Festeggiano gli erdoğaniani perché un pezzo della grande paura sembra alle spalle.
Festeggia il clan familiare di Recep Tayyip, con Emine la consorte velata, e
Bilal il figliolo delle imbarazzanti intercettazioni a tema miliardi. Tutti stretti
sul palco. Applauditi dalla folla proprio nell’Istanbul dai due volti che ha
provato a mettere un altro uomo al posto del sindaco dell’Akp. Ma Kadir Topbaş pare debba essere
primo cittadino, come Melih Gökçek nella capitale. A suon di consensi e di
forzature, basate su schede contestate, secondo gli oppositori anche
contraffatte, in un clima accesissimo. Infiammato da pressioni e intimidazioni
verso elettori e osservatori internazionali, cui in vari casi s’impediva o
ritardava l’accesso nei seggi. Molti episodi sono stati lamentati nelle
metropoli e in parecchi centri del sud-est con denunce provenienti da chi, come
il Bdp, lì è primo partito. Non è normale, però non c’è da meravigliarsi perché
attorno a questa scadenza convergevano un’attenzione e una tensione altissime. Il
premier ha evitato crollo e tracollo, suo prima che del partito. L’allarme
rosso sarebbe scattato con una perdita di 8-10 punti di percentuale, che pur
consentendogli il primato ne avrebbe di molto ridimensionato le ambizioni.
Il blocco d’ordine, la voglia di
sicurezza e il sogno turco
di espansione e benessere, capitalistico, mercantile, consumistico, d’impianto
statale o liberista importa parzialmente - anche perché secondo il costume
occidentale i businessmen del Bosforo e dell’Anatolia fanno profitti anche con
lo stato e gli altri stati - ha avuto la meglio sulle diverse voci. Anche i
candidati alternativi delle due piazze maggiori: Mustafa Sarıgül a Istanbul, e Mansur
Yavaş ad Ankara, sono dipinti dalla stampa repubblicana rispettivamente come un
populista e un nazionalista seppur moderato. Due tratti che cercavano di
erodere la popolarità di Erdoğan nel suo stesso bacino elettorale. E visti i testa a
testa per un aspetto ci sono riusciti. Il ceto medio metropolitano che
s’acquatta col più forte, potrebbe lasciare il sultano alle sue disgrazie se la
vita politica del leader dovesse complicarsi. Ma c’è una Turchia che non
l’abbandona. Quella su cui dodici anni di pragmtismo fideistico-amministrativo
s’è radicato a fondo, legando un modello a uno status quo che cementa botteghe,
ruoli, impieghi, sistemazioni personali e di gruppi, un mondo che i “tengo
famiglia” di Turchia non vogliono gettare al vento. Anche perché ricordano da
dove venivano.
Solo a metà degli anni Novanta l’uomo della strada
turco, conosceva condizioni di vita
meno gradevoli in città come in campagna. Un aspetto che continua a tener
presente quando deve recarsi nell’urna. Quest’uomo ha visto periodi in cui tale
prerogativa era congelata, e fra l’autoritarismo delle divise e quello oggi
proposto dal sultano a suon di divieti a stampa e social network, o di
orientamenti islameggianti su vestiario e cibo, quest’ultimi sembrano terribili
solo alle giovani generazioni che non hanno incrociato i generali. Ovviamente,
assieme alla polizia, agli apparati dell’Intelligence l’attuale governo sta
egualmente utilizzando simili servigi. Però. Però il tema della censura e del pericolo
della democrazia non hanno tuttora pagato. All’appuntamento presidenziale di agosto,
ai risvolti costituzionali di quella scadenza, a Erdoğan, servono però numeri e l’attuale 44 o 45% non gli
garantisce certezze. Pur avendo come potenziali avversari figure di calibro
minore, egli dovrà contare sul 50% più un voto,
che difficilmente verranno dai serbatoi socialdemocratico e nazionalista
o dalla polverizzata componente marxista. Resta il Partito della Pace e della
Democrazia, che ha riscontrato ottimi risultati nell’urna.
Il suo patrimonio elettorale è attorno al 5% nazionale, che concentrato nei distretti del sud-est produce
gli altissimi effetti a cifra doppia. Quella fetta di cittadini consentirebbe a
Erdoğan l’incoronazione a presidente, e coi dovuti accordi
potrebbe anche trasformare in senso presidenzialista la Carta Cotituzionale.
Un’operazione bloccata quattro anni fa dallo 0,20% politico che gli mancò per
un en plein assoluto e che venne anche ipotizzata da praticare con l’aiuto del
Bdp, per poi fermarsi attorno a taluni punti dibattuti nella Road Map di Öcalan. Tutto ciò rientra in gioco. I poco amati kurdi
diventano una pedina importante per le sorti della nazione turca, piaccia o
meno a kemalisti e islamici.