L’Egitto conferma Adbel Fattah al Sisi presidente
per un terzo mandato. La regola se l’era fatta da sé nel 2019 modificando
la Costituzione e prolungando da quattro a sei anni l’incarico. Ma il successo
che stavolta “scende” all’89,6% rispetto ai precedenti picchi d’un unanimismo
quasi totale, mostra come novità una crescita esponenziale dei votanti: 66,8%
afferma l’Autorità Elettorale, Hazem Badawi. Dati credibili? Al momento non si
può dimostrare il contrario. Dati probabilmente gonfiati, come lo erano nel
2014 e 2018 quando il 97% presidenziale era frutto d’una partecipazione al voto
rispettivamente del 30% e del 20% dell’elettorato, non del 45% dichiarato. Con
una quota di elettori che sale ben oltre il 50% il regime può vantare una
conferma più solida, seguendo la linea che caratterizza tutti i populisti più o
meno autocratici del mondo, fedeli al motto: è il popolo che mi vuole. Eppure
c’è un’ampia fetta di popolo, talvolta maggioritario, che non vuole e non vota.
L’altra riconferma nel panorama egiziano è la drammatica assenza di alternative
e di prospettive. I restanti candidati presidenziali non potevano essere
ascritti né fra gli oppositori, né fra gli outsiders. Senza offesa si trattava
di figure talmente deboli e fittizie da risultare evanescenti per tutti, dagli
elettori ai commentatori. Eppure ogni sigla: Partito socialdemocratico egiziano di sinistra per Farid Zahran, Wafd per Sanad Yamama, Partito popolare repubblicano per Hazem
Omar (per la cronaca quest’ultimo è andato meglio degli altri raccogliendo il
4,5%.) vanta un passato e una storia. Però si tratta di storie sbiadite,
tutt’uno con lo scialo e la negazione delle origini compiute dal nasserismo
terzomondista già all’epoca di Sadat, per tacere dello sciagurato trentennio di
Hosni Mubarak. La novità a questa tendenza politica scaturiva dal diffuso
desiderio di ribellione sbocciata nel gennaio 2011. Ma s’è trattato d’un lampo.
Incendiario di per sé e presto bruciato dalla repressione poliziesca. Un pezzo
di tale novità, che non era affatto nuova perché s’appoggiava alla tradizione
della Fratellanza Musulmana duramente
perseguitata negli anni Sessanta, ha trovato per alcuni mesi consenso, denaro e
voto da milioni di elettori. Quando Morsi batté un membro della dinastia delle
Forze Armate - Ahmad Shafiq - le schede furono milioni, lo scarto fra i due alcune
centinaia di migliaia.
Quelle furono le uniche votazioni ampiamente
partecipate,
con intrusioni e forzature limitate dai tempi della “rivolta dei liberi ufficiali”.
Sappiamo com’è andata a finire: gli islamisti, che non brillavano per
efficienza e lungimiranza di pianificazione, vennero scalzati con un referendum
di sfiducia promosso dai partiti laici, dai liberali ai comunisti comprese frange
dei rivoluzionari di Tahrir. Ma chi salì al potere fu l’ennesimo militare, colui
che tuttora comanda a suon di consensi dell’urna più o meno anabolizzati. La costante che il Paese conserva è, appunto, la
strabordante forza della “lobby delle stellette”, molto apprezzata dalle
democrazie europee, dai padrini d’Oltreoceano e dal nemico d’un tempo: Israele.
Che da anni con Sisi ripete la pantomima istituzionale con consensi assoluti in
assenza di avversari veri. Perché per via, nei posti di lavoro, nella società
tutta nessun dissenso è ammesso. Soltanto provare a esibirlo è costato, e
continua a costare, mesi o anni di galera. Mentre chi tenta la via parlamentare
deve rinunciare, com’è accaduto stavolta ad Ahmed Tantawi e Gamela Ismail,
entrambi ritirati per timori di ritorsioni. In quest’ultima tornata l’opposizione
era rimasta immobile. Lacerata, autoafflitta da beghe interne e dall’impossibilità
d’una politica normale. Si tratta dei gruppi associati nel cosiddetto Movimento Democratico Civile - fra cui l’Alleanza socialista, Karama, Comunisti, Nasseristi, Dostour,
Conservatori - che già a settembre,
prima che Tantawi si proponesse, si spintonavano a vicenda. Per cosa? Non si
capiva. Dai non numerosi incontri neppure gli addetti ai lavori tiravano fuori
questioni pregnanti. Era apparsa una spaccatura interna con accuse di
‘autoritarismo e fascismo’ lanciate addosso da alcune componenti. Alla vigilia
delle elezioni la testata Mada Masr aveva
raccolto qualche nota degli scontenti che rinunciavano al voto, dissentivano da
chi crede ancora possibile un dialogo con l’apparato di Sisi.
Il ‘Dialogo nazionale per democrazia
interna’
(piano da lui lanciato nel 2021) è fallito, così il nasserista Sabahi criticava
la scelta di Zahran di presentare la candidatura. Eppure nel 2014 l’aveva presentata
lui stesso, ma a detta dei fedelissimi allora si poteva sperare in
un’alternativa. Ora non più. Allora non si comprende la disponibilità di
nasseristi e sodali di far passerella politica. Una cruda realtà non rivelata è
che dietro la volontà, propria e di qualche fan, questi leader sono nullità. Presiedono
partiti diventati gusci vuoti, sicuramente anche per il terrore diffuso dalla
repressione di regime. Che tollera un pluralismo di facciata, prosciugato di
valore e valori, di programmi e progetti, spesso di aderenti e attivisti,
lasciando i capi e qualche collaboratore a testimoniare una vitalità. Ma è una
vitalità millantata. Così Sisi ha campo libero. Stravince alle urne, accresce il
consenso per la tendenza popolare a schierarsi col più forte. Ed è sempre il
Sisi dei 60.000 prigionieri politici. Degli omicidi a tappeto nel triennio
2014-2016 fra cui l’assassinio di Regeni. Dell’omertosa copertura ai quattro mukhabarat assassini. Ma questo lo
rammentano solo le coscienze critiche di certi oppositori, incarcerati oppure
esuli. Chi li sostiene ha boicottato senza mezzi termini la presunta “parata di
democrazia” elettorale. Sono gli attivisti del Movimento socialista rivoluzionario che hanno invitato gli elettori
a non recarsi alle urne. Hanno accusato di collaborazionismo i tre candidati e anche
i loro partiti, sostenendo come i tre anni di ‘dialogo nazionale’ hanno dipinto
una falsa realtà. Sono fra i pochi a denunciare una povertà interna senza
precedenti, una crisi economica tempestosa, tassi d’inflazione che mettono in
ginocchio la maggioranza dei cittadini, compresi larghi strati d’un ceto medio
ormai azzerato. Parlano di resilienza alla quale aggrapparsi per resistere, mettendo
nello stomaco ormai non si sa cosa. L’arte dell’arrangiarsi incombe sempre più
nella quotidianità egiziana.
Proprio il disastro economico doveva
rappresentare
il fulcro d’una contestazione al ‘decennio sisiano’ da parte del trio che
ambiva di oscurare il presidente. Nessuno ha trattato questa nota dolentissima
per milioni di cittadini che si privano di carne (la mangiamo ogni quindici giorni, di più non possiamo permettercelo
dichiarava una donna del ceto medio intervistata dalla Bbc). Addirittura la frutta, di cui i terreni egiziani sul Delta e
attorno al Nilo sono ricchissimi, giunge al mercato a prezzi esorbitanti,
diventando un lusso. Voto o non voto, a inizio dicembre, l’inflazione attestata
al 40% era destinata a crescere. Il Paese, che ha un debito estero di 165
miliardi di dollari, cerca di attirare capitali stranieri, sebbene il governo abbia
sperperato fondi nei progetti faraonici della New Cairo, utili solo a ristrette
élite vicine al ceto politico. Lì sono finiti miliardi raccolti per l’emergenza
Covid, anziché costruire ospedali sono serviti per uffici e abitazioni di lusso.
Una parte dei finanziamenti per la magnificenza della nuova sede
amministrativo-politica giungono dalle petromonarchie, ma tante strutture
pubbliche (uffici, servizi, scuole) versano in stato d’abbandono senza che il
governo ne risponda o si crei scrupoli. Insieme a salari bloccati, prezzi alle
stelle, inflazione galoppante ci sarebbero ottimi motivi per rilanciare
proteste. Eppure tutto tace. Molti media internazionali hanno archiviato notizie
sulla repressione, che ha raggiunto picchi sanguinosissimi e poi è riparata
nella rimozione di responsabilità. Nella pratica degli arresti ‘stop and go’ che
prevedono ingressi, uscite e rientri nelle galere all’infinito, e processi
altrettanto eterni. Così per un Patrick Zaki che riacquista la definitiva
libertà, Sisi lascia in prigione migliaia di casi simili. Di questo non si
parla. Anche talune Ong dei diritti non appaiono così puntuali nella denuncia.
All’interno del Paese nulla si muove perché un’intera generazione di attivisti,
oggi trentenni e quarantenni, laici e islamici, marcisce nelle carceri speciali
e nei bracci della morte. Le pratiche repressive hanno stroncato ogni rilancio
di democrazia.
Del resto il ruolo di sicurezza nella
geopolitica mediterranea che l’Egitto ricopre su indicazione statunitense
ed europea, coi finanziamenti di Emirati Arabi e Arabia Saudita, lega il
governo cairota agli ‘Accordi di Abramo’, seppure al momento congelati dalla
guerra Israele-Hamas. L’Egitto non era direttamente coinvolto in quel patto, che
prevede uno scambio di energia e tecnologia fra Tel Aviv da un lato e Riyad-Dubai
dall’altro. Per quanto il ministro del commercio emiratino dica di non voler mescolare
affari e politica, gli affari sono di per sé politica. Le grandi potenze non
praticherebbero embarghi e boicottaggi economici se si guardasse esclusivamente
ai capitali. Infatti gli ‘Accordi di Abramo’ rappresentano il nuovo capitolo di
normalizzazione delle relazioni di Israele col mondo arabo, dopo
l’avvicinamento del secolo scorso avvenuto con Egitto e Giordania. Con la crisi
degli ostaggi sequestrati da Hamas e le conseguenti trattative in cui primeggia
un altro potentissimo emiro smanioso di protagonismo, il qatariota Al Thani, anche
Sisi s’è ritagliato uno spazio. L’aiuta il
fattore geografico: Rafah rappresenta l’unica porta da cui far transitare soccorsi
alla popolazione di Gaza, bombardata giorno e notte dall’8 ottobre. Le aperture
del valico sono state limitatissime, assolutamente insufficienti a detta di
agenzie Onu, strutture umanitarie e sanitarie internazionali che parlano di
condizione apocalittica nella Striscia, con rischi di ulteriori decessi (quelli
inferti da Tsahal a oggi sono
ventimila) per infezioni, freddo, fame. I due statisti arabi che conducono patteggiamenti,
solo in alcuni casi fruttuosi, coi rappresentanti di Israele e del Movimento Islamico di Resistenza, sono
stati scelti per interesse delle parti in causa. Netanyahu accetta di ampliare
la cerchia delle amicizie fra le petromonarchie, come ha fatto coi protagonisti
dell’accordo del 2020 (Arabia, Emirati Arabi, Bahrein). Haniyeh, da tempo
trasferitosi nella capitale qatariota, trova lì un sicuro rifugio e finanziamenti
per il mantenimento degli apparati del partito nella Striscia e in Cisgiordania.
Entrambi non pongono veti sull’uomo forte egiziano proposto dagli americani. Al
Thani e Sisi, in poco tempo hanno addirittura scalzato il presidente turco
Erdoğan, negli ultimi anni pilastro dell’azione e della mediazione, dal Mashreq
libico al Medioriente siriano. Washington - protettore pur se in qualche caso
critico di Tel Aviv ma mai suo oppositore, come dimostra il veto posto al
Consiglio dell’Onu alla mozione d’interruzione dei bombardamenti sui civili
della Striscia - non vuole offrire ad Ankara un posto chiave nella crisi.
Memore forse degli attriti d’una dozzina d’anni addietro per l’arrembaggio a Mavi Marmara. E se quel momento è roba
passata, ora nel Mediterraneo orientale ci sono in ballo lo sfruttamento delle
Zone economiche esclusive, da cui proprio la Turchia è esclusa a vantaggio di
Grecia e Cipro, e conseguenti pattugliamenti armati. Insomma l’odierna Mavi Vatan, la Patria blu turca, può
diventare più ingombrante, dunque è meglio limitare. Sebbene quel ch’è tenuto
fuori dalla porta di Gaza potrà rientrare dalla finestra libica, dove il
balletto dei presidenti mattatori può spingere nell’angolo il Sisi mediatore mondiale.