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martedì 5 aprile 2016

Regeni come i cinquecento Mohammed

Arrivano, disertano o rimandano. Alla fine vengono. E saranno a Roma domani sera per incontrare, nei due giorni seguenti, i magistrati italiani. Però la danza del ventre degli investigatori di Al Sisi è costellata di singulti che risentono dei malumori provocati dalla valutazione del proprio dossier, considerato lacunoso dagli inquirenti italiani. E soprattutto dal primo deciso intervento alla Camera e al Senato del nostro ministro degli Esteri. Cosa ha detto di poco diplomatico Paolo Gentiloni? Niente di più di quello che la catena di solidarietà per la verità su Giulio Regeni sta affermando da settimane: è necessario acquisire documenti mancanti, non accreditare verità di comodo, per accertare chi sono i responsabili delle violenze e dell’omicidio del nostro connazionale. Si tratta d’un concreto passo compiuto dal governo italiano per respingere la penosa pantomima recitata sinora dalla polizia e dagli stessi inquirenti del Cairo. “In un caso come questo la ragione di Stato c’impone di difendere fino in fondo e davanti a chiunque la memoria di Regeni, sul cui volto la madre ha detto d’aver visto tutto il male del mondo. Per ragione di Stato pretendiamo la verità, non ci rassegnamo e non consentiremo che venga calpestata la dignità del Paese”. L’omologo egiziano Shoukry rispondeva stizzito, sostenendo che simili considerazioni “complicano la situazione”.
A sminuire la tensione ci ha pensato Sisi in persona. E l’ha fatto a modo suo, con la carezza e il pugno. Ha ripetuto i buoni propositi già annunciati con l’intervista esclusiva a La Repubblica e ha riproposto il ‘morso della vipera’ che aveva anticipato sempre in quell’occasione: l’Italia vuole la verità su Regeni, ma non chiarisce cosa sia accaduto al cittadino egiziano Adeal Moawad, scomparso quand’era appunto sul nostro territorio. Se è bene rintracciare ogni individuo e scoprire la sorte di ciascuno, le due vicende sembrano ben diverse, perché non risulta che Moawad sia stato intercettato da agenti e apparati dell’Intelligence italiana. Comunque Sisi mette l’uno a fianco dell’altro; vedremo se questa posizione riaffiorerà giovedì e venerdì quando i due gruppi d’investigazione s’incontreranno a piazzale Clodio dove il pubblico ministero Colaiocco, vice di Pignatone, ha predisposto locali e sviluppi tecnici del confronto. Ovviamente i magistrati italiani cercheranno elementi per scoprire chi ha sequestrato il ricercatore, chi l’ha trattenuto e dove. Chi e perché ne ha ordinato interrogatori contrassegnati da sevizie e chi le ha eseguite sino a giungere  all’omicidio. Chi ha posto cadavere presso la cosiddetta cittadina 6 Ottobre, un luogo frequentato da agenti che nei pressi hanno la sede dell’Intelligence. Di chi è la regia?

Poi ci sono altri quesiti scottanti posti dalla vicenda che ormai ha un’eco mondiale, proprio in virtù del ruolo ricoperto da Regeni come studioso presso l’Università di Cambridge e per il saggio che stava componendo con l’aiuto di colleghi egiziani e di professori locali. Costoro hanno già dichiarato: “L’hanno ucciso come uccidono noi”. E sanno cosa dicono perché non hanno più visto decine di altri studenti che si sommano alle centinaia di sparizioni dell’odierno Egitto. Dove sono finiti gli oltre cinquecento Mohammed, le Basma, gli Ahmed e Ossama svaniti nel nulla, secondo quanto denuncia il Centro El Nadim dall’agosto del 2015? Prelevati in casa, per via, all’università, in moschea, in bottega mese dopo mese sino al maledetto 25 gennaio scorso e successivamente, perché tutto ciò accade ogni giorno nel grande Paese arabo martoriato da Al Sisi. Il presidente e gli uomini di fiducia che ha posto in ogni centro di potere, magistratura compresa (Shoukry agli esteri e Ghaffar agli interni sono solo gli ultimi collocati) devono rispondere di queste pratiche che sanno di spietata dittatura. Quanti Regeni ha sulla coscienza un regime nato spargendo il sangue dei suoi figli? Allora, e a lungo, è stato quello dei Fratelli Musulmani, ma ormai è sangue di tanti egiziani e di chi s’intromette in una gestione omicida del potere che dev’essere fermata.

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