Fallisce
il supervertice fra i pool d’investigazione italiano ed egiziano. Fallisce
perché nelle duemila pagine del dossier confezionato dai poliziotti del Cairo
c’è la stessa aria fritta che il procuratore Pignatone aveva respirato durante
il sopralluogo di marzo. Nulla di utile per indagini serie, né i più volte richiesti
tabulati telefonici, né il traffico delle cosiddette “celle” che avevano
agganciato il cellulare di Regeni. Egualmente mancano le registrazioni video delle
telecamere metro di Dokki, dove il ricercatore viveva, che differentemente da
quelle dei negozi della zona non sono
state cancellate. Però non vengono mostrate. Dunque l’ennesima finzione, giudicata
insoddisfacente dagli inquirenti italiani che in un comunicato hanno
sottolineato le gravi carenze. La Farnesina ha deciso di dare seguito ai
provvedimenti preannunciati dal ministro Gentiloni nell’intervento al Parlamento
di qualche giorno fa così l’ambasciatore Massari è stato richiamato a Roma. La
crisi potrebbe assumere contorni ancora più netti qualora il Cairo praticasse
la stessa via del ritiro diplomatico.
Il gruppo spedito in Italia da Al Sisi ha spudoratamente rilanciato i sospetti sulla
famosa banda criminale che avrebbe rapito il ricercatore friulano e che è stata
sterminata a colpi di mitra tempo addietro, in modo che nessun malvivente
potesse fornire una versione dell’eventuale sequestro. L’ipotesi è la più
scalcinata fra quelle offerte dal Capo della polizia criminale di Giza, quel
Khaled Shalaby, che un anonimo interlocutore del quotidiano La Repubblica, che per giorni ha inviato
delle email trilingue (un mix di inglese, arabo e italiano), considera il mandante
del sequestro e delle torture inflitte a Giulio. Il misterioso mittente,
svelato poi in tal Afifi ex poliziotto egiziano riparato negli Usa, coinvolge
alti esponenti del governo: il responsabile della Sicurezza nazionale Sharawy,
il consigliere del presidente Al-Din, lo stesso Al Sisi tutti messi al corrente
della morte di Regeni quando la tortura aveva tragicamente prodotto i suoi
effetti letali. Costoro avrebbero deciso di far ritrovare il cadavere lungo la
superstrada fra il Cairo e Alessandria.
Da
quel momento è iniziato il balletto delle ipotesi di morte: incidente stradale,
omicidio per rapina, per ragioni sessuali, per droga. Un’insultante pantomima
che sta continuando. E di cui il nostro governo constata la recita d’un rigido
copione. In tal senso la “gola profonda” de La
Repubblica, paranoica o meno, non va lontano dalla realtà. Ribadisce quanto
tanti attivisti egiziani hanno conosciuto sulla propria pelle e a danno della
vita. Perché l’omicidio Regeni, come i cento e cento compiuti dagli uomini
della sicurezza o da gruppi paramilitari, è conforme alla linea del terrore che
Al Sisi ha concordato coi vertici dell’esercito che lo sostengono. Scardinare
questo legame e un simile disegno è impossibile: significa rinnegare la ragion d’essere della
controrivoluzione egiziana. Essa ha nelle Forze Armate il fulcro e molti
sostenitori fra i feloul del sistema
filo occidentale per decenni incarnato dai clan affaristi che vogliono
continuare a controllare la società tramite il consolidato modello del terrore
che non ammette democrazia e ingerenze interne ed esterne. E’ lo spettro contro
cui s’è battuto l’altro Egitto, islamico e laico, dai giorni di Tahrir in poi
fino al golpe del luglio 2013 che ha rimesso “le cose a posto”. Con fare
assolutamente criminale.
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