Metti
i denari del Qatar, gli apparati marocchini, la voglia di fare
‘grana’ per sé e famiglia di alcuni ex e attuali deputati europei, lo scudo di
Ong di comodo, i grandi eventi che come “le
grandi fortune nascondono sempre grandi crimini”, la voce dal sen fuggita
dell’uomo del pallone, mister Infantino, che dice: Enjoy the football mentre pensa: E non rompete, e ancora altro di cui parleremo ed ecco che la globalizzazione,
data per defunta, appare in tutta la sua vitalità come magnifico cantuccio per
intrighi, intrallazzi, supremazie, meschinità, misfatti. Non che il sovranismo ipernazionale
sia lontano da tali vizi, anzi. Eppure questo è il mare in cui si nuota, compreso
il bel calcio che chi l’ha praticato - pur sui campetti di periferia - può far
sempre sognare. Come accade stavolta a chi guadagna la Coppa e a chi sperava di
farlo: la formazione in rosso di Regragui, che ha vellicato l’ardore e l’amore
di milioni di marocchini e centinaia di milioni di maghrebini, arabi e
musulmani, fossero concittadini ed emigrati. Eppure la stessa passione di calciatori
e spettatori, fa da contorno a ulteriori affari, non solo i cinque o sei miliardi
di dollari di profitto programmati dalla Fifa per la kermesse qatariota. In queste righe inseguiamo
quel che traspare dalle faccende e dai faccendieri della corona di Mohammed VI,
immagine da re buono e altruista, il cui operato da decenni cela anche dell’altro,
ne siano coscienti o meno i sudditi su cui lavora una macchina informativa connivente
col potere. La Direzione Generale per
Studi e Documentazione (DGSD)
comparsa nell’inchiesta della magistratura belga col suo dominus Yassine
Mansouri, compagno di studi, sodale, amico, occhio e orecchio del re nelle
operazioni d’informazione, propaganda, lobbying, corruzione e ciò che potranno
evidenziare le indagini, aveva pregressi e ulteriori strumenti, tutti
mascherati tramite presunte Agenzie di stampa. Agli addetti ai lavori di
qualsiasi versante, manipolativo o di giudizio, certe questioni erano note da
oltre un decennio. Come i personaggi coinvolti.
Così
Maghreb Arabe Presse (MAP) - agenzia stampa
dov’era stato direttore dal 2003 al 2009 Yassine Mansouri seguito dallo 007 a
lui legato, Mohammed Khabbachi, coi quali sono stati in contatto alcuni degli
indagati - serviva non solo a pilotare notizie ma a cercare sponde
geopolitiche. Khabbachi, è stato anche animatore del sito paragovernativo
online Barlamane. Da quelle pagine è
sorto un conflitto con un altro sito marocchino (le Desk) accusato di calunnia. Le
Desk rispondeva usando un’accurata documentazione sul passato di Khabbachi definito,
non solo dai rivali di polemica, metà spia, metà propagandista, parecchio a suo
agio con l’imbroglio mediatico. Eccone il quadro. Sessantasei anni, laurea in Scienze
Economiche presso l’università di Rabat, s’avvicinò al MAP nel 1983 come impiegato amministrativo, restando tale per una
decina d’anni. Quindi entrò in redazione. Nel 1992 si spostava a Dakar per raccogliere
informazioni su Stati centrafricani, nel 2000 divenne capo servizio del MAP e dopo due anni direttore, rimpiazzando
Yassine Mansouri che nel frattempo saliva al vertice della DGSD. Nel 2011 MAP
incappava in un rapporto della locale Corte dei Conti che valutava l’agenzia
priva di “obiettività e indipendenza”
(sic), mescolando l’intento statutario di fornire elementi d’informazione interne
ed estere a uso e consumo del potere con
una meticolosa propaganda pro regime. Insomma i servizi dell’agenzia venivano
meno al ruolo di reale informazione e apparivano espliciti ‘dossieraggi’. Intanto
Khabbachi non c’era più. L’anno precedente l’aveva rimosso il re in persona,
apparentemente senza motivo. O forse i motivi c’erano. Secondo i rumors dell’epoca aveva superato la
misura: s’accreditava addirittura quale confidente di Palazzo e avrebbe potuto
creare problemi nelle relazioni della Monarchia con altri Paesi africani. L’uomo,
però, serviva e - racconta sempre le Desk
- nel 2010 assunse l’incarico di
‘comunicatore’ per il Ministero dell’Interno.
Per
agevolare il suo lavoro Khabbachi usava sempre il canale
mediatico, creò la Sahara Media
Production, trasformata in Sahara
Media Agency. La nuova struttura faceva crescere rapidamente i conti
attorno a forniture televisive verso terzi e vantaggi fiscali nella regione del
Sahara. Per quale fine? Non solo per monitorare il jihadismo crescente nell’area,
dalla Mauritania al Mali, ma per riscontri più sostanziosi. La vicenda, ripresa
in questa fase coi trolley italo-grechi colmi di denaro, di ottenere
un’immagine benevola del Paese maghrebino nella Ue attorno ai diritti umani – non
solo quando si bastonano e torturano i manifestanti del movimento Hirak, ma verso l’autodeterminazione
rivendicata dalla popolazione Saharawi – è questione antica come il trentennale
conflitto col Fronte Polisario. All’epoca in cui gli 007 di Mohammed erano
sguinzagliati in nord Africa cercavano sì accordi con chi lucrava sulle vie di
stupefacenti e migrazione clandestina, ma volevano difendere uno degli interessi
economici maggiori dello Stato: i fosfati presenti nell’ex Sahara spagnolo, di
cui Rabat detiene il 70% della produzione mondiale. Non è un caso che l’Office Cherifien des phosphates, l’azienda
leader del settore, abbia ottenuto di recente un ulteriore ampliamento della
sua capacità estrattiva. L’OCP è un’impresa
storica con sede a Casablanca, ventimila dipendenti, un fatturato di sei miliardi
di dollari assolutamente in crescita e risulta una società anonima. I cattivi
pensieri l’addebitano alla rete parentale del sovrano, come tanti altri affari
celati. Per i quali la dinastia usa dai cugini all’Intelligence e, passando per
i prestanome anche i ben designati parlamentari europei. O almeno voleva farlo.
Quest’ultimi si difendono, difendendo l’onore del carrozzone politico che in
trent’anni di storia, al di là della moneta, non ha creato granché. Se non la
possibilità d’inciuciare con chi strizza l’occhio al business fra Stati
fratelli o in una famiglia allargata che tutto prova ad acquistare, iniziando
dalla credulità degli elettori.