiti come i Maẖlūf, ai posti chiave nell’esercito e negli apparati di sicurezza che ridussero le proteste di strada in mucchi di cadaveri e feriti. Rossa di sangue la Siria divenne già durante l’estate 2011, di lì a poco fu cinabro e ramato carne da mattatoio perché forze interne ed esterne, minute e potenti, usarono quei luoghi come terreno di coltura del sogno d’un moderno Califfato: lo Stato Islamico del Levante. Soggetti sanguinari intenzionati a disarcionare uno Stato laico e autoritario sostituendolo con l’autorità d’un fanatismo confessionale. Sembrava uno scontro di presunte civiltà, non era altro che una partita di potere, con la popolazione spettatrice e solo in parte partecipe. La domanda di collaborazione consisteva nel combattere in uno dei due fronti, e gli alawiti protetti e inseriti nell’élite statale si stringevano attorno al presidente, tanti sunniti esclusi e vessati aderivano ai gruppi che lo combattevano. Ma chi battagliava spesso rispondeva ad altre logiche: quelle ideali di adesione al jihadismo incondizionato o mercenario, come i cosiddetti foreign fighters, quello esplicitamente avventuriero come le milizie dette Wagner messe a disposizione di Damasco.

 

La dicotomìa ribellione-legittimismo svelava presto altri piani: il citato di ‘riconquista’ del Levante da parte dell’Isis di al-Baghdadi, che mancava d’un plauso esplicito ma riceveva finanziamenti turchi, sauditi, qatarioti tutti nominalmente in buoni rapporti con l’Occidente; il puntellamento d’un regime in crisi da parte russa e iraniana per reciproci interessi geopolitici. La strategia navale russa nel Mediterraneo tramite le basi di Latakia e Tartus, il passaggio di armi dell’asse sciita irano-libanese fra Pasdaran ed Hezbollah in funzione anti sionista. Per ben dodici anni Asad è rimasto blindato nei suoi palazzi, ha goduto di protezione, armamenti, supporti logistici, finanziamenti di Mosca e Teheran, senza tale supporto il suo governo sarebbe imploso, invece pur moribondo ha resistito. Ha resistito anche al piano diabolico di Erdoğan, ingoiando giocoforza l’inserimento turco nelle aree del sedicente Rojava dove le milizie kurde che avevano combattuto l’Isis stabilivano un proprio controllo, perché anch’egli come l’omologo turco odiava quella comunità. Dal 2019 tutto è rimasto congelato. Poi gli eventi incalzano: pandemia, guerra ucraina, 7 ottobre e russi, Partito di Dio, Guardiani della Rivoluzione necessitano di militari in posti diversi dal territorio siriano dove, pur sconfitto altrove, il jihadismo conserva alcune enclavi (Idlib). Le conserva e ne cura i bisogni quotidiani, il pane non lo distribuiscono solo le opere francescane di Aleppo, le fogne e le strade le ripara  anche chi imbraccia un kalashnikov. Così un soggetto conosciuto e rimasto silente, ma non inattivo come Muhammad al-Jolani, valuta che si può inseguire il miraggio di disarcionare colui che negli anni passati s’era fatto tanto odiare. Perché nella guerra civile trasformata in macelleria di popolo, ci aveva messo del suo, coi familiari che non avevano smesso di torturare i prigionieri politici, gli alleati (russi) accusati di sganciare fosforo bianco su Aleppo, come facevano gli statunitensi a Mosul… La dannazione di Bashar sta nel non essersi messo nei panni di gente martoriata, d’esser rimasto insensibile allo strazio dei suoi al quale contribuiva. Un tormento tenuto in vita da alleati burattinai che hanno proseguito a dargli ossigeno per interessi propri. Mentre l’Europa e l’Occidente tutto, ora allarmati per il ritorno fondamentadista, semplicemente non volevano vedere quel che continuava a esistere. Il guaio per la Siria, la laicità nazionale è che lo strappo con la Storia lo stia facendo il fronte jihadista che ovviamente chiederà il conto.

mercoledì 4 dicembre 2024

Un jihadismo dal volto pragmatico

 


Chi per studio, ricerca, curiosità, addirittura spionaggio ha tenuto aperti i canali d’osservazione su quel tratto di Siria che non è più tale dalla rivolta del 2011, colloca la riconquista di Aleppo da parte di jihadisti stabilmente dimorati non lontano, dentro un processo evolutivo delle linee interne a quel mondo. Che è stato qaedista secondo i dettami del fondatore bin Laden e del successore Zawahiri, freddato come il suo socio da un agguato mirato statunitense, ma era diventato cosa a sé distinguendosi dal marchio maggiore del terrore islamista: lo Stato Islamico del Levante. Sigla rilanciata, dopo la caduta nella terra dell’Eufrate del 2016, nelle periferie afghana e pakistana seppure osteggiata dai taliban al potere a Kabul e da quelli sempre attivi a Quetta. Ma in questi giorni d’assalto da nord a sud nella landa occidentale siriana la novità chiamata Hayat Tahrir al-Sham, nuova non è per chi ne segue l’attività dalla nascita per scissione dal Fronte al-Nusra e dalla magnetizzazione di gruppi minori (Ansar al Din, Nour al Din, Jaysh al Sunna) tutto a opera del leader Muhammad al-Jolani che dal nome si richiama alle alture golaniche, ferita aperta come la stessa Al Quds dall’occupazione israeliana di quasi un sessantennio addietro. Come Osama bin anche al-Jolani è un saudita di Riyad, ovviamente più giovane d’un venticinquennio. La trascorsa vicinanza ideologica s’era cementata sul fronte iracheno (nel 2003 ruggiva l’invasione statunitense) tramite un'altra figura del vertice qaedista al-Zarqwani, durò fino al momento della sua dipartita per bombe americane sul proprio rifugio. Jolani tornò a Damasco, dov’era vissuto con la famiglia fin da bambino, infilandosi a capo fitto fra i rivoltosi del 2011, orientando la ribellione ad Asad verso una guerra civile armata. In quella veste aveva avuto un ruolo non secondario, ponendo la galassia al-Nusra fuori dalle pretese egemoniche del neonato Daesh di al-Baghdadi. E’ del successivo rilancio delle operazioni anti regime nel 2015 il distinguo che Jolani e al-Nusra compiono verso l’Isis, considerato fanatico (sic) e sviante dal loro intento di colpire prevalentemente Asad e i suoi alleati, fra cui spicca Hezbollah

 

E’ in questo differenziarsi dai tristemente noti tagliateste dello Stato Islamico che il salafismo dei miliziani raggruppati in Hayat Tahrir al-Sham appare estremo ma parzialemente estremista, almeno nei proclami. Di fatto il leader elabora un processo di radicamento su un territorio difeso coi denti dalle controffensive dei lealisti di Damasco, resistendo per terra a Hezbollah e pure ai Pasdaran e sotto il cielo dei martellanti sorvoli dei Tupolev. Tanta distruzione nei dintorni della roccaforte di Idlib ma anche tanto impegno per la gente e con la gente del luogo. Una pragmatica amministrazione del distretto, la fornitura d’acqua e viveri durante l’assedio, il riassetto, per quanto di può, di strade squassate dalle bombe, e comunque la scuola, l’istruzione primaria per i bambini e certamente l’insegnamento secondo i dettami dell’Islam, ma senza avvitarsi nel lavaggio dei cervelli di certe madrase fondamentaliste. Di recente sono stati ricordati alcuni pronunciamenti pubblici di al-Jolani: “La nostra battaglia è a tutti i livelli. Non è solo una battaglia militare, perché la costruzione è più difficile della guerra”. "La libertà viene dalla forza militare, ma la dignità deriva da progetti economici e d’investimento con cui le persone e i cittadini vivono una vita dignitosa che si addice ai musulmani". Del resto dopo il terribile sisma del febbraio 2023 l’attenzione era rivolta ad aiutare i superstiti più che a battagliare, sebbene questo lo facesse anche il fronte avverso. Ora la gestione del quotidiano, davanti a tanti bisogni e mille paure delle minoranze che non pregano Allah e di gente tuttora in fuga, vede gli sguardi smarriti di chi resta semplicemente perché non sa dove dirigersi. I miliziani di HTS puntano a tranquillizzare anziché terrorizzare, non basterà per scrollarsi di dosso un marchio fondamentalista, ma da tempo c’è chi gli crede e vuole uno Stato non multi feudi protetti da padrini esterni. Tale è rimasta la Siria, contenitore di almeno quattro realtà diverse e contrapposte e fuori, a contendersi le spoglie e muovere pedine, un numero ancor più grande di burattinai.

lunedì 2 dicembre 2024

Siria, il rischio della macelleria

 


Riprendono gli assalti, gli attacchi, le vittime, per ora contenute, le ritirate e le diserzioni, i proclami di vendetta. Riprendono soprattutto le fughe della gente comune ch’era rientrata, magari da poco perché appena oltre confine, quello libanese, incendi, crolli, demolizioni, sepolture da missili sono l’incubo che troppi siriani ben conoscono. Eppure in questi giorni sono costretti a rindossare le lacere e ansiose vesti del profugo, rientrando in quella categoria mediorientale dei senza casa né Paese che questa condanna se la trova marchiata sulla pelle da decenni. Quello fra il 2010 e 2020 era stato per Siria il peggiore, usciti dalla bolla d’un regime che resisteva alla contestazione oppure restati lì dentro.  Ma non più protetti da nulla, perché i garanti d’un alleato strategico come Asad e i suoi nemici sono immersi in un conflitto dai troppi fronti, dai rissosi e sanguinari protagonisti, dai cinici burattinai a tal punto che davanti allo sguardo dello stesso osservatore che comunque nulla rischia, tutto si confonde. I contorni controversi si mescolano mentre lo scontro perde il senno, intreccia megalomanìe personali, intenti geostrategici, ragioni di Stato e d’impero conservando sullo sfondo il frutto perverso della “macelleria siriana” che ha prodotto 500.000 cadaveri e quattordici milioni di esuli dispersi nel mondo. La gran parte non è finita lontano, quattro milioni oltre la frontiera turca, due milioni al di là di quella libanese, ma alcune barriere infrante da successivi squassi bellici possono ridisegnare la regione. Putin ed Erdoğan ci avevano scommesso, prima foraggiando interposte milizie (la Wagner i russi, l’Esercito Siriano Libero e costellazioni jihadiste i turchi) finendo poi per accordandosi fra loro e con un Asad congelato se lasciava spazzare un buon tratto di milizie kurde del cosiddetto Rojava dai carri armati di Ankara. Senza ripercorrere tutto il conosciuto - la caduta del Daesh, il rilancio dello Stato di Damasco che vive sotto la tutela di Mosca e Teheran - i riesumatori di certi gruppi jihadisti (Hayat Tahrir Sham non s’era mai mosso da Idlib e dintorni nonostante la “riconquista”) innescano l’ennesimo Risiko bellico aprendo nuove scatole cinesi sulla pelle del popolo siriano. 

 

Non è solo la Turchia erdoğaniana, che pure ha da tempo un confronto egemonico regionale con la Persia degli ayatollah amica di Asad e di Hezbollah libanese, a nutrire l’odierna avanzata delle milizie salafite su Aleppo e ancor più giù su Hama, Homs, fino al sogno di Damasco. Nella “macelleria siriana” l’antico fronte jihadista aveva egualmente in Riyad e negli emiri qatarioti procacciatori di petrodollari trasformati in petroarmamenti. E gli autoproclamati persecutori del terrorismo planetario residenti alla Casa Bianca, prima di guerreggiare con mujaheddin afghani e qaedisti sauditi li avevano finanziati. Ora affinché le vittime, tre-quattrocento, del battagliero HTS non debordino bisognerebbe ristabilire quell’argine combattentistico sostenuto nei periodi trascorsi da Pasdaran, Hezbollah, Unità di Protezione kurde le prime due ritirate nei luoghi d’assalto d’Israele, le altre smobilitate e limitate dagli accordi della diplomazia internazionale. Visto che i legittimisti, alawiti o meno, nelle fila dei bashariani si sono liquefatti davanti all’arrembaggio dei miliziani di al-Jolani, già dato per morto sotto le bombe russe, ma senza riscontro alcuno. Così in questi frangenti si vive nella vaghezza degli eventi che possono diventare tragici, sebbene le agenzie battono notizie che loro, i jihadisti, promettono di non toccare civili, né religiosi (ai francescani di Pro Terra Santa in Aleppo, intenti a panificare per la popolazione, è stato distrutto il tetto, ma dagli anti jihadisti russi). I nuclei salafiti però bruciano immagini di Asad e pure di Öcalan, tanto per ribadire chi non possono sopportare. Il presidente siriano potrebbe finire il suo regno se quella che per ora è schermaglia fra gli omologhi russo e turco giungesse a un accordo sul futuro. Tenendo il governo siriano sotto protezione e inserendo l’ultimo rampollo del clan, il capo delle inquietanti Forze Speciali sempre in prima fila nelle repressioni interne, il cinquantaseinne Maher Asad. Si dice si adatti più all’azione che alla politica, ma il fratello oftalmologo, che non primeggiava in nessuno dei due ruoli, è in sella da quasi un quarto di secolo.

venerdì 29 novembre 2024

La parola malata e la malattia d’un Paese

 


La Senatrice Liliana Segre interviene sul Corriere della Sera allarmandosi e allarmandoci per l’uso e l’abuso di una “parola malata” – genocidio – con cui ormai milioni di persone nel mondo (cittadini, attivisti, politici, comunicatori, intellettuali) definiscono la sistematica azione dell’attuale governo di Israele d’impedire l’esistenza alla popolazione di Gaza. Secondo l’anziana Senatrice, testimone del genocidio nel Terzo Reich germanico verso il popolo ebraico, la sua famiglia e se stessa, in quest’ultimo caso per fortuna non perpetrato, i palestinesi della Striscia non stanno subendo quel terribile trattamento. La loro situazione non rientra nella casistica che la Storia, peraltro recente, offre sulla questione. Segre ne elenca alcuni: il Medz yeghern armeno, l’Holodomor ucraino, la Shoah ebraica, il Porrajmos rom, e poi la strage cambogiana e lo sterminio tutsi che non hanno dalla loro il conio d’un termine autoctono di genocidio. In realtà neppure per i palestinesi questa matrice c’è stata, ma sono ben visibili la morte e la pianificazione della propria estinzione per bombardamento, fame, malattie, impossibilità di cura, negazione d’un luogo dove vivere, tutti imposti da Israele. Eppure alla senatrice non basta. Ovvero anche lei ammette che ci sono strage e crimine, ma quel termine non si deve usare, non si può applicare ai palestinesi, probabilmente non ne hanno diritto perché nel concetto accademico di cosa sia un genocidio ai  palestinesi non si adattano i presupposti di: pianificazione dell’eliminazione e rapporto funzionale con la guerra. Questioni di lana caprina e di punti di vista, gentile Senatrice. Le domandiamo se, per il buon cuore della sua posizione, le vittime gazesi dei tredici mesi di sterminio da parte di Israel Defence Forces, 50% bambini e 30% donne, abbiano un rapporto funzionale con una guerra, peraltro presunta visto che costoro non combattono, la Striscia di Gaza non è uno Stato, lo stesso Hamas non è un esercito. 

 

Anziché aprire gli occhi sull’orientamento guerrafondaio, coloniale, razzista dello Stato di Israele nella sua schiacciante maggioranza, non solo sull’attuale governo ancorato al potere e blindato da un’adesione popolare massiccia; più che constatare che l’altro Israele non solo non riesce a rovesciare chi comanda, ma gli è solidale davanti alle stesse limitazioni della follìa omicida poste dalla Corte Penale dell’Aja con la richiesta d’arresto per Netanyahu e Gallant, la Senatrice Segre rilancia il tema della persecuzione antisemita. Lo fa in maniera anomala, potremmo dire scorretta, mescolando il vecchio fronte mai morto del nazifascismo, del negazionismo, del relativismo con cui può avere rapporti più d’un partito del cosiddetto fronte democratico italiano, europeo, mondiale non certo chi sostiene i palestinesi con un attivismo militante, aiuti umanitari, impegno diretto nei luoghi di sterminio o genocidio costretto ad amputare arti senza anestesia su corpi straziati “dall’unica democrazia mediorientale”. Pur appartenendo a un popolo e a una comunità servirebbero realismo e pudore, che non leggiamo nelle righe apparse sul Corsera. Una storica ebraica italiana ha di recente posto tale riflessione parlando del suicidio di Israele. Da tempo la comunità ebraica italiana ha imboccato la strada che l’allontana da quell’antifascismo e antitotalitarismo richiamato da Segre nel suo intervento. Chi segue la questione palestinese sa che la demonizzazione Israele prima di riceverla la impone quando considera terrorista non solo il militante di Hamas, Jihad, Fatah ma la gente che nei territori occupati e bombardati  è costretta a sopravvivere prima che qualcuno da Tel Aviv decida del suo presente e gli impedisca un futuro. Gentile Senatrice Segre è dunque malata la parola o lo sono i fatti?

mercoledì 27 novembre 2024

L’Egitto amarissimo di Laila e Alaa

 


Laila Soueif ha sessantotto anni. Né tanti né pochi, ma ne dimostra decisamente di più. Il volto è segnato da una vita di lotta iniziata giovanissima, quando aveva sedici anni, e manifestava a piazza a Tahrir contro il regime di Sadat da poco salito al potere. Una protesta che per lei non durò a lungo, visto che i genitori, entrambi docenti universitari, la rintracciarono riconducendola in casa prima che le potesse capitare qualcosa di spiacevole. Laila aveva una passione per la matematica e dai banchi di scuola e poi dell’università l’ha trasferita nella vita lavorativa, entrando anche lei nell’ateneo del Cairo in qualità d’insegnante. Lì aveva conosciuto il futuro marito, Ahmed Seif El-Islam, un attivista comunista anch’egli docente e avvocato. Insieme hanno avuto tre figli Alaa, Sanaa e Mona. Tutti attivisti come i genitori. Il volto di Laila è segnato non tanto dal passare del tempo, ma dalle sofferenze. Dalle vicende familiari frutto dell’impegno per libertà e giustizia. I guai del primogenito Alaa sono arrivati, come per migliaia di giovani protestatari, con le primavere arabe che hanno scosso il Medio Oriente dal dicembre 2010. Nel gennaio 2011 la generazione successiva a Laila era tornata in piazza Tahrir contestando Hosni Mubarak che di lì a qualche settimana abbandonerà un potere durato molto più a lungo di quello del predecessore Anwar Sadat. Tutti presidenti, tutti militari, come l’attuale persecutore di Alaa e Laila: Abdel Fattah al Sisi. Il generalissimo. Il militare egiziano, che fece fuori il presidente laico Mohammad Morsi, si predispone a durare - ad Allah piacendo - più dei sovrani di quel regno militare che ancora s’ostina a definirsi Repubblica d’Egitto. Si cita Sisi e qualsiasi italiano normale pensa a Giulio Regeni, al suo strazio, al suo martirio. Gli italiani di governo invece fanno spallucce. Dicono che non sapevano del suo sequestro, lo fa sotto giuramento l’ex primo Ministro Renzi al processo in corso a Roma contro gli aguzzini del ricercatore friulano, che poi sono fidati servitori del regime di Sisi. Oppure sostengono, come la premier Meloni, che l’Egitto è un Paese sicuro e ci rispediscono chi ne fugge atterrito o affamato. 

 

Basterebbe chiederlo alla professoressa Laila, a suo figlio Alaa cos’è diventato l’Egitto nell’ultimo decennio. E se migliaia di attivisti locali non possono qualificarlo in nessun modo perché sono stati tacitati per sempre (come? alla maniera di Giulio Regeni o anche peggio perché gli scomparsi sono un’infinità) altre sessantamila egiziani e forse più rinchiusi nelle patrie galere certificano a familiari e avvocati, se e quando riescono a ricever visite, i segni di quella normalità: bruciature elettriche e di fiamma ossidrica, lividi e cicatrici sulla pelle e lì dove non vedono ma s’intuiscono, nel profondo dell’anima. Per un crudele e cruento gioco burocratico Alaa viene trattenuto due anni in più. Era stato arrestato nel 2019 con l’accusa di diffondere sui social “false notizie”, e aveva scontato la pena, però a pochi giorni dall’auspicabile liberazione la Corte del Cairo ha comunicato che i due anni trascorsi in prigione in attesa del processo non erano validi e ha riaggiornato la pena, con l’aggiunta di alcuni mesi. Per Alaa la data si sposta a metà del 2027. Da quel momento mamma Laila ha avviato uno sciopero della fame per domandare alle stesse autorità britanniche, che per lei e i figli sono un riferimento visto che hanno anche questa nazionalità, d’intervenire a sostegno di un abuso subìto da un cittadino del Regno Unito. Finora Laila ha ricevuto qualche promessa da Londra, nessuna dal Cairo, eppure le parole non si traducono in nulla. Oggi la docente, l’attivista per i diritti, la madre è al sessantesimo giorno di sciopero della fame. Beve acqua, assume minerali e sali, con un minimo di calorie, un’azione che per la sua età diventa rischiosa. Lei caparbiamente la prosegue ma in una recente intervista a Sky News ha dichiarato: “Personalmente ne ho abbastanza, non posso affrontare condizioni simili e anche Alaa è senza speranze. Il ministro degli Esteri (britannico, ndr) Lammy sostiene che il caso è una priorità governativa da discutere con l’omologo egiziano, non sembra che Il Cairo mostri attenzione né intavoli dialoghi. Spero di ricevere non più assicurazioni sulla vicenda, bensì iniziative concrete. Non voglio collassare o morire”.

martedì 26 novembre 2024

Pakistan infuocato dal Belucistan a Islamabad

 


Non si placa l’ira dei sostenitori dell’ex premier pakistano Imran Khan, recluso da un anno e mezzo e incriminato nientemeno che di centocinquanta reati. Il suo partito, Tehreek-e-Insaf (Pti), aveva organizzato domenica l’ennesima marcia di protesta per chiederne la liberazione, s’è trovato a bloccargli l’accesso al centro della capitale polizia statale e privata e pure l’esercito. Finora si contano quattro vittime fra queste forze, ma può innescarsi un clima decisamente peggiore. Già nei mesi passati cortei e scontri avevano messo a ferro e fuoco i quartieri centrali di Islamabad, provocando vittime fra manifestanti e polizia. Stavolta il ministro dell’Interno Mohsin Naqvi ha deciso di bloccare i manifestanti lungo le autostrade d’accesso alla città, predisponendo da lunedì l’arresto di migliaia di cittadini. La tivù locale ne dichiara quattromila. Naqvi e l’attuale capo dell’esecutivo Shehbaz Sharif sono visti come fumo negli occhi dai sostenitori del Pti. Quest’ultimo è definito “un usurpatore” dai militanti ridiscesi in piazza come quando avevano denunciato brogli nelle elezioni vinte di misura dalla Lega Musulmana N di cui Shehbaz è esponente, assieme al chiacchierato e pluricondannato fratello Nawaz. Le migliaia di candelotti lacrimogeni usati ieri, che hanno intossicato anche numerosi agenti, continueranno a stabilire la cortina posta a protezione del Parlamento e dell’Alta Corte di Giustizia, istituzioni contestate cui miravano le altrettanto numerose unità di cittadini propense a passare dalla protesta alla rivolta. Sebbene nel Pti ci siano due tendenze: una prima intransigente sostenuta dalla moglie di Khan che richiede la scarcerazione del consorte e di altri membri del partito e la riammissione nel mandato interrotto nell’aprile 2023. Una seconda, d’un altro pezzo della leadership, è propensa ad accettare il tavolo di trattative promosso in queste ore da Naqvi. 

 

Dunque contestazione spaccata? E’ presto per dirlo. La mobilitazione sta proseguendo con una tensione altissima, anche perché da stamane il fronte di protesta accusa le forze dell’ordine dell’uccisione di due attivisti e del ferimento di parecchi altri, notizie non diffuse dai media ufficiali a favore delle sole morti degli agenti. Chi era in strada ha riversato in rete filmati che, accanto al presunto “alleggerimento coi lacrimogeni”, accusano polizia e corpo paramilitare dei Ranger dell’uso di armi da fuoco con cui sono stati colpiti bersagli umani mobili e fissi. Per Shehbaz: ”La protesta non era pacifica, c’è un gruppo anarchico (sic) che cerca spargimenti di sangue”; secondo Bhutto-Zardari, presidente del Partito Popolare Pakistano:gli incidenti di queste ore sono terrorismo puro perché Ranger e personale di polizia che hanno abbracciato il martirio erano figli coraggiosi della nazione”. Insomma questi leader puntano a ribadire la spaccatura nazionale senza neppure tentare l’opzione del dialogo lanciata dal ministro dell’Interno. Acuire la tensione non rappresenta un passo favorevole all’attuale governo che solo una settimana fa ha lanciato guerra aperta ai gruppi fondamentalisti che fomentano attentati nella regione del Belucistan, sostenendo il reiterato desiderio di autonomia, e in alcuni casi separazione, di cellule locali come l’Esercito di Liberazione Beluco. A meno che la lunga mano dei vertici delle Forze Armate, sempre presenti e interferenti nella politica pakistana, non stia spingendo per l’attuazione di uno scontro a più livelli che giustifichi una militarizzazione della scena con ampliamento della repressione anche sugli interventi critici di partiti, associazioni e cittadini. Questa è la tesi dei Tehreek-e-Insaf (Pti) che già in occasione della sfiducia e della caduta di Khan parlarono di un’operazione pilotata dalla lobby militare, con cui comunque in precedenza proprio Khan aveva avuto buoni rapporti, e dell’amministrazione statunitense.

giovedì 21 novembre 2024

Netanyahu criminale impunibile

 


Incriminare Netanyahu? Da oggi si può. Lo fa la Corte Penale dell’Aja che emette un mandato d’arresto internazionale per lui e uno per l’ex ministro della Difesa Gallant, entrambi accusati d’aver commesso crimini contro l’umanità. Non solo per i 44.000 gazesi finora uccisi a seguito dell’intervento militare per cielo e per terra sulla Striscia di Gaza, ma per aver creato volontariamente una distruzione di parte della locale popolazione palestinese “privata di cibo, acqua, elettricità, carburante, forniture mediche” siano essi adulti e bambini. La Corte ricorda altresì che “i medici sono costretti a operare sui feriti ed eseguire amputazioni, anche sui minori, senza anestetici” bloccati scientemente, come ogni rifornimento, fuori dai confini del territorio assediato. Un terzo mandato emesso dalla Corte riguarda Mohammed Deif, comandante militare di Hamas, accusato di “omicidio, sterminio, tortura, stupro, cattura di ostaggi” per la pianificazione dell’operazione lanciata dal suo gruppo il 7 ottobre 2023. Che provocò l’uccisione di circa 1.200 cittadini israeliani e stranieri partecipanti a un raduno-concerto oppure dislocati nei kibbutz presi d’assalto e di militari presenti nei luoghi, più il sequestro e la prigionia di 250 individui. Mandati di cattura anche per altri due leader di Hamas, Sinwar e Heniyeh, ma tutti e tre nei mesi scorsi sono stati uccisi da Israel Defence Forces.

Cosa comporta il mandato d’arresto? Una conseguente applicazione da parte dei Paesi che riconoscono la Corte stessa che sono 124 nel mondo, fra essi tutti gli Stati europei. Non fanno parte e non riconoscono la Corte oltre a Israele e Stati Uniti, anche Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, Siria, Iraq, Turchia, Arabia Saudita. Quindi il primo Ministro di Tel Aviv da oggi conoscerebbe una limitazione negli spostamenti verso nazioni dove potrebbe essere fermato e tratto in arresto in ottemperanza alle volontà della Corte.

Potrà accadere? Teoricamente sì, posto che il ricercato difficilmente rischierebbe un viaggio lì dove potrebbe trovare polizie pronte ad applicare il mandato. Tranne che lui in persona e Israele in toto fossero disposti a forzare politicamente la mano come stanno facendo con le operazioni belliche, già giudicate nel maggio scorso dal procuratore capo della Cpi Karim Khan crimini di guerra, ma non per questo fermate. Da nessuno. Di fatto non accadrà nulla. Anche perché la nuova amministrazione statunitense con Donald Trump, blinda le nefandezze del premier israeliano con un’adesione assoluta alla sua linea politica e a quel che rappresenta la sua persona. Peraltro Netanyahu in queste ore sta ricevendo dal cosiddetto “altro Israele” consenso e solidarietà col rilancio della solita accusa di “antisemitismo” indirizzata al provvedimento e alla Corte dell’Aja.