Gli ultimi sviluppi dell’intricata situazione geopolitica nello Yemen vedono gli esecutori locali sparigliare il campo. Si tratta degli attori dietro cui muovono i fili potenze regionali registe d’un conflitto per procura. Da un decennio il Paese è diviso fra un nord-ovest controllato dai miliziani Houti e un sud-est sotto la giurisdizione dei loro avversari. Che sono gli epigoni civili e militari dei presidenti Saleh e Hadi, oggi guidati da Rashid al Alimi, che sfoggiano un esercito e nuclei mercenari, e i secessionisti del ‘Consiglio di transizione meridionale’ conosciuti con l’acronimo STC. Una mossa recentissima l’hanno compiuta quest’ultimi occupando la provincia dorata di Hadhramaut da cui il Paese ricava l’80% delle risorse energetiche di petrolio e gas. Dallo scoppio della guerra civile tali risorse non sono appannaggio di un’unica componente politica; nel controllo, spartizione e vendita incide il ruolo di elementi locali, a metà fra capi tribali e boss di gang interessate esclusivamente ad affari. Uno dei più noti è tal bin Habrish, leader dell’Hadharamaut Tribal Alliance. Così l’attuale colpo di mano del ‘Consiglio di transizione meridionale’, sorto nel 2017 con finanziamenti degli Emirati Arabi Uniti che vanta all’interno pure membri vicini a Ryadh, ha rotto un patto che dal 2019 lo legava all’altra fazione sostenuta dall’Arabia Saudita, e intenzionata a schiacciare i rivoltosi Houti sul versante geo regionale vicini allo Stato iraniano. E’ utile sapere che i quarantuno milioni di attuali yemeniti vivono per due terzi nell’area occidentale del Paese, che per orientamento religioso lo Yemen è al 99,9% islamico, con un 53% di cittadini sunniti, sciafeiti e hanabaliti, e un 47% di sciiti-zayditi. L’azione militare dei giorni scorsi con cui le strutture d’élite del ‘Consiglio di transizione’ hanno preso il controllo di alcuni impianti petroliferi strategici dell’area, il più noto si chiama PetroMasila, viene da loro considerata come una mossa strategica “per liberare tutto il suolo patrio” sicuramente contro gli Houti e probabilmente contro alleati sgraditi. Eppure da quando (2017) l’aviazione saudita ha diminuito e poi cessato un impegno diretto sul territorio yemenita le sue manovre belliche contro gli Houti sono svolte da truppe prese in affitto e profumatamente retribuite. Non solo mercenari, anche amici armati del momento. Una condotta simile la attua lo stesso emiro bin Zayed, il quale sui temi di sicurezza e commercio nonostante sia legato alla politica regionale del collega bin Salman, cerca personali sprazzi di protagonismo. Così in quell’orizzonte frastagliato ciascuna petromonarchia utilizza truppe a pagamento e sostiene agglomerati locali quali il ‘Consiglio di Transizione’ che a sua volta sogna di gestire in proprio quella che definisce l’Arabia meridionale. Ma per vari aspetti gli intenti differiscono: STC punta a un’autonomìa locale garantita dalle citate risorse energetiche, sauditi ed emiratini vogliono controllare un Paese unico e unito, che rispetto alle loro collocazioni geografiche ne vanta una formidabile davanti alle rotte mediterranee e del lontano Oriente. Eppure anche su questo terreno gli interessi dei due ‘alleati forzati’ mostrano attriti: sempre per recenti iniziative del vulcanico bin Zayed gli Emirati ora sfoggiano una base mercantile nell’isola di Mayunn, avamposto nei collegamenti marittimi fra Aden e il mar Rosso. E grazie ai legami con STC sono state costruite basi militari a Mocha e nelle isole Adb al-Kuri e Samhah, una rete grazie alla quale Abu Dhabi estende una propria fruttuosa dislocazione di sicurezza. Per lo scorso più di bin Saman che di Malik al-Houti.











