giovedì 30 agosto 2018

Di Maio da Al Sisi “Uno di loro”


E’ più vicina alla pantomima d’un marcato doroteismo che a qualsivoglia istinto geopolitico la visita compiuta ieri dal vicepremier Luigi Di Maio al presidente egiziano Abdel Al Sisi. Senza un motivo esplicito, se non quello che taluni commentatori hanno individuato in una smania di concorrenza mediatica con l’altro vice premier nostrano o peggio con lo smarcarsi, parlando d’altro, da cogenti problematiche interne sul lavoro, il responsabile del dicastero che s’occupa anche di sviluppo economico ha trovato in questo tema il salvacondotto per colloquiare col generale-dittatore direttamente al Cairo. Infatti gli investimenti italiani in terra egiziana sono stati uno degli argomenti dell’incontro. Gli interessi dell’Eni nel mega affare del giacimento di gas Zohr, scoperto da tempo nelle acque territoriali egiziane del Mediterraneo, erano nel cuore dei governi Renzi e Gentiloni, restano tali anche per l'esecutivo Conte. Di Maio non l’ha negato, commentando con la stampa il succo della chiacchierata cairota che ha lusingato il presidente-generale.

Il vicepremier italiano, sentendosi egli stesso compiaciuto dell’incontro ravvicinato, sottolineava come buona parte dei discorsi hanno riguardato la vicenda Regeni, i suoi ‘misteri’ la sua incompiutezza. Ha poi riferito l’affermazione di Al Sisi secondo cui Regeni è “uno di noi”. Definizione non sappiamo se più criptica, perversa o – ahinoi – beffarda. Le intenzioni della casta militare di cui Al Sisi è immagine ed espressione sul caso Regeni è noto: difendere i responsabili di quello scempio, dai vertici alla base, perché tutti rispondono ai comandi repressivi che il regime impartisce da cinque anni. Dalla presa del potere suggellata col  terribile massacro della moschea Rabaa. Da quel migliaio o più di cadaveri il governo del Cairo ha inanellato altre uccisioni, sparizioni, arresti rivolti contro chi manifesta, contesta, s’oppone o semplicemente informa l’opinione pubblica e, come nel caso del ricercatore friulano, cerca di comprendere cosa accadeva in quel Paese che sognava la thawra ed è finito nel lager di Tora e nel buco nero del terrore diffuso.

Questo modello di nazione reazionaria, anche peggiore di quella incarnata per un trentennio dall’uomo forte Mubarak, è l’ultimo caposaldo di Washington nel Medio Oriente arabo, assieme alla falsamente cangiante dinastia Saud. Gli intenti restano immutati: praticare interessi imperialisti pur in scenari di parziale mutazione, impedire trasformazioni interne favorevoli alle classi deboli, soprattutto se queste rivendicano diritti, miglioramento delle condizioni di vita, redistribuzione della ricchezza. Ciò che alla fine del 2010 molte piazze domandavano, in Tunisia, Egitto, Bahrein, Siria, Marocco. Le tanto sbeffeggiate primavere arabe, che mai sono state rivoluzioni, avevano in corpo fame e disoccupazione; in mente senso di giustizia contro corruzione, ruberie, nepotismo; nel cuore il desiderio di rompere il cerchio della paura che schiacciava la dignità individuale con lo spettro di finire come Khaled Saeed, il Cucchi egiziano. Questo spettro è tornato, in molti angoli mediorientali. In Egitto ha solo parzialmente cambiato volto, perché i crimini di Sulayman e Tantawi li compiono Sisi e i suoi aguzzini. Regeni è sì uno di loro: una delle loro molteplici vittime.

giovedì 23 agosto 2018

Arabia Saudita, l’altra faccia di Bin Salman


L’intensissima propaganda attorno alla modernizzazione del suo progetto ‘Vision 2030’, le ripetute visite internazionali, la disponibilità, i sorrisi, l’aspetto gentile accanto alle aperture su permesso di guida, pratica sportiva, accesso al cinema per le donne sono abili meccanismi diplomatico-distrattivi del principe saudita Bin Salman. Già da tempo il delfino di sovrano Saud ha mostrato l’essenza d’un realismo politico bene in linea con la tradizione della petromonarchia: assolutismo e interessi classisti, mire d’egemonia regionale in sintonìa con la geopolitica del Pentagono in fatto di armamenti, repressione para imperialista. Resta solo l’incognita d’una prosecuzione del sostegno al fondamentalismo wahhabita.  Quanto alla Shari’a usata a  strumento di coercizione politica, giunge la notizia della possibile condanna a morte da infliggere a cinque attivisti dei diritti accusati di terrorismo. Fra loro una donna, Israa al Ghomgham, una sciita già nota per azioni di protesta e arrestata col marito nel 2015, che potrebbe diventare la prima condannata di genere in materia.
Il presunto terrorismo su cui si pronuncerà la Corte Criminale altro non è che: incitamento alla protesta, esecuzione di canti e cori ostili al governo, pubblicazione sui social media di immagini e video relativi alle manifestazioni organizzate nel governatorato di Qatif. Eppure tanto basta al magistrato per applicare il ta’zir della Legge Islamica che, sebbene sia rivolto ai reati minori, può a discrezione trasformarsi in pena capitale. Sentenza da emettere entro il prossimo 28 ottobre. Nonostante i ripetuti pronunciamenti di apertura il clima repressivo sembra tornato indietro ai momenti bui della monarchia, quando infiammava la guerra Iraq-Iran e venivano comminate condanne a morte per gli attivisti della minoranza sciita presenti nei Paesi del Golfo. L’Ong Human Rights Watch interessata al caso, chiede a Riyadh e alla comunità internazionale il rispetto della ‘Carta araba dei diritti umani’ che il locale governo ha sottoscritto. Ciò che viene contestato agli attivisti non ha nulla a che vedere col terrorismo, riguarda la libertà di pensiero e d’informazione, perciò anche le Nazioni Unite muovono interrogazioni sul comportamento della corona saudita. Finora senza esito.

martedì 21 agosto 2018

Kabul, Eid al Adha fra le bombe


Simbolo per simbolo, mentre il presidente Ghani parla nel giorno della festa del sacrificio (Eid al Adha) che avvìa in tutto il mondo islamico il pellegrinaggio verso i luoghi sacri, i jihadisti afghani sparano granate. Sui palazzi della Kabul blindata, che intoccabile più non è da tempo immemore, seppure sia tuttora il cuore d’una condizione in itinere che vede convivere occupanti, collaborazionisti, signori delle guerra vecchi e nuovi, talebani e concorrenti del locale Stato Islamico, tutti sulle spalle del popolo afghano. Mentre i colpi di mortaio che centravano angoli pregiati della città, risollevando ai più anziani il ricordo di quando Massud e Hekmatyar si sparavano dalle montagne che circondano la capitale, la diretta di Tolo tv trasmetteva le parole del presidente con sottofondo di boati. Compreso il suo “rassicurante” commento: “Se pensano di metter sotto gli afghani a suon di missili, si sbagliano”. Capire chi avrà la meglio non è cosa scontata, di sicuro Ghani non veste i panni dell’uomo delle certezze. L’azione, stavolta senza vittime, se non quattro miliziani colpiti da due elicotteri dell’aviazione afghana (altri cinque si sono arresi) aveva solamente una funzione dimostrativa. Tanto per contraddire le autorità in un momento solenne dallo stesso punto di vista religioso, fattore che quasi mai rientra fra le priorità jihadiste.
Ghani parlava anche di pace, dei colloqui proposti ai talebani, dell’amnistia che vuole attuare per ammorbidire i reiterati dinieghi del mullah Akhundzada. Del resto quando nella primavera 2016 quest’ultimo sostituì l’amico Mansoor, da poco eletto nuovo leader dell’intera Shura e che comandi statunitensi pensarono immediatamente di far saltare in aria con un drone, gli analisti avevano preannunciato l’integrità dell’ex combattente, diventato durante il governo talebano giudice di Kandahar. Akhundzada pone come condizione per avviare colloqui il ritiro totale delle truppe Nato e la chiusura delle nove basi aeree americane. Una chiarezza che aveva già fatto scuotere la testa ai vertici di Cia e Pentagono.  Perciò la proposta di Ghani è un’araba fenice, oppure un mezzuccio, peraltro inefficace, per tirare avanti fino alle elezioni di ottobre. A frustrare ancor più i suoi tentativi giunge la notizia d’una mossa diplomatica russa: il ministro degli Esteri Lavrov invita i taliban a un tavolo di trattative dai primi di settembre. Oltre al fantoccio Ghani, colpita sarebbe anche la Casa Bianca che si vedrebbe all’angolo in un Medio Oriente sempre più a gestione russa.
Certo, nel curriculum personale Haibatullah Akhundzada vanta un passato d’integerrimo mujaheddin antisovietico. Non so quanto spazio darebbe a un giro di pagina nei confronti di uomini d’apparato dell’ex Unione Sovietica. Lavrov, che lì intraprese la carriera diplomatica, non ha avuto come Putin legami col Kgb (che organizzò l’invasione del 1979), ma è nota la rigidità del chierico attuale guida dei talebani ortodossi. Di lui dicono sia anche un uomo di parola, basta convincerlo. Per questo Ghani insiste sino a perdere ciò che gli resta della poca dignità istituzionale, spera di convincerlo a entrare nel governo. Chissà quale diavoleria dovrebbero, invece, proporgli i russi che dopo la Siria tentano la carta della pacificazione anche in Afghansitan, puntando sulla rivalità fra taliban e i turbanti dissidenti del Khorasan, come vogliono chiamarsi. La richiesta centrale di Akhundzada starebbe benissimo al Cremlino: smobilitare quelle basi aeree che negli anni della loro occupazione né Breznev né Andropov fecero costruire. Lo fece George W. Bush che non brillava per strategia vincente. Ma l’idea che gli americani mollino quanto di più prezioso hanno ricavato in diciassette sanguinosi anni di “scarponi sul suolo” sembra fantascientifica. I colloqui verteranno su altro. Se mai si faranno.

venerdì 17 agosto 2018

Afghanistan, conservare una guerra infinita


La vicenda narrata da alcuni ricercatori afghani sul caso dell’unico gruppo del Daesh afghano collocato nell’area centro-settentrionale del Paese, e formato come in altri casi da talebani dissidenti, è sintomatica di quello scontro indiretto e ormai anche diretto, fra miliziani che fino al 2015 erano un tutt’uno. Una sorte di competizione per il titolo di “resistente” all’Occidente che da mesi fa strage di civili. Nel distretto Darzab, 150 km sud-ovest da Mazar-e Sharif, un tal comandante Hekmat aveva distaccato i suoi guerriglieri dalle indicazioni della centrale talebana. I suoi uomini (e ragazzi, vista la giovane età di molti reclutati) usavano la sigla dello Stato Islamico della provincia del Khorasan, sebbene si trattasse di un’auto dichiarazione, probabilmente non concordata con la componente più corposa dell’ISKP, collocata nella provincia di Nangarhar. Dicono gli osservatori che i miliziani di Hekmat fossero prevalentemente d’etnìa uzbeka e tajika, con un numero ristretto di pashtun. Il gruppo, restando nella zona, si distingueva soprattutto per scorribande e rapimenti a scopo d’estorsione, fino a quando il leader è stato ucciso da un attacco coi droni statunitensi. Sostituito da Mawlawi Habib Rahman, proveniente dalla zona di Balkh, l’operatività dei jihadisti non veniva contrastata da nessuna struttura governativa. Il capo della polizia risultava rifugiato in una base dell’esercito di per sé, comunque, inattiva.
Nel busillis di “chi controlla cosa”, che comunque esclude a priori reparti e amministratori del presidente Ghani ben rintanati altrove, un governatore-ombra della confinante provincia di Faryab, quasi omonimo del neo leader jihadista: Mawlawi Abdul Rahman, avvertiva il nucleo dissidente che se non avesse deposto le armi ci sarebbero state pesanti conseguenze. Dopo uno scambio d’insulti, con funzione anche da propaganda verso gli abitanti dell’area, e tanto di reciproche accuse d’essere fantocci dell’occupazione straniera, le due componenti passavano alle vie di fatto. Ovviamente armate. Ne è seguito il disegno talebano di sradicare con la forza la presenza dei dissidenti nel Jawzjan con due offensive negli scorsi mesi di dicembre e gennaio. Alle battaglie partecipava, anche perché direttamente interessato il governatore-ombra del Jawzjan, tanto per chiarire che il controllo del territorio continua a rappresentare uno dei fini irrinunciabili della strategia talebana, fedele all’orientamento nazionale del proprio Jihad (mentre i dissidenti parlano di Califfato, secondo le direttive del Daesh). Nell’indagine svolta in loco dagli indomiti ricercatori afghani, fonti governative hanno confermato che i talebani ortodossi hanno impiegato truppe provenienti da altri distretti, come Sar-e Pul e Ghor, usando armi pesanti, proprio per piegare definitivamente la concorrenza. Con l’uccisione, avvenuta a fine luglio, di due comandanti dell’ISPK il morale dei seguaci è parso crollare.
L’impegno nello scontro pur locale è risultato intensissimo, ed è stato monitorato da reparti dell’Afghan National Forces, rimasti a guardare in alcuni avamposti confinanti con le zone del conflitto, cui s’aggiungevano osservazioni aeree statunitensi accompagnate a uccisioni mirate. Gli stessi Taliban hanno registrato numerose perdite, causate da azioni talune ardite, altre subdole operate dagli avversari, che, ad esempio, li hanno colpiti durante i funerali riservati ai capi caduti nei conflitti a fuoco. Dai primi di agosto la morsa talebana s’è stretta sui nemici superstiti. Non facendo, comunque, mancare esplicite trattative: essi avrebbero dovuto scegliere se rientrare fra gli ex compagni oppure esser trattati come le truppe governative. La proposta ha spaccato i miliziani dell’ISPK, alcuni si sono dichiarati disponibili ad avvicinarsi all’esercito di Kabul. E ci sono testimonianze di capi tribali di alcuni villaggi del Darzab che sostengono d’aver visto elicotteri governativi trasferire gruppi ristretti di combattenti e tre capi dell’ISPK in luoghi riparati dall’offensiva talib. Più tardi è giunta una dichiarazione di Mawlawi Habib in persona che s’è detto stanco di guerra e disposto ad accettare i colloqui di pace, sebbene il tavolo maggiore sia rivolto ai talebani, non ai dissidenti come lui. A conferma d’un giro a 360° fra le parti c’è un servizio di Tolo Tv che intervista alcuni jihadisti in questione e sullo sfondo passano tranquillamente militari dell’esercito afghano, i loro probabili liberatori.
In questo viscido quadro, che ha comunque logiche scritte in decenni di presenza di Signori della guerra nelle vicende interne, coi legami etnici, le alleanze di comodo non durature, gli interessi di parte, può rientrare il filo d’unione uzbeko che spiega la mano tesa governativa a questi jihadisti. Ricordiamo che il vecchio boss Dostum, pur provato da qualche problema di salute, è tuttora vicepresidente di Ghani. Quest’ultimo, mentre cerca di giungere alle elezioni di ottobre in un clima diventato roventissimo, farebbe carte false con qualsiasi miliziano pur di provare ai suoi protettori di Washington e agli amici della Banca Mondiale, che il suo esperimento governativo è flessibile e non è fallito affatto. Ora con la sedicente ‘riconciliazione nazionale’ per assegnare un’amnistia, il presidente lancia un discrimine fra coloro che hanno commesso crimini e quelli che non li hanno commessi. Cos’è un crimine nella terra di criminali inveterati promossi capi di Stato da quegli interventi criminosi definiti negli anni: Enduring Freedom, Isaf Mission, Resolute Support è facilmente spiegabile nelle inascoltate parole di chi cerca un Afghanistan libero da ingerenze d’ogni tipo. Voci tuttora ai margini, odiate dai jihadisti d’ogni sponda e dagli altri poteri forti (eserciti d’occupazione, governi fantoccio, potenze regionali) che si spartiscono affari privati in una terra obbligata alla guerra.

martedì 14 agosto 2018

Egitto, il silenzio dopo la strage di Stato


Sicuramente a Sabra e Shatila fu peggio. Non fosse altro che per il numero, oltre tremila vittime prevalentemente donne, bambini, vecchi. Per gli sgozzamenti, per la violazione di quei corpi palestinesi che i falangisti del Libano odiavano come etnìa. E perciò sventravano. Ma il massacro del 14 agosto 2013 davanti la moschea cairota di Rabaa Al Adawiya, rappresenta un altro buco nero di qualsiasi sentimento umano, non solo per quel che avvenne nelle ventiquattr’ore di cieca violenza, ma per la cupa omertà che ne è seguita. E che tuttora regna sotto il regime della paura instaurato dal generale Sisi. Una strage di Stato, organizzata dal potentissimo esercito che aveva sostenuto il golpe bianco di Al Sisi, sospinto dai politici - mubarakiani, liberali, nasseriani - che s’opponevano alla presidenza dell’uomo della Fratellanza musulmana, Mohammed Morsi, eletto un anno prima. Quando, dopo alcuni mesi e dibattiti attorno a due sostanziali riforme, una economica, l’altra istituzionale per il rinnovo della Costituzione del 1973, deputati e partiti si contrastarono. Ne seguì l’aperto boicottaggio dell’Assemblea Costituente da parte del Fronte di salvezza nazionale che riecheggiava un mantenimento dell’antico sistema tanto contestato dai moti di piazza Tahrir. Da lì, nella tarda primavera 2013, iniziarono manifestazioni su piazze contrapposte di opposizione e di sostegno alla presidenza Morsi.

Veniva sventolata una petizione popolare che chiedeva le dimissioni del presidente, a detta dei promotori raccoglieva un milione, poi tre quindi dieci e fino a trenta milioni di adesioni. Era il prodromo del colpo di mano che ne seguì, quando fra il 2 e il 3 luglio le sempre presenti Forze Armate, su iniziativa del ministro della Difesa Abdel Al Sisi posero agli arresti Morsi. La piazza islamista s’agitò, ma non tutta. I salafiti del partito Al Nour, ferrei nemici della Fratellanza, applaudirono all’iniziativa, mentre l’attivismo della Confraternita organizzava la protesta. In due piazze (Rabaa e Nahda) si concentrarono dei sit-in che già dopo una settimana vedevano decine di migliaia di cairoti bivaccare in tenda e lì dormire, mangiare, pregare. Era il loro moto di dissenso a quello che consideravano un’infamia contro la figura istituzionale più prestigiosa, di cui veniva calpestata la legittima autorità. E contro la nazione. I militari minacciarono lo sgombero dei giganteschi assembramenti, in un paio d’occasioni provarono ad attuare l’allontanamento forzato degli accampati, ne seguirono contrasti, tafferugli e l’iniziativa fu abbandonata. Però il fuoco covava. Dopo il 40° giorno di protesta, cui non seguivano spiegazioni per l’arresto effettuato nei confronti del presidente (di lì a poco gran parte della nomenklatura dell’organizzazione politica islamista: Badie, Shater, Taalat avrebbero subìto la stessa sorte), regnava un silenzio irreale fra le tende cotte da un sole ferino.

Gli organizzatori saggiavano la sensazione dell’isolamento interno e internazionale. Nessuno, al di là dell’onnipresente e attenta al mondo arabo Al Jazeera, si stava occupando degli sviluppi del panorama egiziano. I nuovi militari, che sostituivano la vecchia guardia del camaleontico Tantawi, spadroneggiavano e già indicavano la via repressiva da seguire resa necessaria dalla “lotta al terrorismo”. E prima della mezzanotte - così raccontarono i superstiti di Raaba - gli accampati vennero colti da stridori di camion, cingoli e un vociare sempre più rombante. Videro caterpillar avanzare, giungergli addosso, senza fermarsi. I più politicizzati di loro rivedevano l’immagine dell’attivista pro palestinese Rachel Corrie triturata dalle ruspe israeliane. Perché questo accadeva a centinaia di loro, mentre salivano urla, imprecazioni, mentre il fumo dei gas soffocanti e urticanti gli stringeva la gola, scorticando la pelle. Mentre vedevano gente che cadeva con fiotti di sangue che usciva dalla nuca, dal collo, dalle spalle. Colpiti sulla via della fuga. Le poche, quasi uniche dichiarazioni del ministero degli Interni del Cairo, giustificavano l’azione definita “di ordine pubblico per motivi di sicurezza”. Per la presenza di “gruppi armati” fra i manifestanti.

Quei nuclei di autodifesa utilizzati dalla Fratellanza in taluni scontri dei mesi precedenti con polizia e avversari politici, ben altro dal jihadismo nel quale presumibilmente finì anche una parte della loro gioventù a seguito di quei fatti e della repressione stratificata nel Paese anno dopo anno. Migliaia di poliziotti, soldati, cecchini spararono su una folla inerme, esaltati sparavano nel mucchio e sui singoli corpi che svicolavano, li colpivano fin dentro la moschea dove i più religiosi fra loro cercavano riparo, sperando nella protezione del luogo sacro. Oltre la cronaca, diffusa il giorno seguente sui media ma già archiviata dopo Ferragosto, nelle settimane, nei mesi, negli anni ben pochi tornarono sulla strage. Non ci tornarono quando Sisi, pretese l’elezione a presidente, né quando la ripeté con alle spalle altri omicidi singoli e di gruppo, compreso quello del ricercatore italiano Regeni. Solo qualche organismo umanitario (Human Rights Watch) s’impegnò in un’indagine per ricostruire le efferatezze di quelle ore. Su cui pesa il numero delle vittime (fra le 800 e le 1200), sebbene di altre ottocento persone non s’è saputo più nulla. Stritolate fino a risultare irriconoscibili? Morte in seguito e fatte sparire? Come di altre migliaia di sepolti vivi, arrestati mai liberati, la nazione del presidente Al Sisi non dice nulla. Né il mondo chiede.


sabato 11 agosto 2018

Turchia, dollari e Allah


Come suo solito tuona il presidente-sultano. Ce l’ha, stavolta non a torto con Trump, il provocatore. Ce l’ha coi mercati della speculazione, che in verità per affarismo anche gli affiliati al suo clan conoscono e frequentano. Ma nel caso della Turchia, e dell’Iran, in questa fase la speculazione finanziaria che cavalca la debolezza delle rispettive monete è tenuta su dalla speculazione geopolitica. Non dovrebbe sorprendersene un giocatore d’azzardo come Erdoğan, che di giravolte e doppiogiochismi è maestro. E magari sorpreso non è, visto che da mesi il valore della lira turca è in caduta (circa il 50% da gennaio) e le turbolenze erano previste all’orizzonte. Però i successi elettorali l’avevano ulteriormente euforizzato e lui, da uomo forte, sulla nazione e sulla coriacea maggioranza che lo sostiene confidava, e tuttora confida, per respingere chi coi dollari attenta alla sovranità turca, cui contrappone il sentimento patriottico e islamico dell’Anatolia. Le mosse d’un altro duro sullo scenario mondiale, il presidente protezionista americano Trump, che in queste ore raddoppia i dazi su due prodotti della siderurgia anatolica (acciaio e alluminio) è stato solo il fattore scatenante su cui i mercati della finanza fittizia si sono gettati per far vacillare quotazioni in molte Borse.

Con nocumento di tanti risparmiatori. Certo, diversi investitori, dopo le sparate della Casa Bianca hanno abbandonato o minacciato di farlo la piazza turca. Inoltre vari osservatori notano come la stessa vicenda del pastore evangelico statunitense Brunson, detenuto in Turchia con l’accusa di spionaggio, abbia ulteriormente aizzato la smania rissosa del presidente-guascone, cui il collega ora imparentato politicamente coi “Lupi grigi” tiene a non mostrarsi meno aggressivo. Perciò Erdoğan risponde per le rime, sostenendo che in assenza d’una marcia indietro sui dazi, il Paese che comunque mostra un’economia stabile, valuterà altre partnership economico-finanziarie e geopolitiche. Nella fattispecie Russia e magari Cina. Ipotesi che sul fronte strategico mettono in fibrillazione il Pentagono e destabilizzano lo scenario Nato, che sul fronte del Mar Nero e del Mediterraneo orientale ha nella Turchia un pilastro irrinunciabile dal secondo dopoguerra. Ma proprio Erdoğan che nell’ultimo quinquennio  tanti problemi interni ed esterni ha avuto e s’è creato, è riuscito a rilanciarsi come leader accettato fra la sua gente e nei consessi di crisi palesi.

La guerra civile siriana l’ha avvicinato a Putin, dopo essere stato un sostenitore palese e occulto dell’opposizione ad Asad e di certo jihadismo, il dramma dei profughi siriani l’ha reso interessato salvatore di un’Europa sottoposta ai ricatti dei membri di Visegrád e dei suoi ammiratori anti immigrati del vecchio continente. Nella partita fra bulli il presidente turco rischia più dell’omologo d’Oltreoceano, perché la forza economica statunitense è cospicua, perché mercati e Borse finanziarie vedono lo zampino di lobbies e istituti in cui la politica americana fa pesare i suoi intrecci. Eppure le variabili geopolitiche riservano sorprese (Trump ne sa qualcosa proprio per essere diventato, contro ogni logica, presidente Usa). I ceti medi turchi, tuttora zoccolo duro del potere dell’Akp, come i bazari iraniani, compromissori verso gli ayatollah e il braccio armato dei Guardiani della Rivoluzione, potrebbero pure cambiar bandiera, ma servirebbe un’alternativa credibile, economica e politica. Che non è certo l’immagine sovranista, xenofoba, ottusa, egoista e ricattatoria dell’America First trumpiana. E tant’è.

venerdì 10 agosto 2018

Afghanistan, show talebano a Ghazni


Caduta sì, caduta no. C’è scontro anche informativo sulla sorte della città di Ghazni, a 120 km sud-ovest da Kabul, che i comunicati dei taliban sostengono d’aver conquistato e quelli governativi affermano d’essere tuttora controllata, seppure sotto il fitto attacco da stamane. Affermano poi che i miliziani sono, da ieri sera, a circa 250 metri dall’edificio delle forze di polizia che difendono la città (circa 300.000 abitanti) ma non l’hanno preso. I poliziotti sono l’unico presidio governativo, sebbene ora, dalla capitale convergano nel luogo dell’assalto, militari e qualche elicottero d’appoggio statunitense. L’iniziativa di difesa appare blanda, quasi volta a non voler ostacolare del tutto lo spettacolo dei turbanti, e il retro pensiero riguarda l’ostinazione con cui il presidente Ghani cerca di raggiungere un accordo coi talebani per valorizzare le elezioni del prossimo ottobre. Però da oltre un anno la Shura di Quetta non si fa convincere, al più stipula tregue; da maggio ne sono state firmate due, poi interrotte come nel caso di Ghazni.

Questa provincia non è strategica, ma costituisce un punto di passaggio verso città importanti. Attraverso Ghazni si va a Kandahar, come nel distretto di Parwan (a nord della capitale) ci si dirige verso Bagram fino a Mazar-e Sharif. Gestire le vie di comunicazione rappresenta l’anticamera del controllo del territorio sul versante della forza e dell’indotto in movimento, per ogni genere di merci. Le forze talebane occupano stabilmente due aree meridionali, quasi per intero l’Helmand e un’ampia fetta del distretto di Kandhar, dal 5% al 8% del territorio. Però in tante altre province hanno avamposti, compiono occupazioni, scorribande, azioni dimostrative. Le percentuali divulgate dieci mesi fa stabilivano il 15% di un’elevata presenza sull’intero territorio nazionale, una media presenza sul 20%, una bassa sul 30%. Dunque lo spettro talebano riguarda il 70% dell’Afghanistan. E questo spiega la frenesia di Ghani per accordarsi con loro e continuare nella sua sceneggiata di governo. Ma i turbanti lo fanno cuocere a fuoco lento. A maggio duemila miliziani si sono presentati a Farah, importante provincia occidentale, cercando di occuparne il capoluogo.

Combattimenti e morti, come in queste ore a Ghazni, poi hanno desistito anche perché in aiuto dei militari locali sono accorsi marines. Stavolta l’attacco non è stato frontale. Gli studenti islamici in armi, da settimane presenti nella provincia come del resto in altre zone del Paese, s’aggiravano per le campagne. Chiedevano offerte e imponevano dazi su raccolti e commerci e la gente, volente o nolente e soprattutto senza difesa, glieli concedeva. Poi nella notte la scelta dell’attacco contro il presidio armato del governo centrale: il posto di polizia, dove si contano  16 cadaveri e un numero imprecisato di feriti. L’occupazione durerà? Forse no. La strategia sembra proseguire in direzione del logoramento, della politica di Ghani, non del presidente che continua a risiedere fra Kabul e le località internazionali dove le scorte del Pentagono lo traferiscono per colloqui, incontri, parate di facciata. Chi muore e soffre, sta nella polvere afghana, in attesa che fra tre mesi si trasformi in fango.

giovedì 9 agosto 2018

Gaza, madri e figli d’un popolo che resiste allo sterminio


Si chiamava Bayan, diciotto mesi, la piccina uccisa ieri a Gaza dalle bombe d’Israele, che punisce Hamas della resistenza in atto e gli abitanti della Striscia dell’essere tuttora in vita. Non aveva ancora un nome, semplicemente perché non era nato, il bimbo che la madre, la ventitreenne Enas, portava in grembo. Sono morti anche loro, terroristi, resistenti cui il governo Netanyahu nega l’esistenza. Dalla fine di marzo la protesta palestinese che chiede quel che settant’anni fa gli ebrei ottennero, avere un proprio Stato, è stata segnata da 160 vittime e 16.000 feriti. Uccisioni e ferimenti realizzati con spregevole e criminale cinismo, assassinando bambini e donne, tirando con fucili di precisione su personale di supporto ai manifestanti: infermieri che distribuivano maschere antigas, volontari con bottiglie d’acqua, giornalisti che filmavano la mattanza sulla folla in maggioranza pacifica. Impari scontri s’erano verificati contro giovani armati di fionde e bottiglie incendiarie, che mai hanno messo in pericolo la vita dei soldati con la Stella di David. Ma, come in altre occasioni, la sperequazione dei mezzi e dell’uso della forza non conduce a ragione militari, ufficiali e le leadership politiche che gli confezionano licenze di uccidere per difendere la palizzata, la rete simbolo della separazione etnica creata in Israele.
E come si sono accaniti per mesi mirando alla testa, al cuore dei gazawi - che nonostante le terribili stragi sottaciute e snobbate dalla politica internazionale, continuavano e continuano a riunirsi per dire al mondo, oltre che ai propri assassini: noi esistiamo - ora riprende il massacro dal cielo, già attuato in tante occasioni. Una carneficina che si ripete, che spazza via migliaia di palestinesi colpevoli di resistere in quei 40 km, spogli di quasi tutto, non della dignità di popolo che resiste a tutto. Il triangolo familiare cancellato dal fuoco israeliano, quella madre, quella figlia, quel bimbo mai nato, che l’aviazione di Tel Aviv volutamente uccide per vendicare i razzi (100, 150?) lanciati negli ultimi giorni dalla struttura militare di Hamas oltre il confine, è l’emblema d’una presunta guerra. Del conflitto impari, sempre frutto d’invasioni israeliane, che anche nei momenti di scontro aperto da ‘Piombo fuso’ in poi, ha visto la morìa a senso unico di mille (fra civili e miliziani palestinesi) a uno (militare di Tsahal). Una pratica che ogni partito, ogni leader politico sionista ciecamente perseguono e con essi il fandamentalismo religioso ebraico teorizzatore d'un mondo a parte. Tutto noto, con la costante del consenso internazionale e la variante di ulteriori eccidi, collettivi oppure sfilacciati in vili agguati come ieri a Jafarawi, Gaza City.  

lunedì 6 agosto 2018

Tensioni iraniane, non solo moneta


Rimostranze, per l’ulteriore svalutazione del rial, la caduta del potere d’acquisto dei salari, la carenza di scorte d’acqua. Ripetute periodicamente. E slogan contro i leader religiosi e le loro politiche antipopolari. In Iran prosegue una fibrillazione con avvenimenti condivisi sui social, seppure taluni collegamenti diventano sempre più difficoltosi. Nel fine settimana si sono registrati agitazioni in città dalle meraviglie artistiche (Isfahan, Shiraz) lanciate da un triennio nel circuito turistico internazionale e piene di visitatori; più Karaj e Arak,  rispettivamente a 40 e 180 km da Teheran. Minori e limitate le proteste nella capitale. Uno slogan ripetuto, suonava: “Morte al carovita”. Mentre lo sciopero degli autotrasportatori, che rivendicano aumenti salariali, ha privato del rifornimento di carburante alcune zone del nord, compresa l’area di Teheran. Una vera beffa per un Paese ricco di idrocarburi. La moneta locale è nella bufera da anni, ma nell’ultimo ha perso addirittura l’80% del valore, indebolendosi anche per il rilancio delle sanzioni finanziarie imposte da Trump alla politica statunitense.
Il presidente Rohani è sotto attacco non solo degli oppositori, ma degli stessi elettori delle classi medie che l’avevano rieletto. A costoro l’ayatollah diplomatico, che ricuce la politica nazionale da anni polarizzata dallo scontro fra riformisti e conservatori, non appare più credibile. L’insoddisfazione resta, la disillusione cresce e la mancata realizzazione delle promesse normalizzatrici avanzate nel 2013 e rilanciate con la rielezione del 2017 possono portare solo guai al presidente. Certo, le proteste dello scorso gennaio erano variegate. A soffiare sul malcontento, soprattutto nelle roccaforti tradizionaliste come Mashhad, è stata la fazione di Raisi, il contendente diretto e sconfitto. Da quelle agitazioni i chierici conservatori e il partito dei Pasdaran cercavano sostegno per incrinare il rapporto di forza che il presidente riconfermato aveva stabilito nell’urna. Però i giovani scesi per via nelle due settimane di fuoco di fine anno, pur non ricreando l’onda verde del 2009, non appartenevano all’onda nera della contestazione fondamentalista. Sono dei senza partito e senza leader.
Così, a macchia di leopardo, i primi sette mesi del 2018 hanno evidenziato azioni di gruppi sparuti o più corposi richiedenti aperture, che spesso la geopolitica non consente, oppure semplicemente opportunità lavorative interne ed estere egualmente difficili da attuare. E svelamenti di ragazze che mal sopportano anche il ruolo di ‘mal velate’; e ancora tensioni di imprenditori illusi dalle promesse di affari coi mercati occidentali che l’embargo strisciante – e ora quello ringalluzzito da Trump – rendono impraticabili. Più la caduta a precipizio del valore monetario interno che sotterra il business dei bazari, oltreché qualsiasi prospettiva di circolazione del denaro con acquisti, anche fra i ceti medi. Un cataclisma economico, che rientra anche fra le prospettive inseguite dai nemici del regime. Eppure quest’ultima verità collide con operazioni speculative in cui restano impegolati personaggi pubblici, legati comunque al sistema, com’è accaduto a una figura di vertice della Banca centrale iraniana, Ahmad Araghchi, che è stato recentemente arrestato.
L’uomo è il nipote del noto politico Abbas Araghchi che negli anni passati ha ricoperto funzioni di vertice presso il ministero degli Esteri. Non sono ancora chiari gli addebiti, certo è che la sponda conservatrice tuona contro “i corruttori economici”, e l’attuale ministro degli Esteri Zarif cerca di offrire qualche sortita a un quadro oggettivamente complicato dal rilancio delle sanzioni. Ma quando la gente comune si trova di fronte a soggetti che sottraggono miliardi tramite raggiri e operazioni speculative l’impatto emotivo risulta controproducente per l’intero establishment. Seppure la conflittualità interna per il potere provi a cavalcare ogni protesta economica, sociale, salariale. Le ultime paiono molto disilluse, mancanti di alternative concrete. E la spallata anti regime che gli oppositori filo occidentali (spesso riparati all’estero) sperano possa prodursi, non accade. Secondo alcuni analisti perché la macchina propagandistica del sistema riesce a compattare la popolazione sul tema della sicurezza nazionale messa in pericolo da tentativi destabilizzanti pilotati, contro cui l’apparato della forza ufficiale (polizia) e volontario (strutture paramilitari basij) riesce ad avere la meglio.