Arrivano, disertano o rimandano.
Alla fine vengono. E saranno a Roma domani sera per incontrare, nei due giorni
seguenti, i magistrati italiani. Però la danza del ventre degli investigatori
di Al Sisi è costellata di singulti che risentono dei malumori provocati dalla
valutazione del proprio dossier, considerato lacunoso dagli inquirenti
italiani. E soprattutto dal primo deciso intervento alla Camera e al Senato del
nostro ministro degli Esteri. Cosa ha detto di poco diplomatico Paolo
Gentiloni? Niente di più di quello che la catena di solidarietà per la verità
su Giulio Regeni sta affermando da settimane: è necessario acquisire documenti
mancanti, non accreditare verità di comodo, per accertare chi sono i
responsabili delle violenze e dell’omicidio del nostro connazionale. Si tratta
d’un concreto passo compiuto dal governo italiano per respingere la penosa
pantomima recitata sinora dalla polizia e dagli stessi inquirenti del Cairo. “In un caso come questo la ragione di Stato
c’impone di difendere fino in fondo e davanti a chiunque la memoria di Regeni,
sul cui volto la madre ha detto d’aver visto tutto il male del mondo. Per
ragione di Stato pretendiamo la verità, non ci rassegnamo e non consentiremo
che venga calpestata la dignità del Paese”. L’omologo egiziano Shoukry
rispondeva stizzito, sostenendo che simili considerazioni “complicano la situazione”.
A sminuire la tensione
ci ha pensato Sisi in persona. E l’ha fatto a modo suo, con la carezza e il
pugno. Ha ripetuto i buoni propositi già annunciati con l’intervista esclusiva
a La Repubblica e ha riproposto il
‘morso della vipera’ che aveva anticipato sempre in quell’occasione: l’Italia
vuole la verità su Regeni, ma non chiarisce cosa sia accaduto al cittadino
egiziano Adeal Moawad, scomparso quand’era appunto sul nostro territorio. Se è
bene rintracciare ogni individuo e scoprire la sorte di ciascuno, le due
vicende sembrano ben diverse, perché non risulta che Moawad sia stato intercettato
da agenti e apparati dell’Intelligence italiana. Comunque Sisi mette l’uno a
fianco dell’altro; vedremo se questa posizione riaffiorerà giovedì e venerdì
quando i due gruppi d’investigazione s’incontreranno a piazzale Clodio dove il
pubblico ministero Colaiocco, vice di Pignatone, ha predisposto locali e
sviluppi tecnici del confronto. Ovviamente i magistrati italiani cercheranno
elementi per scoprire chi ha sequestrato il ricercatore, chi l’ha trattenuto e
dove. Chi e perché ne ha ordinato interrogatori contrassegnati da sevizie e chi
le ha eseguite sino a giungere all’omicidio.
Chi ha posto cadavere presso la cosiddetta cittadina 6 Ottobre, un luogo
frequentato da agenti che nei pressi hanno la sede dell’Intelligence. Di chi è
la regia?
Poi ci sono altri quesiti scottanti posti dalla vicenda che ormai ha un’eco mondiale, proprio
in virtù del ruolo ricoperto da Regeni come studioso presso l’Università di
Cambridge e per il saggio che stava componendo con l’aiuto di colleghi egiziani
e di professori locali. Costoro hanno già dichiarato: “L’hanno ucciso come uccidono noi”. E sanno cosa dicono perché non hanno
più visto decine di altri studenti che si sommano alle centinaia di sparizioni
dell’odierno Egitto. Dove sono finiti gli oltre cinquecento Mohammed, le Basma,
gli Ahmed e Ossama svaniti nel nulla, secondo quanto denuncia il Centro El
Nadim dall’agosto del 2015? Prelevati in casa, per via, all’università, in
moschea, in bottega mese dopo mese sino al maledetto 25 gennaio scorso e
successivamente, perché tutto ciò accade ogni giorno nel grande Paese arabo martoriato
da Al Sisi. Il presidente e gli uomini di fiducia che ha posto in ogni centro
di potere, magistratura compresa (Shoukry agli esteri e Ghaffar agli interni
sono solo gli ultimi collocati) devono rispondere di queste pratiche che sanno
di spietata dittatura. Quanti Regeni ha sulla coscienza un regime nato
spargendo il sangue dei suoi figli? Allora, e a lungo, è stato quello dei
Fratelli Musulmani, ma ormai è sangue di tanti egiziani e di chi s’intromette in una
gestione omicida del potere che dev’essere fermata.
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