Ulla Jelpke era fra i dieci parlamentari Die
Linke che nello scorso novembre sventolarono nel Bundestag la bandiera del
Partito Kurdo dei Lavoratori. Il gruppo protestava contro la revoca dell’immunità
parlamentare alla collega Nicole Gohlke che chiedeva d’abolizione della messa
al bando del Pkk, una misura in vigore in Germania dal 1993. Abbiamo raggiunto la
deputata Jelpke a Berlino.
Onorevole,
perché avete deciso di solidarizzare col Pkk?
Nei molti viaggi svolti fra la Turchia orientale
e la Siria settentrionale ho conosciuto il Pkk e il suo partito fratello Pyd,
impegnati in un’originale prospettiva di emancipazione in Medio Oriente che va
oltre i movimenti classici di liberazione nazionale. Anche in Germania, il Pkk
è la forza dominante fra le kurde e i kurdi politicizzati. Inoltre, in quanto
esperta di politica interna, dovevo occuparmi dell’ostracismo politico che il
Pkk subisce nei nostri Land e solidarizzare con gli attivisti perseguitati per
quel divieto.
E’ una
scelta dell’intero gruppo parlamentare Die Linke o di alcuni di voi?
Ora dell’intero gruppo.
A lungo solo un manipolo di deputati, che sono stati osservatori durante le elezioni
nei territori kurdi della Turchia o che hanno molti residenti kurdi nella loro
circoscrizione, s’interessava al tema. Altri deputati Die Linke lo evitavano
perché temevano d’essere assimilati ai “terroristi”. Il quadro è cambiato dopo
che, nell’estate 2014, il Pkk nel nord dell’Iraq ha salvato la vita di decine
di migliaia di yazidi e cristiani soggetti agli attacchi dello Stato Islamico e
dopo che le milizie kurde hanno opposto un’accanita resistenza a Kobanê. A quel
punto tutti i parlamentari Die Linke hanno deciso di presentare la richiesta di
abolizione del divieto del Pkk al Bundestag e d’invitare il governo federale a
rimuovere questo partito dall’elenco delle organizzazioni considerate
terroriste dall’Ue.
Cosa
pensate delle liste di proscrizione stilate da Stati Uniti e Unione Europea?
Die Linke ha sempre
rifiutato questi elenchi che considera estranei ai principi del diritto
internazionale. Ci impegnamo per l’abolizione degli elenchi indipendentemente da
come valutiamo i gruppi citati. Sono sicura che anche quei nostri deputati che
in passato si mostravano scettici sul Pkk e sui i suoi metodi non lo
consideravano un organismo terrorista. Die Linke e, precedentemente, il Pds, si
sono sempre battuti per i diritti dei kurdi e una soluzione politica della loro
questione.
In Europa molti
hanno espresso solidarietà a Kobanȇ e ai kurdi con manifestazioni e missioni,
ma nella sinistra europea non ci sono partiti che hanno compiuto una scelta
simile alla vostra. L’internazionalismo è scomparso?
Non proprio. La Sinistra
Europea in quanto federazione di numerosi partiti, socialisti e comunisti, ha
deciso di fare una campagna contro la presenza del Pkk nell’elenco delle
organizzazioni terroristiche. Anche altri membri della Sinistra Europea, come i
comunisti francesi, sono stati molto attivi solidarizzando col movimento di
liberazione kurdo. In Germania gruppi della sinistra extraparlamentare
s’interesssano al Kurdistan; raccolgono anche denaro per armi destinate alle
Unità di difesa popolare e di Difesa delle donne del Rojava. Non credo che
l’internazionalismo sia scomparso, penso che viviamo un ritorno di solidarietà
e Rojava ne è un esempio. Ricordo il 1° novembre 2014, quando si è giunti a
manifestazioni mondiali per Kobanê. Dobbiamo
considerare che in altri Paesi europei – forse con l’eccezione della Francia –
non è in atto una persecuzione tanto dura del Pkk e del movimento di
liberazione kurdo come in Germania.
Ancora
sull’internazionalismo: in due nazioni dalla grande tradizione di sinistra – Italia
e Francia – la carenza d’un intervento ufficiale ha motivi organizzativi o c’è
una perdita di valori solidali nella leadership e fra i militanti?
In entrambi i Paesi
esistono gruppi solidali con le lotte di lavoratori, con gli sfruttati e i popoli
oppressi. Non parlerei di mancanza d’internazionalismo. Naturalmente ancora
quindici anni fa i comunisti italiani erano molto più attivi nella solidarietà
al Kurdistan. Per un certo tempo, durante la sua fuga, Abdullah Öcalan ha
soggiornato in Italia attirando l’attenzione sul problema kurdo. La questione principale
mi sembra il declino e la frammentazione dei comunisti italiani. Negli ultimi
tempi la sinistra italiana s’è occupata anzitutto di sé stessa. Per un
internazionalismo efficace è necessaria una certa influenza e una forza nel
proprio Paese, altrimenti quell’impegno resta un gesto simbolico pieno di buone
intenzioni, ma senza efficacia.
Una solidarietà
attiva esiste fra i kurdi, però solo l’assedio di Kobanȇ ha condotto i
peshmerga a difendere quella città. Cosa pensate del governo Barzani e del ruolo del Kurdistan iracheno nella più grande questione
kurda?
Barzani persegue un
progetto politico del tutto diverso dal Pkk e dal Pyd. Il suo obiettivo è uno
Stato nazionale kurdo nel nord iracheno. Dubito che un simile Kurdistan
indipendente darà ai suoi abitanti più sicurezza e più libertà. Già oggi la
regione autonoma kurda è uno Stato mafioso governato alla maniera feudale da
due o tre partiti, dove regnano corruzione e nepotismo, dove le forze di sicurezza
sparano sui dimostranti che contestano il regime, dove i giornalisti critici
vengono assassinati e le violenze e gli assassini sulle donne sono enormemente
aumentati. Economicamente la regione kurda in Iraq è totalmente dipendente da
Ankara, possiamo parlare perfino di un protettorato turco. Il margine d’azione
di Barzani è stretto e si aggiunge una debolezza militare. Davanti all’attacco
dell’Is ai territori kurdi, in particolare nella regione degli Yazidi, Sengal,
i peshmerga sono fuggiti. Evidentemente costoro, poco più che mercenari mal
pagati, non avevano il morale per combattere, a differenza dei volontari del
Pkk e del Ypg che non sono intervenuti solo per proteggere gli yazidi, ma
l’intera regione autonoma kurda. Mentre la reputazione di Barzani, del suo
Partito democratico del Kurdistan e dei peshmerga sono finite in sofferenza, il
prestigio del Pkk è molto aumentato fra la gente e gli ambienti politici kurdo-iracheni.
Dopo che la maggioranza del parlamento iracheno s’è dichiarata favorevole al riconoscimento
dei cantoni del Rojava, soggetti finora a un embargo anche da parte del governo
di Barzani, questi è stato costretto a spedire a Kobanê gruppi di peshmerga con
armi pesanti. Se Barzani rinunciasse al suo atteggiamento negativo nei confronti
del Rojava si compirebbe un passo in avanti. Tuttavia non si tratta di lotte
per la leadership fra Barzani e Öcalan o lotte di partito fra Kdp, Pkk e Pyd.
In ballo ci sono visioni politiche e modalità di sistema. A differenza del Kdp,
il Pkk e il Pyd mirano a soluzioni di democrazia di base non nazionaliste,
puntano a collegare tutti i gruppi di popolazione che vivono nella regione,
considerano centrali i diritti delle donne e tentano di intraprendere un
percorso di sviluppo non capitalista.
Abbiamo
sotto gli occhi un altro “internazionalismo”, quello dei giovani islamici
d’Europa che diventano jihadisti. L’Islam fondamentalista può offrire un
modello di società più avvincente del mondo globalizzato?
La sinistra in Europa deve
accettare di confrontarsi con un’emarginazione sociale frutto dell’immigrazione
musulmana, se non lo fa si chiude una porta in faccia. Questa sinistra non sta
offrendo una prospettiva alla massa dei giovani migranti. In Germania, Francia,
Italia è, con poche eccezioni, indigena e bianca. I jihadisti s’inseriscono in
questa breccia. Per loro non fa differenza se si è di origine tedesca o
migranti, neri o bianchi, o a quale religione si è appartenuti in precedenza.
Sono decisive l’accettazione delle convinzioni jihadiste e la disponibilità a
lottare per esse. Inoltre l’estremismo islamico sembra in grado di offrire
soluzioni semplici perfino a problemi primari come l’istruzione, la ricerca di
posti di lavoro, il rapporto coi genitori riguardo a una visione religiosa e
spirituale.
Il
progetto federalista di Öcalan ha possibilità di realizzarsi? Come può essere
aiutato dalla politica internazionalista?
Questo progetto ha
maggiori possibilità di successo dell’idea d’un Grande Kurdistan unito e
indipendente sognato ancora da alcuni kurdi. La scorsa estate, nel Rojava, ho
sperimentato io stessa quanto l’idea di autoamministrazione con uguali diritti
entusiasmi le persone – kurdi, arabi, assiri/aramei – che vogliono costruire
una nuova società. Ma a Kobanê abbiamo anche sperimentato la vulnerabilità di
questo modello. Senza l’intervento dei peshmerga con le armi pesanti e senza
gli attacchi aerei Usa Kobanê sarebbe caduta. Lo dico malvolentieri, ma è la
realtà. Il futuro dirà quanto sarà alto il prezzo politico da pagare per il processo
di emancipazione. Possiamo sostenere praticamente Rojava e il movimento dei
comuni kurdi nella Turchia orientale con aiuti in denaro e materiali. Facendo
conoscere a livello internazionale l’esempio che lì viene dato. Facendo affluire
per un certo tempo in quelle aree, in nome dell’internazionalismo, medici e
ingegneri che collaborino a costruire progetti autonomi. E naturalmente nei
nostri Paesi dobbiamo opporci all’invio dall’Europa di armi ai nemici di questo
modello sociale: Turchia e Arabia Saudita.
La
doppiezza della linea di Erdoğan e delle petro-monarchie attorno al jihadismo è
evidente, ma gli interessi economici condurranno le nazioni occidentali ad
abbandonare a se stessa la questione kurda?
Forse, però potrebbe
accadere anche il contrario. Proprio per interessi economici e per aver accesso
alle gigantesche risorse di petrolio e gas nel nord dell’Iraq kurdo, i Paesi
occidentali tendono a inserirsi nella regione. Se la Germania fornisce armi ai
peshmerga, non è certo per combattere l’Is. Se questa fosse l’intenzione le darebbe
soprattutto a Pkk e Ypg che combattono con successo lo Stato Islamico, non ai
peshmerga che inizialmente davanti ai jiahadisti si sono ritirati. Con simili equipaggiamenti
la Repubblica Federale vuole comprare i favori di Barzani per partecipare in
futuro al business dell’energia. Per la Turchia è esatto dire che gli interessi
economici vengono prima dei diritti umani, non possiamo farci illusioni. Una
Turchia stabile che ha risolto in modo democratico la sua questione kurda, anche
grazie all’imprevedibile politica di Erdoğan, attira gli investimenti stranieri
più d’un Paese sull’orlo della guerra.
Quale
ruolo viene ad assumere la Germania nell’attuale crisi geopolitica in Medio
Oriente e nell’Europa dell’est? Angela Merkel sarà come Helmut Kohl per l’ex
Jugoslavia?
Il governo tedesco intende introdursi in Medio Oriente. Ma, a differenza delle
ex potenze coloniali francese, britannica e degli Usa, il suo impegno militare
nella regione è ancora relativamente piccolo, seppure ci sono batterie di
Patriot in Turchia e la Marina federale è davanti al Libano. La Germania manda
consiglieri militari nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo è avere un ruolo molto
più attivo nell’area per non essere tagliati fuori dalla nuova ripartizione del
mondo. Tutto ciò vale anche per l’Ucraina, dove la Germania appoggia
unilateralmente, secondo gli interessi statunitensi, il governo di Kiev,
sostenuto notoriamente anche da fascisti. Dall’altra parte la Merkel tenta un
riequilibrio con Putin, perché l’economia tedesca dipende in parte dalla
Russia. A differenza della Jugoslavia, nella cui distruzione la Germania
diretta da Kohl e Genscher aveva un ruolo preminente, in Europa orientale il
governo federale è costretto a cercare una via di mezzo fra la sua subordinazione
politica agli Usa, anche in ambito Nato, e gli interessi della propria economia.
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Ringraziamo
la deputata Ulla Jelpke per l’intervista. Giustinianio Rossi e Jürgen Stottko
per la traduzione dal tedesco