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venerdì 8 aprile 2016

Regeni, vertice fallito l’Italia richiama l’ambasciatore

Fallisce il supervertice fra i pool d’investigazione italiano ed egiziano. Fallisce perché nelle duemila pagine del dossier confezionato dai poliziotti del Cairo c’è la stessa aria fritta che il procuratore Pignatone aveva respirato durante il sopralluogo di marzo. Nulla di utile per indagini serie, né i più volte richiesti tabulati telefonici, né il traffico delle cosiddette “celle” che avevano agganciato il cellulare di Regeni. Egualmente mancano le registrazioni video delle telecamere metro di Dokki, dove il ricercatore viveva, che differentemente da quelle dei negozi della zona  non sono state cancellate. Però non vengono mostrate. Dunque l’ennesima finzione, giudicata insoddisfacente dagli inquirenti italiani che in un comunicato hanno sottolineato le gravi carenze. La Farnesina ha deciso di dare seguito ai provvedimenti preannunciati dal ministro Gentiloni nell’intervento al Parlamento di qualche giorno fa così l’ambasciatore Massari è stato richiamato a Roma. La crisi potrebbe assumere contorni ancora più netti qualora il Cairo praticasse la stessa via del ritiro diplomatico.
Il gruppo spedito in Italia da Al Sisi ha spudoratamente rilanciato i sospetti sulla famosa banda criminale che avrebbe rapito il ricercatore friulano e che è stata sterminata a colpi di mitra tempo addietro, in modo che nessun malvivente potesse fornire una versione dell’eventuale sequestro. L’ipotesi è la più scalcinata fra quelle offerte dal Capo della polizia criminale di Giza, quel Khaled Shalaby, che un anonimo interlocutore del quotidiano La Repubblica, che per giorni ha inviato delle email trilingue (un mix di inglese, arabo e italiano), considera il mandante del sequestro e delle torture inflitte a Giulio. Il misterioso mittente, svelato poi in tal Afifi ex poliziotto egiziano riparato negli Usa, coinvolge alti esponenti del governo: il responsabile della Sicurezza nazionale Sharawy, il consigliere del presidente Al-Din, lo stesso Al Sisi tutti messi al corrente della morte di Regeni quando la tortura aveva tragicamente prodotto i suoi effetti letali. Costoro avrebbero deciso di far ritrovare il cadavere lungo la superstrada fra il Cairo e Alessandria.
Da quel momento è iniziato il balletto delle ipotesi di morte: incidente stradale, omicidio per rapina, per ragioni sessuali, per droga. Un’insultante pantomima che sta continuando. E di cui il nostro governo constata la recita d’un rigido copione. In tal senso la “gola profonda” de La Repubblica, paranoica o meno, non va lontano dalla realtà. Ribadisce quanto tanti attivisti egiziani hanno conosciuto sulla propria pelle e a danno della vita. Perché l’omicidio Regeni, come i cento e cento compiuti dagli uomini della sicurezza o da gruppi paramilitari, è conforme alla linea del terrore che Al Sisi ha concordato coi vertici dell’esercito che lo sostengono. Scardinare questo legame e un simile disegno è impossibile:  significa rinnegare la ragion d’essere della controrivoluzione egiziana. Essa ha nelle Forze Armate il fulcro e molti sostenitori fra i feloul del sistema filo occidentale per decenni incarnato dai clan affaristi che vogliono continuare a controllare la società tramite il consolidato modello del terrore che non ammette democrazia e ingerenze interne ed esterne. E’ lo spettro contro cui s’è battuto l’altro Egitto, islamico e laico, dai giorni di Tahrir in poi fino al golpe del luglio 2013 che ha rimesso “le cose a posto”. Con fare assolutamente criminale.




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