lunedì 25 aprile 2016

“Al diavolo Regeni!”

Non rompete, siamo stufi di lui. Anzi andasse al diavolo!” dice fra una raffica di parole e un’altra Ranja Yassen, conduttrice televisiva de “l’evento quotidiano”, così è definito il canale dal quale lancia il suo sermone laico. Il soggetto dello sfogo è Giulio Regeni, il fantasma che s’aggira sull’Egitto torturatore di Al Sisi. Secondo la graffiante opinionista  la vicenda  prende una piega inaudita a livello internazionale e lei sbotta: “E’ un complotto! come se Regeni fosse l’unico omicidio del mondo”. E poi è inutile che italiani e americani si agitino visto che nei due Paesi “le bande mafiose fanno di tutto”. L’irritata voce televisiva cairota non tralascia quanto il governo ha già ripetuto più volte: anche un cittadino egiziano è scomparso mentre era in Italia, però l’Egitto non ne sta facendo un caso, accusando poliziotti e politici di Roma. Sicuramente l’incalzante scenata davanti alle telecamere, oltre a lanciare un provocatorio manrovescio sul desiderio italiano di verità e giustizia per il ricercatore assassinato, sollecita la rabbia patriottica del telespettatore di casa. Lo indottrina con la litanìa del regime e ne distoglie l’attenzione da quel dissenso che ha ripreso ad affacciarsi in strada.
Infatti, visto che si viene comunque arrestati, attivisti islamici e laici, della Fratellanza e della sinistra, hanno manifestato nell’area semiperiferica di Dokki (dove aveva vissuto anche Regeni) e in quella centrale e borghese di Zamalek. Ieri, anniversario della liberazione del Sinai dall’occupazione israeliana, accanto a manifestanti vicini ai militari, si sono infilati  centinaia di oppositori. Questi hanno ripetuto le proteste, già lanciate nei giorni scorsi, contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir alla dinastia saudita. Assieme ad alcuni fermi di giovani, seguiti a lanci di lacrimogeni e cariche, la polizia ha attuato un meticoloso arresto di giornalisti, forse una trentina. Si tratta di reporter di varie testate e nazionalità, evidentemente diversi dalla conduttrice anti Regeni. Parecchi sono egiziani, della normalizzata Al Ahram e del Daily News Egypt, ma anche dell’agenzia Reuters. Alcuni sono danesi, altri francesi, per i quali la Corte Suprema potrebbe sfoderare accuse sull’attentato alla ‘sicurezza dello Stato’ che nel 2014 aveva coinvolto tre giornalisti di Al Jazeera, un australiano e due egiziani.

Sull’agenzia Reuters ricadono i maggiori addebiti per le informazioni di queste ore, ancora una volta concentrate su Regeni e giudicate anonime e prive di fondamento. Lo Stato egiziano, per tamponare i dubbi nell’opinione pubblica, ripropone lo spettro del pericolo per la nazione che sarebbe sottoposta “ad attacchi concentrici di giornalisti e comunicatori, taluni con funzione di spia”. Anche sul ricercatore friulano la rabbiosa conduttrice ha rinnovato l’insinuazione che aveva trovato eco in qualche commentatore italiano, dietrologo e non solo. Tutto ciò mentre familiari e amici della vittima hanno rigettato la diceria degli untori con dignitosa fermezza, sia a difesa della deontologia scientifica del giovane studioso, sia in base al suo credo ideale, sottolineati in un appassionato intervento materno durante la conferenza stampa tenuta presso una sala di Montecitorio. Ora la memoria di Regeni, maltrattata dagli omertosi inquirenti del Cairo che sono riusciti a irritare anche i colleghi romani, subisce l’oltraggio della speaker televisiva. Fra stridolii vocali, voci alterate, ingiurie e maledizioni. Sono i doni tele diretti ai quali un regime sfrontato non vuol rinunciare.

giovedì 21 aprile 2016

Máxima, terra e libertà

Máxima Acuña ha nel Dna la dignità, la determinazione e il coraggio della sua stirpe contadina. Non è più giovane, ha quattro figli ed è anche nonna. Vive nel nord peruviano e lì ha difeso la propria terra, Trogadero Grande, contro i conquistadores dei nostri tempi, due compagnìe minerarie: la statunitense Newmont e la locale Buenaventura. E’ diventata celebre perché le hanno dato una sorta di Nobel per l’ambiente che si chiama premio Goldman, il motivo è una caparbia lotta a difesa del territorio, ora ricordata da alcune testate sudamericane. Nel 2010 Newmont e Buenaventura promettevano agli azionisti un nuovo Eldorado scavando in Perù oro e rame. Avevano sottoscritto accordi con gli amministratori della regione per attuare il progetto Yanacocha e, l’anno seguente, si presentarono davanti alla casa rurale di Máxima. Dovevano scavare su quei possedimenti e pensavano che la donna, contadina analfabeta, accettasse ogni offerta. Perciò la sollecitavano ad andarsene e lasciare campo libero a scavatrici e minatori. Lei li guardò negli occhi e non disse nulla. Poi osservò lo specchio della Laguna Azul, che sorge nella valletta sottostante la sua casa, e scosse la testa.
Non ci stava a lasciare i luoghi che gli avi avevano amato e curato e disse no. Secondo le aziende se ne sarebbe pentita presto. Passò qualche settimana e in quella casa arrivarono uomini armati, minacciarono tutti, bimbi compresi, chi protestava veniva picchiato. Li spinsero via, distrussero l’abitazione e quel che c’era attorno. Non contenti della violenza i manager delle compagnìe inoltrarono azioni legali, portarono Acuña davanti a una corte che l’accusò di occupazione illegale della terra.  Seguirono multa e prigione. Tre anni tre di reclusione. Veniva giudicata colpevole di ostacolare uno dei maggiori piani di scavo approvato dal governo di Lima con la denominazione nuova miniera Conga. Nei ricordi di Máxima pesano anche i maltrattamenti subìti dalla polizia e l’accusa, infamante, di ostacolare il bene della nazione poiché la protesta, presa a cuore dagli ambientalisti che iniziarono a difenderla, avrebbe allontanato la Newmont e i suoi capitali dal Perù. Il caso assumeva un’eco nazionale, la solidarietà di Ong locali e internazionali portarono nel 2014 alla cancellazione della condanna, seguì il blocco degli scavi attorno alla sorgente della Laguna Azul.
Eppure non era finita. La caparbia contadina continuò a essere minacciata e molestata dalle guardie armate delle ditte, la rincorrevano, le uccidevano gli animali. Le circondarono la casa che la famiglia aveva ricostruito con staccionate, uscita di prigione le ricreavano un’altra galera che loro controllavano a distanza. Lo scontro crebbe ancor più, interessava lo sfruttamento dei giacimenti andini, ma anche la preservazione d’un territorio in parte incontaminato, in un Paese che vanta un’antichissima civiltà del passato. Alle cronache tornava un tema che negli ultimi anni ha visto l’uccisione di decine di attivisti dei diritti proprio in quella nazione, colpiti dal banditismo delle multinazionali dello sfruttamento del sottosuolo, complici gli stessi governi. E dove non c’entrano scavi e miniere il suolo è egualmente straziato da altri interessi. Il fronte ambientalista ricorda la personalità di Chico Mendes, il raccoglitore di caucciù e poi sindacalista brasiliano, che spese e perse la vita a difesa di quella foresta amazzonica in cui era nato e che amava. La vicenda di Acuña ha, fortunatamente, preso altre vie. Lo sfruttamento della terra resta, ma non soffoca la voglia di libertà.  

martedì 19 aprile 2016

Kabul boom


Enorme esplosione stamane a Kabul in un’area affollata di passanti, presso un capolinea di autobus. Finora si contano 28 morti e oltre trecento feriti, ma vista l’entità della deflagrazione si cercano altre vittime sepolte sotto le macerie e sono possibili ulteriori decessi fra i colpiti più gravi. L’esplosione è rivendicata dal movimento talebano. L’attentato è stato provocato facendo deflagrare un camion presso la sede di un sedicente ‘Direttorato della Sicurezza’ che fornisce guardie del corpo ai parlamentari. Secondo notizie tuttora non confermate dopo l’esplosione un gruppo armato avrebbe provato a entrare nell’edificio facendosi largo a raffiche di mitra, sarebbe comunque stato respinto. Testimonianze raccolte e diffuse dalla Reuters raccontano di decine di veicoli danneggiati e della rottura di vetri in un’area molto ampia. La nuova campagna di primavera lanciata, come accade da tempo, dai taliban aveva già avuto un precedente episodio giorni fa con il suicidio d’un kamikaze su un bus a seguito del quale erano morti d’una dozzina di soldati. Secondo Adbullah, accorso sul luogo dell’attentato, la barbarie talebana prosegue la sua strada, mostrando il lato sanguinario di sempre.
Ma le affermazioni del primo ministro confermano pure che il tentativo di dialogo provato dal presidente Ghani, cui nei mesi scorsi ha fatto da sponda il presidente pakistano Sharif, è completamente fallito. L’ala irriducibile dei turbanti ha orientato il nuovo leader Mansour a rigettare ogni tavolo evidenziando ancor più le debolezze militari dell’esercito supportato dai consiglieri statunitensi. In effetti la difesa delle città è diventata un’impresa per l’Afghan National Army Force. Nonostante la mobilitazione permanente gli attacchi a sorpresa dei ribelli sono ripetuti e non riescono a essere filtrati da nessuna prevenzione. Poiché queste azioni paralizzano molte attività i talebani, dallo scorso inverno, sembrano aver orientato l’offensiva quasi esclusivamente su alcune aree urbane rispetto a quei territori rurali, dove sono comunque presenti, ma con azioni più sporadiche. Alla finalità di colpire i lealisti nei luoghi, dove dovrebbero teoricamente sentirsi sicuri, s’unisce l’intento di diffondere un’indiretta propaganda alla popolazione. Nonostante gli annunci e la prosopopea radicata anche nel nuovo governo fantoccio, il Paese è assolutamente incontrollato.

Hollande abbraccia il presidente della tortura

Sorride e si compiace, stringe mani e accordi, incamera plausi e applaude il presidente Al Sisi. La Francia di Hollande gli porge quel miliardo e mezzo che Obama aveva congelato; solo qualche settimana fa la dinastia Saud gli aveva allungato l’anticipo dei dodici miliardi di petrodollari promessi, anche se il mercato del greggio vive gli stenti del periodo. Il vicepremier tedesco - e la Germania è la prima della lista negli scambi commerciali col Cairo - lo loda come “leader eccezionale”. Chi sta meglio di lui? Il generale si fa scherno dei procuratori italiani, della Farnesina, di palazzo Chigi. L’Italia pianga Regeni, nessuno l’ascolta neppure in Europa se tale è la solidarietà dei fratelli franco-tedeschi. Così come qualcuno  ipotizza, il golpista vestito da statista può meditare vendette indirette. Favorendo, o comunque non ostacolando, l’apertura di rotte della disperazione dal suo Paese verso nord, in una rilanciata tratta mediterranea. I dannati del mare, oltre che dalle disastrate coste libiche, iniziano a partire pure da quelle egiziane. Il caso del naufragio di questi giorni, in cui centinaia di profughi sono colati a picco e superstiti eritrei, somali, sudanesi sono stati salvati da un cargo e condotti nell’isola di Kalamata è sintomatico d’una doppia realtà. Quella tutta interna alle sciagurate politiche europee del fronte del rifiuto, che con l’Austria giunge sino ai nostri confini settentrionali e blocca la rotta balcanica.
Ma visto che l’urlo di chi è tormentato non si ferma, perché non si fermano i conflitti e le politiche di soffocamento di popoli ridotti alla miseria, le carrette della disperazione riprendono il largo. In questo traffico che ha motivazioni, merce umana, mercato, bande, racket e connivenze dei governi s’innesta la macropolitica. Ai suoi tempi anche Gheddafi, minacciava o patteggiava queste partenze, differentemente da lui l’omertoso Sisi non dirà nulla. Se interrogato (ma da chi?) negherà qualsiasi coinvolgimento egiziano, sebbene la sua nazione sia militarizzata negli uomini posti al controllo e sempre più negli armamenti che l’alleato Hollande, fra battimani e vigorose strette, gli fornisce. Ciascuno fa il suo gioco. La Francia acquista altro mercato, sfilandolo probabilmente proprio all’Italia sul fronte delle infrastrutture (gli accordi prevedono la costruzione d’una terza rete metropolitana al Cairo). Ma al di là della concorrenza, più o meno leale, in un mercato globale che non conosce questa virtù, la questione dei diritti civili che imbelletta certi discorsi dei politici d’Oltralpe cade totalmente nel dimenticatoio. Così il colpo ferale a una presunta fermezza contro quel terrorismo di Stato che ha in Al Sisi un campione del crimine, lo regala la nazione della libertà e della fratellanza. Non solo non esiste la presunta Unione Europea, come i poveri profughi colano picco gli stessi princìpi della democrazia borghese. 

mercoledì 13 aprile 2016

Il pensatoio di Al Sisi

La via del vero sull’omicidio di Giulio Regeni, che mostra il governo italiano tenere alta la bandiera della dignità e respingere i depistaggi del regime egiziano, dovrà fare i conti col Sisi-pensiero. Che è altro dalle versioni di comodo che s’alternano, tracimano, magari cozzano per incongruenza, partorite dalle teste degli uomini forti e fidati del generale-presidente. Il confronto più arduo si gioca col suo pensatoio composto da think tank e intellettuali ossequiosi. Tutti stretti attorno a un rilanciato orgoglio nazionale, in lotta contro il nemico interno della Fratellanza Musulmana e contro chi vuole insidiare la Patria: giornalisti, comunicatori, studiosi accomunati nel losco piano di screditare il nuovo corso insediato dalla “rivoluzione” del 2013. Lo sostiene, in un articolo comparso sul settimanale Al-Ahram, Yassin El-Ayouty, docente di Diritto alla New York University. Il professore si scaglia contro un precedente pezzo del New York Times possibilista su un’ipotesi di boicottaggio economico al governo del Cairo, per le reiterate gravissime violazioni dei diritti umani. E risponde indignato all’affermazione: “I militari egiziani hanno preso il potere con un golpe”.
La considera un’intollerabile ingerenza, rammenta come il 3 luglio 2013 (data dell’arresto del presidente Morsi) l’allora ministro della difesa Al Sisi rispose “alla chiamata di 35 milioni di manifestanti” dando seguito a una road map concordata con le forze civili e la Chiesa copta. L’accordo effettivamente ci fu, ma le vicende non andarono secondo la versione di comodo sciorinata nell’articolo (http://weekly.ahram.org.eg). Noi l’abbiamo raccontato negli anni scorsi, potremo tornarci. Interessante è cogliere il cammino del prof, impegnato un po’ a manipolare i fatti, per altro a esprimere personali valutazioni col fine di sotterrare il ricordo del golpe di Al Sisi, inizialmente bianco che diventerà rossissimo del sangue di centinaia di militanti islamici. El-Ayouty sorvola su quel che non serve alla sua causa: l’arresto d’un presidente eletto, la repressione di decine di migliaia di egiziani accampati per protesta davanti la moschea di Rabaa, schernendo ciò che definisce il  mito della legittimità”. Più precisamente di costoro afferma che per amore di Allah cercarono la morte, praticando quello che si può definire un “suicidio da poliziotto” (sic). Insomma incitarono i propri assassini ad aprire il fuoco. In tal modo il pensatore del presidente pacifica la mattanza, avvenuta in un giorno e una notte, di oltre mille attivisti (per la Fratellanza duemila).
Il prof vola diretto al giugno 2014 quando il voto (dato dal 35% degli elettori) ratifica la presidenza del generale secondo quel che definisce un “ordinario trasferimento di potere”. Tralasciamo certe amenità sulla guida dittatoriale della Confraternita, magari ci sarebbe stata, forse non ne hanno avuto il tempo, ma i famelici Fratelli sono accusati di quello che altrove si chiama spoil system (chi vince piazza i suoi uomini al comando). Seppure per la riscrittura della Carta costituzionale le chiamate alla cooperazione rivolte a tutti i partiti, laici in testa, furono da costoro boicottate sia prima sia dopo l’elezione del presidente islamista. Il pezzo giunge quindi allo scottante tema dei diritti umani, e partono le frecciate agli Stati Uniti che potrebbero dirigersi verso chiunque, noi siamo in prima fila per l’uccisione di Regeni. “La questione dei diritti umani è una faccenda interna” nessuno ha il diritto d’interferire. L’approccio americano è imperialista e una nazione orgogliosa come l’Egitto ha il dovere di respingerlo. Accantonando l’aplomb accademico il docente suggerisce allo storico quotidiano della East-coast di mettere “il culo fuori” dalle faccende egiziane. La via democratica intrapresa al Cairo non ha bisogno di valutatori, ogni monitoraggio è la più odiosa forma d’intervento negli affari di casa. L’avvertimento Oltreoceano ovviamente varca il Mediterraneo.

lunedì 11 aprile 2016

Caso Regeni: l’Italia alza la voce, l’Egitto trova altri partner

Nella ricerca di verità per Giulio Regeni, di giustizia per i familiari, di dignità per la nazione italiana abbiamo assistito alla prima mossa della Farnesina che ha richiamato a casa l’ambasciatore Massari. E alla promessa, fatta solennemente dal ministro Gentiloni, che altre misure adeguate alla gravità del caso potranno esser prese dal governo Renzi. In questi giorni s’è cercata una sponda nell’Alto rappresentante agli affari esteri Mogherini per coinvolgere l’Unione Europea sulla vicenda, affinché quest’importante istituzione contribuisca a far pressione sull’Egitto. L’affare non è certo un fattaccio di cronaca nera, come polizia e magistratura locali stanno cercando di presentarlo da oltre due mesi. Riguarda questioni altamente politiche come i diritti civili totalmente calpestati con pratiche disumane di sequestri, galera, sevizie, morti violente applicati a cittadini e stranieri. Il nostro ministro degli esteri, che nel corso di tutta questa settimana si consulterà con l’ambasciatore rientrato dal Cairo, ha anche annunciato che è disposto a portare nell’assise Onu la vergogna delle torture e punta anche a premere sulla Banca Mondiale, toccando il terreno scottante delle finanze egiziane sempre bisognose di aiuti. Occorre capire se questa linea di fermezza che, peraltro, non sembra smuovere minimamente l’entourage del presidente Al Sisi che col procuratore generale Suleiman ha manifestato stupore e irritazione per le posizioni italiane, potrà proseguire il percorso.
Riguardo a un possibile contrasto economico (visto che siamo il secondo partner nell’import-export dopo la Germania, non solo con Eni e la vicenda dello sfruttamento del giacimento Zohr ma, con Edison, Ansaldo, Breda, e poi sul fronte infrastrutturale con Italcementi, Tecnimont, Pirelli) Gentiloni sorvola sui contrattoni di questi marchi importanti e portanti per gli stessi interessi italiani. Invece pensa di frenare il flusso turistico,  iniziando a considerare quel Paese pericoloso per ogni sorta di viaggio. Lavoro e affari, per ora, non rientrerebbero nella sfera pericolosa. Probabilmente il governo vuole capire la reazione di Confindustria e dei poteri finanziari nostrani, se saranno disposti a mettere il business sul piatto della difesa dei diritti. Lo scenario ha pienamente imboccato la sfera politica e se rottura diplomatica ci potrà essere, non verrà meno a quest’orientamento. Certo è che nel difficile momento vissuto dal mondo arabo affacciato sul Mediterraneo, col caos libico, la presenza dell’Isis, le minacciose ondate migratorie, il ruolo della giunta del Cairo può tornar utile a un Occidente che, a sua volta, non deve irritare la locale lobby militare. Anche perché le mani tese alla spregiudicatezza di Al Sisi non mancano, a iniziare dal vicinato arabo. In questo fine settimana il presidente-generale ha ospitato un alleato potente e solvente, il sovrano saudita Salman, che è stato accolto, applaudito, osannato da tutti i parlamentari egiziani. Motivo dell’incontro: ribadire la comune lotta contro il terrorismo, che a detta del re saudita: “dev’essere combattuto finanziariamente, militarmente, ideologicamente”. Per farlo, e per trovare seguito nello stato che egli considera fratello, il Saud ha fatto riferimento alla ‘causa palestinese’, buona per ogni avvicinamento di soggetti arabi che, immediatamente dopo averla ricordata e sfruttata, la lasciano cadere fino alla futura rispolverata.

Il dignitario di Riyad ha sostenuto di mirare a un’alleanza-ponte sul mar Rosso per creare una forza di difesa panaraba, idea peraltro lanciata un anno fa dallo stesso Egitto. Ma ha anche fatto riferimento a un vero ponte da edificarne tramite l’isola di Tiran, così da collegare il Sinai alla penisola arabica. Su quest’isola, originariamente saudita e affittata dal 1950 all’Egitto, passerebbe il collegamento per le attuali sette miglia marine che separano il golfo di Aqaba dal mar Rosso. L’opera potrà incrementare le capacità lavorative in zona e legare le sorti dell’establishment cairota ai petrodollari sauditi. Egualmente si pensa a istituire un porto franco commerciale nella zona del Sinai. Coi 16 miliardi di dollari messi sul piatto, Riyad acquista l’acquiescenza del nuovo raìs egiziano e della lobby che lo circonda e lo protegge. Pensa di potersene servire in quell’”Alleanza contro il terrorismo” rivolta più che contro il Daesh, contro le spine nel fianco al suo dominio sulla penisola e nella regione, come indica la crisi yemenita e i contrasti ai ribelli Houthi, considerati l’ennesimo cavallo di Troia iraniano. Al Sisi, finito nel trambusto del caso Regeni per lo zelo assassino dei suoi collaboratori, cui comunque addestra e sollecita la foga criminale, non manca di nuovi approdi politici ed economici. Per Gentiloni la partita si fa dura. Ancor di più per la giustizia richiesta per Giulio e tutti gli scomparsi d’Egitto.

venerdì 8 aprile 2016

Regeni, vertice fallito l’Italia richiama l’ambasciatore

Fallisce il supervertice fra i pool d’investigazione italiano ed egiziano. Fallisce perché nelle duemila pagine del dossier confezionato dai poliziotti del Cairo c’è la stessa aria fritta che il procuratore Pignatone aveva respirato durante il sopralluogo di marzo. Nulla di utile per indagini serie, né i più volte richiesti tabulati telefonici, né il traffico delle cosiddette “celle” che avevano agganciato il cellulare di Regeni. Egualmente mancano le registrazioni video delle telecamere metro di Dokki, dove il ricercatore viveva, che differentemente da quelle dei negozi della zona  non sono state cancellate. Però non vengono mostrate. Dunque l’ennesima finzione, giudicata insoddisfacente dagli inquirenti italiani che in un comunicato hanno sottolineato le gravi carenze. La Farnesina ha deciso di dare seguito ai provvedimenti preannunciati dal ministro Gentiloni nell’intervento al Parlamento di qualche giorno fa così l’ambasciatore Massari è stato richiamato a Roma. La crisi potrebbe assumere contorni ancora più netti qualora il Cairo praticasse la stessa via del ritiro diplomatico.
Il gruppo spedito in Italia da Al Sisi ha spudoratamente rilanciato i sospetti sulla famosa banda criminale che avrebbe rapito il ricercatore friulano e che è stata sterminata a colpi di mitra tempo addietro, in modo che nessun malvivente potesse fornire una versione dell’eventuale sequestro. L’ipotesi è la più scalcinata fra quelle offerte dal Capo della polizia criminale di Giza, quel Khaled Shalaby, che un anonimo interlocutore del quotidiano La Repubblica, che per giorni ha inviato delle email trilingue (un mix di inglese, arabo e italiano), considera il mandante del sequestro e delle torture inflitte a Giulio. Il misterioso mittente, svelato poi in tal Afifi ex poliziotto egiziano riparato negli Usa, coinvolge alti esponenti del governo: il responsabile della Sicurezza nazionale Sharawy, il consigliere del presidente Al-Din, lo stesso Al Sisi tutti messi al corrente della morte di Regeni quando la tortura aveva tragicamente prodotto i suoi effetti letali. Costoro avrebbero deciso di far ritrovare il cadavere lungo la superstrada fra il Cairo e Alessandria.
Da quel momento è iniziato il balletto delle ipotesi di morte: incidente stradale, omicidio per rapina, per ragioni sessuali, per droga. Un’insultante pantomima che sta continuando. E di cui il nostro governo constata la recita d’un rigido copione. In tal senso la “gola profonda” de La Repubblica, paranoica o meno, non va lontano dalla realtà. Ribadisce quanto tanti attivisti egiziani hanno conosciuto sulla propria pelle e a danno della vita. Perché l’omicidio Regeni, come i cento e cento compiuti dagli uomini della sicurezza o da gruppi paramilitari, è conforme alla linea del terrore che Al Sisi ha concordato coi vertici dell’esercito che lo sostengono. Scardinare questo legame e un simile disegno è impossibile:  significa rinnegare la ragion d’essere della controrivoluzione egiziana. Essa ha nelle Forze Armate il fulcro e molti sostenitori fra i feloul del sistema filo occidentale per decenni incarnato dai clan affaristi che vogliono continuare a controllare la società tramite il consolidato modello del terrore che non ammette democrazia e ingerenze interne ed esterne. E’ lo spettro contro cui s’è battuto l’altro Egitto, islamico e laico, dai giorni di Tahrir in poi fino al golpe del luglio 2013 che ha rimesso “le cose a posto”. Con fare assolutamente criminale.




martedì 5 aprile 2016

Regeni come i cinquecento Mohammed

Arrivano, disertano o rimandano. Alla fine vengono. E saranno a Roma domani sera per incontrare, nei due giorni seguenti, i magistrati italiani. Però la danza del ventre degli investigatori di Al Sisi è costellata di singulti che risentono dei malumori provocati dalla valutazione del proprio dossier, considerato lacunoso dagli inquirenti italiani. E soprattutto dal primo deciso intervento alla Camera e al Senato del nostro ministro degli Esteri. Cosa ha detto di poco diplomatico Paolo Gentiloni? Niente di più di quello che la catena di solidarietà per la verità su Giulio Regeni sta affermando da settimane: è necessario acquisire documenti mancanti, non accreditare verità di comodo, per accertare chi sono i responsabili delle violenze e dell’omicidio del nostro connazionale. Si tratta d’un concreto passo compiuto dal governo italiano per respingere la penosa pantomima recitata sinora dalla polizia e dagli stessi inquirenti del Cairo. “In un caso come questo la ragione di Stato c’impone di difendere fino in fondo e davanti a chiunque la memoria di Regeni, sul cui volto la madre ha detto d’aver visto tutto il male del mondo. Per ragione di Stato pretendiamo la verità, non ci rassegnamo e non consentiremo che venga calpestata la dignità del Paese”. L’omologo egiziano Shoukry rispondeva stizzito, sostenendo che simili considerazioni “complicano la situazione”.
A sminuire la tensione ci ha pensato Sisi in persona. E l’ha fatto a modo suo, con la carezza e il pugno. Ha ripetuto i buoni propositi già annunciati con l’intervista esclusiva a La Repubblica e ha riproposto il ‘morso della vipera’ che aveva anticipato sempre in quell’occasione: l’Italia vuole la verità su Regeni, ma non chiarisce cosa sia accaduto al cittadino egiziano Adeal Moawad, scomparso quand’era appunto sul nostro territorio. Se è bene rintracciare ogni individuo e scoprire la sorte di ciascuno, le due vicende sembrano ben diverse, perché non risulta che Moawad sia stato intercettato da agenti e apparati dell’Intelligence italiana. Comunque Sisi mette l’uno a fianco dell’altro; vedremo se questa posizione riaffiorerà giovedì e venerdì quando i due gruppi d’investigazione s’incontreranno a piazzale Clodio dove il pubblico ministero Colaiocco, vice di Pignatone, ha predisposto locali e sviluppi tecnici del confronto. Ovviamente i magistrati italiani cercheranno elementi per scoprire chi ha sequestrato il ricercatore, chi l’ha trattenuto e dove. Chi e perché ne ha ordinato interrogatori contrassegnati da sevizie e chi le ha eseguite sino a giungere  all’omicidio. Chi ha posto cadavere presso la cosiddetta cittadina 6 Ottobre, un luogo frequentato da agenti che nei pressi hanno la sede dell’Intelligence. Di chi è la regia?

Poi ci sono altri quesiti scottanti posti dalla vicenda che ormai ha un’eco mondiale, proprio in virtù del ruolo ricoperto da Regeni come studioso presso l’Università di Cambridge e per il saggio che stava componendo con l’aiuto di colleghi egiziani e di professori locali. Costoro hanno già dichiarato: “L’hanno ucciso come uccidono noi”. E sanno cosa dicono perché non hanno più visto decine di altri studenti che si sommano alle centinaia di sparizioni dell’odierno Egitto. Dove sono finiti gli oltre cinquecento Mohammed, le Basma, gli Ahmed e Ossama svaniti nel nulla, secondo quanto denuncia il Centro El Nadim dall’agosto del 2015? Prelevati in casa, per via, all’università, in moschea, in bottega mese dopo mese sino al maledetto 25 gennaio scorso e successivamente, perché tutto ciò accade ogni giorno nel grande Paese arabo martoriato da Al Sisi. Il presidente e gli uomini di fiducia che ha posto in ogni centro di potere, magistratura compresa (Shoukry agli esteri e Ghaffar agli interni sono solo gli ultimi collocati) devono rispondere di queste pratiche che sanno di spietata dittatura. Quanti Regeni ha sulla coscienza un regime nato spargendo il sangue dei suoi figli? Allora, e a lungo, è stato quello dei Fratelli Musulmani, ma ormai è sangue di tanti egiziani e di chi s’intromette in una gestione omicida del potere che dev’essere fermata.