venerdì 10 ottobre 2025

Esserci

 


Un pizzico di Storia, ottocentesca, non del Novecento, quando il nazionalismo era anche un insieme d’ideali e non solo d’assatanato militarismo, sebbene si servisse dei bersaglieri di Lamarmora, la Giorgia nazionale in queste ore deve averla ripassata. Magari una ‘lectio Bignami’ fornita dal fido tuttofare Fazzolari oppure da un erudito vero come il ministro Giuli. Ed ecco che vuole esserci alle trattative del dopo conflitto di Gaza, come se fosse il conte piemontese nella Parigi del 1856. Senza neppure aver spedito truppe. Al più, se servirà, arriveranno in seguito. Vuole esserci Giorgia Meloni non per fare l’Italia come Cavour, ma il “made in Italy” che oltre il parmigiano è merce Fincantieri e Leonardo, le nostre punte di lancia dell’economia nazionalista. E visti gli sventramenti dell’amico Netanyahu, nel progetto di ricostruzione ne trarrebbe vantaggio l’impresa edilizia e ingegneristica. Lo garantisce il “Piano Mattei”… Ormai diventato la formula passepartout per ogni passetto intercontinentale della premier che finora vanta precedenti su strategie di contenimento della migrazione, verso l’Italia, ed energia. Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo le nazioni inizialmente coinvolte. Eppure, a inizio di quest’anno, queste sono le considerazioni di Aspenia (rivista che s’occupa dei rapporti fra Usa, Europa e le implicazioni internazionali): “Il Piano Mattei presenta alcune debolezze, in particolare la mancanza di risorse economiche adeguate ai progetti avviati o impostati. Attualmente, il governo italiano ha messo a disposizione circa 5,5 miliardi di euro, tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo Italiano per il clima e 2,5 miliardi dei fondi della Cooperazione allo sviluppo. È evidente che uno stanziamento di 5,5 miliardi di euro, distribuiti su sei settori di intervento e su un minimo di nove Paesi pilota, non può ritenersi sufficiente per affrontare in maniera efficace le ambiziose sfide che il il piano si propone”… “I progetti stessi vengono citati in termini generici, senza fornire dettagli concreti sull’entità delle risorse, sulla loro provenienza né sulle modalità di erogazione. Tale vaghezza solleva dubbi sulla reale portata dell’impegno e sulla capacità di tradurre le intenzioni dichiarate in azioni efficaci e coordinate”.

 

 

Allora cos’ha fatto Palazzo Chigi a inizio 2025? Seguendo la logica del “più siamo, meglio stiamo”, magari appresa dal barcarolo della domenica durante una gita al Lido di Ostia,  ha imbarcato altri cinque Paesi (Angola, Ghana, Mauritania, Senegal, Tanzania) appoggiando l’apertura sul Global Gateway, lanciato nel 2021 dall’Unione Europea, per contrastare la cinese Via della seta’. Per la cronaca Global s’interessa di clima, energia, digitale, trasporti, salute, istruzione e ricerca rivolte al mondo intero, non necessariamente al continente africano. Ancora dubbi nel luglio scorso sulla programmazione sempre del “Piano Mattei”. Questo scrive la testata InfoCooperazione: “Molte iniziative del “Piano Mattei” risultano ancora in fase di definizione o avvio. La trasformazione di queste in risultati tangibili per le comunità locali è il vero banco di prova della sua efficacia. Inoltre nulla si dice rispetto agli strumenti di misurazione dell’impatto che verranno utilizzati per valutare le iniziative… Nessun progresso sul fronte della trasparenza. Dei progetti si sa poco o nulla al di là dei titoli e dei comunicati stampa che invece proliferano. Non esistono documenti di progetto, delibere e atti amministrativi che possano informare gli stakeholders e l’opinione pubblica sulla destinazione dei fondi. A due anni dall’avvio del Piano non esiste ancora un sito internet dedicato che raccolga le innumerevole iniziative”. Ma la premier del fare finta, poteva mancare all’ennesima vetrina predisposta in questi giorni dalla cosiddetta Pace trumpiana per Gaza? La risposta è già nella cronaca. La Farnesina sta disponendo la presenza dl Primo Ministro italiano alla firma dell’Accordo previsto per lunedì prossimo al Cairo. Il nostro governo annuncia una possibile entrata della Meloni nell’Ufficio per la ricostruzione predisposto da Tony Blair “Se ci verrà chiesto un contributo, siamo pronti a stare in prima linea” dice lei. E gongola, meditando interventi nelle infrastrutture e magari, eccoli finalmente gli epigoni di Lamarmora, anche la presenza di truppe. Cosa che ringalluzzisce il ministro Crosetto che mette in preallarme Esercito e Aeronautica. Vedremo se sarà una scossa agli affari di chi fa già affari col cemento (WeBuilt, che è sempre Impregilo, Pizzarotti, Percassi, Fincantieri Infrastrutture ma ce ne sono altri). Bisognerà anche vedere quale tangente, ops! dazio, prevederà di far pagare la coppia Kushner-Trump che pilota il business.

giovedì 9 ottobre 2025

Pace del Novecento

 


Dicono pace, forse sarà appena tregua. Col rilascio di prigionieri, i quarantotto israeliani vivi e morti, i millenovecento palestinesi rinchiusi da mesi o anni, ma non i simboli: Bargouthi umiliato dal ghigno di Ben Gvir, Saadat l’ultimo marxista nelle trincee di Palestina. Con l’ingresso di viveri per i due milioni di esseri avvizziti da fame e sete. Ovviamente è festa ovunque. Fra chi spera, ma non è detto perché anche stamane dal cielo pioveva fuoco, che si blocchi lo stillicidio di morte. E che duri, non come sei mesi addietro quando durante la cessazione del piombo, l’Idf riprese a massacrare. Gioiscono a Tel Aviv i parenti degli ostaggi e pure chi potrà dare sepoltura ai cadaveri, non ringraziano il da loro detestato premier. Il merito lo prende l’alleato Trump che punta a entrare nella Storia col Nobel mentre sottobraccio al genero Kushner pregusta gli affari d’oro sul lembo di terra chiamato Gaza, sedimentato d’antica convivenza e trasformato in colonia e poi prigione dall’equivoco modello del Novecento che è Israele. Dato da alcuni studiosi, come l’Europa sua animatrice, al capolinea (Pappé - La fine di Israele, Foa - Il suicido di Israele), ma ostaggio, è il caso di dirlo, della sua presunzione di giustezza. Che non è giustizia per la gente di Palestina, contro cui anziché convivere gli ebrei del mondo convenuti dalla fine Ottocento ad affiancare i consanguinei lì stanziali, praticavano soprusi, ruberie, terrorismo. Cosa sono stati i padri del sionismo, dai laburisti Ben Gurion e Rabin ai non celati proto reazionari alla Zabotinsky e Begin è descritto dalla storia novecentesca, a meno che non ci s’impone di cancellarla, sotterrarla, farla sparire sotto le bombe dell’Haganah scuola d’avvìo d’ogni “statista” di Israele. Oppure manipolarla col negazionismo che sta nutrendo le nuove generazioni degli infoiati delle colonie. Cresciute a dismisura dagli anni Settanta, epoca essa stessa di paci (1973) e poi di Accordi (1993) tutti disattesi, perché la tensione nella terra chiamata da millenni Palestina ha gettato nel Novecento semi di squilibrio e iniquità tutti rivolti a senso unico anche per mano di chi tornava in quei luoghi sull’onda degli orrori subìti. Ulteriori termini del “Piano di pace” come piace definirlo al regista Trump, che già promette a breve un viaggio fra le macerie, i temi più scottanti: il ritiro di Tsahal dalla Striscia, il disarmo di Hamas, uno schieramento bellico internazionale sul territorio, verranno tutti discussi in seguito. Probabilmente sempre sullo scenario qatarino con la presenza dei mediatori turchi, sauditi, egiziani. Resta ciascun dubbio suscitato dai ‘venti comandamenti’ imposti dal presidente statunitense alle trattative sul futuro della popolazione sopravvissuta. Come rimane scolpita l’immagine dell’immenso cimitero che il l’eterno Novecento di guerra d’una geopolitica appassionata alla morte si trascina: 1.180 civili e 700 militari israeliani uccisi, 67.000 palestinesi gazawi, l’80% civili, ammazzati. Per tacere di chi può sempre crepare per le tare di corpi sfibrati. Un genocidio in atto, hanno dichiarato giuristi internazionali, l’ennesimo di quel Novecento infinito esteso all’altrui estinzione.  

lunedì 6 ottobre 2025

Elezione senza elettori

 


Vota la Siria, non i siriani che sono fuggiti, profughi, rifugiati, da almeno dieci anni. C’è naturalmente chi è rimasto, un manipolo di loro andrà alle urne a scegliere candidati sedicenti indipendenti per riempire 140 seggi del nuovo Parlamento, altri 70 saranno cooptati direttamente dal traghettatore di questa fase di transizione, iniziata dieci mesi or sono con la cacciata di Bashar Asad. Lui è il presidente ad interim Ahmad al-Sharaa, un tempo al-Golani, convertito alla democrazia per quanto pilotata, un po’ dalle coordinate internazionali che ne sostengono l’operazione: dalla Turchia alle monarchie del Golfo, col benestare degli Stati Uniti e pure d’Israele, che lo tiene sotto scacco per i confini occidentali oltre le Alture del Golan e per il patrocinio, reale o presunto, della comunità drusa. Un po’ dal suo stesso approccio che punta con queste consultazioni a ridare fiato al sistema dei capi locali, di provincia, tribù o bastone. Un sistema arcaico mediorientale adottato da vari dittatori “socialisteggianti” che nel secolo scorso hanno sotterrato i sogni d’un socialismo arabo e terzomondista. Roba vecchia in veste nuova. Eppure la popolazione coinvolta, soprattutto nei centri urbani maggiori, dalla capitale ad Aleppo e Latakia, spera in un rilancio dei rapporti e della vita, oscurata per anni da un conflitto sanguinario, che solo l’attuale genocidio israeliano verso i gazawi sta superando. I candidati da eleggere sono oltre 1.500, sono stati vagliati da al Sharaa in persona e dagli undici membri del Comitato Supremo per le attuali elezioni, formato da elementi scelti dallo stesso presidente. Una partita di giro che smentisce qualsiasi libero arbitrio. Sono nove uomini e due donne, Lata Shaher Aizouki, giornalista senza chador e Hanan al Balkhi, ex ambasciatrice in Norvegia e membro assai fedele del Consiglio Nazionale Siriano. 

 

Fra le barbe e i doppiopetti compaiono un ex ministro, ovviamente non del passato regime bensì degli organismi provvisori di Idlib, un giudice, un ministro dell’educazione sempre dei territori ribelli del settentrione siriano, e poi dei professionisti, un radiologo, un dentista (la nuova leadership tine molto a rilanciare i settori della salute e dell’istruzione), altri duri e puri ex esponenti dell’Esercito Siriano Libero e anche un attivista kurdo. Manca un esponente alawita e la stessa comunità concentrata nella fascia costiera occidentale, già punita fra febbraio e marzo scorsi per un tentativo di ribellione, ha denunciato l’ennesima intimidazione col misterioso assassinio di Haidar Shahin, candidato per l’area di Tartous, ammazzata avvenuta a fine settembre. L’astensione da qualsiasi voto da parte degli alawiti è data per certa, come pure la lontananza dai seggi e dalla loro conduzione dei kurdi del nord-est, sebbene nei mesi scorsi ci sia stato un accordo per inglobare le Unità di Protezione Popolare e le Forze Democratiche Siriane, che agivano nel territorio del Rojava, nel nuovo esercito siriano, rilanciato attorno al solido nucleo di Tahrir al Sham, la creatura militar-politica dell’allora al Golani. La nuova Siria va veloce, e al Sharaa con lei, seppure all’inizio del nuovo corso ha promesso di mettersi da parte appena la nazione avesse assunto una transizione tranquilla, che in fondo finora non c’è stata per i venti di guerra agitati anche contro questo territorio da Israele. Il ritorno alle urne, sebbene coi limiti illustrati, doveva servire a questo, visto che finora una certa normalità la vive solo il bazar. Mentre i vertici, pur provvisori, attendono ulteriori cordialità dai finanziatori internazionali soprattutto per rilanciare investimenti e lavoro davanti a una corposa disoccupazione che sfiora il 40% degli attuali ventiquattro milioni di cittadini. Certo, i laici, le minoranze che non si riconoscono nell’islam oltranzista temono norme regolate dalla Shari’a, è il verbo che la popolazione anche islamica spera di discutere fuori da conflitti.

domenica 5 ottobre 2025

Mani su Gaza city

 


Mentre il pacificatore Trump osserva l’orologio con cui ha dettato l’ultimatum delle 72 ore “dopodiché si scatenerà l’Inferno” (sic) e mentre s’attende l’accettazione di Hamas dei venti precetti del piano stesso, c’è chi lavora per la Striscia del domani. E’ l’affarista di ritorno Tony Blair prestato per anni alla politica quale premier britannico, senza che i laburisti comprendessero chi avevano lanciato a Downing Street, neppure quando il progressista dal sorriso di stucco affermava che bombardare col fosforo bianco la gente di Baghdad fosse la cosa giusta. E’ lui che sta disegnando lo staff per il ‘Transito Internazionale di Gaza’ infarcendolo di miliardari dai cuori di cemento che s’occuperanno, è il caso di dirlo, d’una creatura a misura di interessi geo finanziari per il quali il tycoon della Casa Bianca ha già scelto il genero Kushner. Israele, Egitto e Stati Uniti sono le nazioni da cui provengono tre fra i faccendieri assemblati da Blair, sebbene non annunciati ufficialmente. Si tratta dell’imprenditore e rabbino Aryeh Lightstone, ultimamente creatore di Gaza Humanitarian Foundation l’organismo privato sostenuto da Tel Aviv e Washington che ha sostituito le agenzie Onu nella distribuzione delle derrate alimentari nella Striscia. L’ha fatto in maniera talmente canagliesca, provocando fra l’altro l’uccisione di duemila persone, a tal punto che Medici senza Frontiere l’ha definito un “sistema di fame istituzionalizzata e disumanizzazione”. Lightstone è stato collaboratore di David Friedman, nominato nel 2016 ambasciatore statunitense in Israele, e da quel ruolo aperto sostenitore degli insediamenti coloniali nei territori palestinesi; ora affianca l’inviato per il Medio Oriente Witkoff. Noto per essere un severo critico delle Nazioni Unite Lightstone si è a lungo prodigato a sostenere società come Shining City Community impegnata nella protezione del sionismo attraverso finanziamenti internazionali convogliati in forma anonima. 

 

Il settantunenne tycoon egiziano Naguib Sawiris, noto in patria come mister dieci miliardi di dollari, è un figlio di papà che fa fruttare lo status di famiglia tramite amicizie affaristiche che s’interfacciano col Medioriente più danaroso, quello delle petromonarchie, e joint venture sparse per il mondo geopolitico. Suo padre Onsi fondò Orascom, impresa per l’edilizia divenuta il primo conglomerato multinazionale egiziano. Nel mondo che si trasforma Sawiris s’è allargato alle telecomunicazioni, ha creato Mobinil, ora Orange Egypt, operatore della prima rete mobile del Mashreq e dal settore minerario ha fatto brillare i suoi occhi sull'industria dell'oro creando la holding La Mancha con sede in Lussemburgo. I suoi legami con Blair sono di vecchia data, prima di inviti e abbracci per il matrimonio del rampollo di casa Sawiris, Ansi, i due trattavano affari in genere in luoghi glamour. Noti gli scatti di paparazzi, a caccia di scoop fra i vip, che li ritraevano presso la villa Certosa di Berlusconi e dimore lussuose in Costa Azzurra. Appassionati di denaro e di sfondi marini Naguib e Tony s’incontravano a Mykonos magari anche per trattare della “ricostruzione dell'Afghanistan” un piano dove il primo proponeva gli appalti del suo Orascom e il secondo ne assecondava l’agibilità trattando coi governi-fantoccio Karzai e Ghani che le missioni Nato sostenevano. In un momento d’insana follìa Sawiris aveva pensato anche di fondare un partito (dei Liberi Egiziani) in patria, sebbene trascorresse gran parte delle sue giornate a Dubai o New York. Ci ha ripensato quasi subito, visto che la lobby militare non gradiva ingerenze, e lui sostenitore dell’impresa e dei profitti realizzati a braccetto col Potere e non contrapponendosi a esso ha continuato a curare i suoi interessi non quelli del popolo né del Paese. A curare i propri guadagni, pur sotto le stelle e strisce e sotto la stella di David c’è il terzo uomo, Marc Rowan, uno dei finanzieri più ricchi di Wall Street, anch’egli mister 10 miliardi di dollari a detta di Bloomberg. 

 

E’ un sessantatrenne ebreo d’America, amministratore delegato di Apollo Global Management, società di gestione patrimoniale, che tratta tutto ciò che il linguaggio finanziario (capitale mezzanine, hedge fund, prestiti non performanti e via cantando per iniziati) mantiene misteriosamente baluginante per ricconi in apparire e divenire. Viene descritto quale esperto di ‘spietati profitti a tutti i costi’ un biglietto da visita assai più inquietante di quel che traspare dai traffici delle sue faccende. Fra operazioni finanziarie che tanfano di ruberie Rowan s’è descritto in alcune interviste come un “orgoglioso sostenitore di Israele e del suo esercito”; definisce “il nostro Paese come il nostro rifugio, un luogo unico e speciale per noi che siamo il popolo eletto”. Intanto ha sganciato un milione di dollari per l’ultima campagna presidenziale di Trump. Meno esposto il quarto personaggio suggerito da Blair: l’olandese Sigrid Kaag, tecnocrate europea che ha ricoperto il ruolo di coordinatrice umanitaria e di ricostruzione senior delle Nazioni Unite per Gaza dalla fine del 2023 alla metà del 2025. In precedenza è stata funzionaria delle Nazioni Unite a Beirut, Damasco e Gerusalemme, nonché ministro nel suo paese d'origine, i Paesi Bassi. In patria Kaag aderisce al Partito liberale, e, bontà sua, ha definito quel che accade a Gaza: “una macchia sulla nostra coscienza collettiva”. Parlando del suo lavoro di gestione degli aiuti a Gaza ha affermato che Israele ha “gravemente traumatizzato e privato la popolazione di tutto ciò che costituisce dignità umana”. Rispetto alle altre figure proposte da Blair, può rappresentare la perfetta maschera dietro la quale celare il desiderio di bracconaggio che il mondo trumpiano predispone parlando di pace. Oppure continuando a esprimere simili concetti avrà sicuramente vita di rappresentanza breve. Anzi brevissima.



sabato 4 ottobre 2025

Meglio idealisti che servi dei sionisti

 


Il poker dei complici di genocidio è lì sui cartelli, inchiodato dalla propria protervia, in perfetta formazione governativa: Meloni la premier, Tajani ministro degli Esteri, Crosetto ministro d’una Difesa già convertita in Guerra, Salvini ministro jolly, che dalle Infrastrutture parla d’ogni cosa tranne che pensare a quelle. Il milione della piazza romana li condanna per complicità coi crimini di Netanyahu, per sudditanza a Trump e ai voleri della Casa Bianca con inchini addirittura più servili dei trent’anni ininterrotti del potere Democristiano nel secondo Dopoguerra. Dopo giorni di montante mobilitazione le piazze italiane continuano a tener botta, a rilanciare, a ritrovarsi ancor più numerose, e rumorose, e ritmanti negli slogan come all’epoca di antiche militanze, ma pure danzanti, gioiose, coraggiose se serve battersi contro gli uomini in plexigrass quando menano. Una piazza rafforzata attraverso tre generazioni. Anno 2025  l’opposizione solidale ritrova una forza dirompente; quella sociale, ieri presente nei richiami dai megafoni potrà compattare sé stessa come ha fatto durante lo sciopero del giorno precedente. Uno sciopero vero, nazionale e internazionalista, uno sciopero del cuore e del sentimento, rosso come il sangue dei martiri di Gaza. Uno sciopero politico – era ora – senza il sindacalismo filogovernativo al seguito che per troppi anni ha svilito la Cgil. Cobas, Usb, altre sigle delle rivendicazioni di classe hanno direzionato quella protesta, che trova quell’eco geopolitico che i partiti dell’opposizione non sanno offrire o prestano a singhiozzo. E soprattutto con un’ambiguità autoreferenziale come hanno mostrato negli ultimi anni rispetto a un’Unione Europea guerrafondaia e filo americana. 

 

A Porta San Paolo, dove ogni 25 aprile si riunisce la Roma antifascista, la cittadinanza d’opposizione s’è abbracciata con speranza e indignazione. La speranza di non essere ancora sotterrata dalla partitocrazia d’ogni colore che decide sulle proprie teste. L’indignazione di chi dopo una vita di lotte si ritrova governato da neo fascisti, per l’assenza di progettualità da parte di chi sostiene d’essere un’alternativa, senza ammettere decenni di fallimenti. E’ la gente che non vota più, se non il 50% almeno quel 30% che potrebbe costituire il primo partito d’Italia, più del mix di neofascisti e maggioranza silenziosa che elegge Meloni per ricevere i “buoni” di ritorno di quel clientelismo che l’attuale premier ha ereditato da Berlusconi. La massa di strada, i volti colorati e pure quelli attempati e canuti, sono pieni di vitalità e non vogliono posizionarla negli armadi della memoria. Hanno sventolato le proprie bandiere, rosse assieme a quelle a più colori della Palestina, ricordando che quello Stato mai nato, quella terra occupata da Israele, quel popolo orgoglioso non può essere affamato e trucidato. Non può essere ridotto a merce di scambio dai capitalisti arabi collaborazionisti d’un rilanciato imperialismo. I palestinesi non possono finire profughi in miserabili campi com’è accaduto dal 1948. Altro che 7 ottobre, la tragedia data 14 maggio, settantasette anni addietro. Sull’onda d’un riscatto solidale verso i fratelli palestinesi, l’Italia dell’opposizione, quella reale e non parolaia, cerca una sua dimensione. Si può rifiorire in mezzo al Mediterraneo, si possono spiegare bandiere sociali al vento come le vele della Sumud Flotilla. “Meglio idealisti che servi dei sionisti” recitava un cartello. Quest’Italia degli ideali può dare l’assalto al Paese del potere, dei palazzi, delle camarille, delle istituzioni asservite. “Vaffanculo governo Meloni” gridavano ragazzi con la luce negli occhi. E’ nelle strade che questo popolo può ritrovare l’onorabilità che Palazzo Chigi ha svenduto, solo con la lotta ritrova decoro e dignità. 

 


 

venerdì 3 ottobre 2025

Sciopero e scioperati

 


Sentenzia, dall’alto della carica acquisita a suon di consensi nell’urna, la premier Meloni: “Mi sarei aspettata che i sindacati almeno su una questione che reputavano così importante non avessero indetto uno sciopero di venerdì, il week end lungo e la rivoluzione non stanno insieme”. Ce l’ha con gli odierni scioperanti, quelli che s’alzano all’alba o in piena notte, aspettano bus sempre in ritardo, coi conducenti che ascoltano lamentele d’altri pendolari del lavoro. Ce l’ha con netturbini e vigili del fuoco, infermieri e carpentieri, addetti alle pulizie e bidelli, impiegati e dottoresse, i pochi operai rimasti e pure le tante partite Iva che però risultano dipendenti anche loro di aziende che li fanno soci o consulenti comunque non protetti. Ce l’ha con l’Italia che lavora l'underdog coi nonni attrice e regista, la sorella d’Italia che fingendo si dipinge borgatara, in realtà solo sorella d’Arianna, colei che tesse il filo al primo partito di governo e al proprio amichettismo familiare. Ce l’ha con insegnanti e studenti, dimenticando quand’era, dicono, studentessa di buon profitto e altrettanto lodevole pagella. Ma fra l’Istituto Vespucci e l’attuale rendita di posizione c’è solo l’appartenenza politica, lunga, molteplice nelle sigle, tutte nell’ultradestra, tutte fiammeggianti (Fronte della Gioventù, Azione Studentesca, Azione Giovani, Alleanza Nazionale) fino al bacio in fronte donatogli dal padre putativo che l’ha elevata alla politica di potere, facendola ministro della Gioventù: Silvio Berlusconi. La più giovane ministra, trentuno primavere. Fra quel 2008 e i precedenti dodici anni, il suo tempo Giorgia Meloni, l’ha trascorso nelle sedi delle citate organizzazioni, più qualche incarico politico fra consigli circoscrizionali e provinciali. Quindi Dirigenze, Presidenze, ovviamente di partito, mai chessò un ufficietto, una scuola per una supplenza, un tour operator dove sfoggiare il patrimonio linguistico. Nulla. In realtà un posto di lavoro Giorgia, l’ha conosciuto fra il 2004 e il 2006, fra due rioni storici romani di Sant’Eustachio e Campo Marzio, presso la redazione de Il Secolo d’Italia, organo del Movimento Sociale Italiano, giornale di partito passato attraverso tutte le campagne d’odio, le stragi del neofascismo, il doppiopettismo almirantiano e poi finiano, fino a conservarsi testata di Allenza Nazionale e ora di Fratelli d’Italia. Lì la militante ormai ventisettenne fece due anni di praticantato per diventare, Ops!, giornalista professionista. L’avevano già fatto i camerati Gasparri e Storace. E prima di loro altri nostalgici piazzati nel carrozzone Rai, quando la Destra italiana si riteneva ostracizzata dal Pentapartito della Prima Repubblica e dalle successive gestioni lottizzatorie delle sinistre di governo. Sta di fatto che, come chi l’ha preceduta in talune magìe della partitocrazia e chi a lei attualmente s’accompagna, la o il, come meglio gradisce, Primo Ministro della Repubblica, mai ha sudato neppure una camicetta di seta, figurarsi una tuta da lavoro salariato. Sarà per questo che come usa nel Belpaese, straparla e giudica sull’altrui occupazione, sul diritto di scioperare, sulle presunte furbizie di chi s’assenta dal servizio per fare il vacanziere. Tutto spesato dal datore di lavoro, senza coscienza, senza morale, senza senso di collettività, senza vergogna. Così dagli scioperanti agli scioperati il passo diventa breve, e nella sua logica Meloni dovrebbe trovarsi in prima fila a manifestare con un vessillo in mano. Se non quello palestinese, il tricolore che dice d’amare e servire con patriottico livore.  


 

giovedì 2 ottobre 2025

Vento di risveglio

 


Braccia sollevate all’arrembaggio per un pezzo della Sumud Flotilla per non finire ammazzati come Cengiz Alquyz, Ibrahim Bilgen, Ali Haydar Bengie, Cegdet Kiliclar, Cengiz Songur, Çetin Topçuoglu, Sahri Yaldiz, Necdet Yildirim, tutti cittadini turchi, e Furkan Dogan, turco-statunitense. Tutti attivisti imbarcati sulla Mavi Marmara appartenente alla Freedom Flotilla, che nella notte del 31 maggio 2010, vennero intercettati e assaltati dalle forze speciali della marina d’Israele. Finirono i loro giorni sotto i colpi d’arma da fuoco del commando israeliano per aver cercato con mani, bastoni e spranghe di respingere quell’attacco che impediva il trasporto di viveri e aiuti umanitari alla popolazione di Gaza assediata. Nei mesi precedenti Israeli Defence Forces aveva lanciato l’attacco denominato Piombo fuso, sedicente operazione difensiva che aveva assassinato 1.300 gazawi, anche in quel caso soprattutto civili e bambini. La comunità internazionale era stata prevalentemente inerte. Gli Stati Uniti erano guidati dal “progressista” Obama, la Lega Araba sollevò le solite proteste di facciata, più dura fu la Turchia di Erdoğan che interruppe per un periodo i rapporti con Israele, soprattutto a seguito dell’uccisione dei suoi concittadini, ma il tempo stemperò gli attriti. A Tel Aviv regnava anche allora Bibi Netanyahu, al suo secondo esecutivo in carica dal marzo 2009 al marzo 2013. In quindici anni la disgregazione mediorientale, nonostante le speranze antiautoritarie delle “Primavere arabe”, è tuttora in corso, e accanto alla soppressione di libertà e autodeterminazione di diversi popoli, l’etnìa palestinese è a rischio estinzione, come e peggio di quanto accadde all’epoca della ‘Nakba’ quando Israele nasceva e, in faccia al presunto progressismo delle comuni dei kibbutzim,  imponeva la logica coloniale del sionismo, peggiorato e regredito nei successivi decenni con punte di ebraismo ortodosso feroce, oltranzista, razzista. Genocida. 

 


In quasi due anni Tsahal ha eliminato 66.200 abitanti della Striscia, ne ha feriti e menomati 169.000, ne ha messi in fuga 400.000, creando da mesi un caotico e defatigante via vai per i 42 chilometri lungo quella costa su cui speravano di approdare i soccorritori pacifisti dell’ultima flottiglia, anch’essa internazionale come nel 2010. Il premier che incentiva la morte e il suo amico presidente, che parlando di pace lo protegge e sostiene, osservano i disperati traslochi degli assediati impossibilitati a scegliere dove riparare. I due si godono lo scempio creato, le morti per fame e sete di corpicini scheletrici, il crollo di neppure sessantenni dalle sembianze centenarie così ridotti dagli stenti sedimentati nel tempo, perché gli stop a forniture, alimenti, medicine sono esistiti anche negli anni passati. Servivano e servono a fiaccare, a scavare corpi, a martoriarli nell’essenza della vita, prim’ancora che nella devastazione della mente. Dall’8 ottobre 2023 il disfacimento del territorio, di strade e palazzi, finanche di tendopoli successive alle demolizioni urbane da terra e dal cielo, fa di quest’umanità dolente un ostaggio ben più grande dei prigionieri catturati da Hamas il 7 ottobre. E’ un impari prova di forza che punta a un futuro di sterminio definitivo forse anche di donne e uomini, certamente della testimonianza d’un popolo. Poiché al di là di sedicente Stato palestinese, gli agglomerati della Striscia e della Cisgiordania, non hanno mai avuto dignità di nazione. Risultano luoghi di prigionìa, più o meno mascherati e perpetuati nel tempo da una politica internazionale che associa anche cosiddetti amici, arabi e islamici, e leadership interne piegate al volere di Israele libero di praticare occupazione e umiliazione. Questo il tema che l’ultima Flotilla ha lanciato via mare, come il classico messaggio nella bottiglia che l’impotenza del naufrago o dell’isolato lancia affinché qualcuno lo raccolga. Nelle ultime settimane ciò che le Nazioni Unite e i potenti del mondo, governi e partiti vigliacchi e ambigui non vogliono trattare, viene afferrato da parecchie piazze del mondo. C’è da sperare che questo vento continui a soffiare. Per mare e per terra.

mercoledì 1 ottobre 2025

Buio a San Siro


Ascoltate Paolo Scaroni, attuale presidente dell’Associazione calcistica Milan, una delle società blasonate della serie A d’Italia (19 scudetti, 7 Champions League e un’altra quarantina di coppe nazionali e intercontinentali) e capirete perché lo sport più seguito e amato del mondo è ostaggio di quelli come lui. Il suo pedigree ne dipinge le doti manageriali all’italiana. Strettamente legato alla politica, e veleggiando lui per gli ottanta si tratta di politica della “Prima Repubblica”, vanta parentele d’area craxiana con Maggie Boniver; amicizie a tre punte: a destra il consigliere economico di An Massimo Pini, al centro il faccendiere andreottiano Luigi Bisignani, a sinistra (si fa per dire) l’ex ministro Gianni De Michelis, legami solidi, solidissimi grazie ai quali passa dai Master alla Columbia University che l’accreditano quale manager all’americana, alla salsa dirigenziale italiana condita in Enel e poi in Eni. Incarichi che nel tempo gli procurano un po’ di grattacapi con inchieste internazionali (Eni/Saipem-Algeria, Eni/Shell-Nigeria) tutte scavalcate con un’assoluzione fra Appello e Cassazione. L’unica macchia è di vecchia data, ancora “Prima Repubblica” e concerne, guarda un po’, le indagini della ciclopica “Mani Pulite” del pool milanese (Borrelli, Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio, Davigo, Greco, Boccassini, Spataro che è come dire: Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Malatrasi, Rosato, Trapattoni, Rivera, Prati… Olè). Con quei campioni, di magistratura, Scaroni incappò in potenziali condanne per tangenti offerte al Partito Socialista, che lui dribblava con un patteggiamento. Trent’anni dopo confesserà che sì, aveva ‘donato’ denaro ai politici. Questo il passato prossimo e remoto. Nel presente il supermanager prestato al calcio milanese, in maniera apparentemente più disinteressata di quel che fecero Berlusconi e Galliani, risponde così nell’odierna intervista de La Repubblica, a corredo della decisione presa a nottefonda dalla Giunta comunale, di cedere la ‘Scala del calcio’ ai club cittadini di Inter e Milan che demoliranno quel monumento per costruire un nuovo stadio. “San Siro è vecchio, ma ha una caratteristica fondamentale, si gusta benissimo il calcio. Nel nuovo stadio gli spettatori saranno più vicini al campo e lo sviluppo ancora più verticale”. Più verticale significa più alto? Azzarda l’intervistatore e poi Chissà chi abita lì… “Gli abitanti possono stare tranquilli perché lo stadio partirà da sotto e pur sviluppandosi in altezza sarà meno impattante”. Due assoluti nonsense, diciamo noi. Se si sta alti si sta più lontani dal campo, e se le altezze strutturali cresceranno il paesaggio urbano ne risentirà. A meno che la febbre del grattacielo diffuso debba diventare il pensiero-unico per un gran pezzo di Milano, nonostante le proteste dei comitati cittadini verso tale scempio definito speculazione. Peraltro una delle tante della Giunta Sala. Rincara Repubblica: A chi parla di speculazione edilizia cosa risponde? “Che da parte di Inter e Milan non ci sarà alcuno spazio per la speculazione. Faremo: un albergo, la sede nostra e dell’Inter, un museo delle squadre e di San Siro (prima abbattuto quindi santificato, ndr) un piccolo centro commerciale di 15 mila metri quadrati, ristoranti e bar. Il tutto immerso nel verde perché deve diventare un luogo da visitare sempre”. Uno stadio un posto da visitare sempre? Mah, basterebbe far svolgere le partite in un clima normale, estirpando la teppa malavitosa che stabilisce controlli su parcheggi, posti in tribuna e curva, con ricatti e minacce alle società medesime, che come quasi tutti i club nazionali, la Lega Calcio e la Federcalcio accettano passivamente. I malviventi  proseguiranno a infestare quel luogo? Repubblica non l’ha chiesto, forse sarebbe stato politicamente pruriginoso. Si parla,  invece, di proprietà e di RedBird, la creatura di Gerry Cardinale, l’imprenditore di Filadelfia, nipote di immigrati, che ha fatto fortuna lavorando per Goldman Sachts. Lui investe e gioca con vari sport nel mondo. Nel calcio possiede Liverpool e Tolosa, spaziando fra Inghilterra e Francia. Negli States i Boston Red del baseball e i Pittsburgh Peanguins dell’hockey ghiaccio. A Milano fa lo stadio e poi vende? chiede Repubblica. “Non c’è nessuna ipotesi di cessione da parte di Cardinale, almeno nel medio termine – tranquillizza, ma mica tanto, Scaroni – lo stadio ci consentirà maggiori entrate, modernità e innovazione. Milano è la città del fare”. Secondo i cittadini dei comitati contrari a quest’ennesimo mattone della speculazione edilizia lanciata dieci anni fa con l’Expò, il fare è in totale assonanza con l’affare del colonialismo dei fondi finanziari. Son loro gli assalti alla vita urbana ed extra, l’occupazione di suolo oltre ogni ragionevole necessità, lo scippo di abitazioni alla popolazione locale a favore d’investimenti asfissianti e turismo lussuoso. Il vecchio calcio ormai sfigurato, serve soprattutto a questo.