Quattro sezioni più l’appendice. Con un documento di
duecentoventi pagine l’Ispettorato generale per la ricostruzione
dell’Afghanistan (Sigar) lancia l’ennesimo allarme. Per chi non lo conoscesse
quest’organismo, creato nel 2008 dal Congresso statunitense, mira a “fornire una supervisione indipendente e
obiettiva dei fondi destinati alla ricostruzione” (questo almeno lo scopo
dichiarato) nel Paese occupato dalle sue truppe. Il rapporto di fine gennaio, esaminando
la situazione in 30 province (ne sono rimaste escluse Sar-e Pul, Samangan a
nord, Nuristan a est, Daykundi al centro) afferma come negli ultimi tre mesi
del 2019 le azioni violente sono ampiamente aumentate rispetto all’ultimo
decennio: 8.204 attacchi, rivolti a obiettivi militari e civili, da parte dei
reparti americani e delle milizie talebane. Tutto ciò mentre restavano aperti i
cosiddetti accordi di pace. In realtà, e questa è una concreta spiegazione
dell’incremento delle azioni belliche, nessuno dei due fronti accetta le
proposte dell’avversario: da parte statunitense l’inserimento nelle trattive
dei governanti di Kabul, da parte talebana l’immediata attuazione del ritiro di
tutti i militari presenti sul territorio afghano. Perciò il tavolo di pace
langue mentre le bocche di fuoco seminano morte. Il supervisore degli incontri,
avvenuti a Doha e a Mosca, l’afghano-statunitense Zalmay Khalilzad, non è
riuscito a far recedere nessuno da prese di posizioni considerate
irrinunciabili.
Poi è sopravvenuto il gestaccio di Trump di bloccare gli
incontri, da cui è scaturito un ritorno al conflitto da parte talebana, con
conseguenti ritorsioni e caccia all’uomo di marines e contractors, quest’ultimi
ormai più numerosi dei primi. Sebbene i mercenari americani siano in gran parte
ex militari, magari già utilizzati in loco, per loro è cambiata la divisa non i
comandi sempre coordinati da Pentagono e Cia. Proprio lo scorso settembre, in
cui si sono svolte le elezioni e il cui risultato è rimasto oscurato a lungo,
con conteggi e riconteggi, i turbanti hanno dato fondo a una ripresa delle
guerriglia. Quelle azioni dicevano: la classe politica che Washington propone e
impone per noi non ha alcun valore. I politici in questione sono gli stessi che
governano il Paese dal 2014: Ghani e Abdullah, che si sono ridivisi le
preferenze. La recente consultazione, cui ha partecipato il 10% degli elettori,
ha fatto segnare 920.000 voti all’ex presidente e 720.000 all’ex premier, rilanciando
la spartizione di ruoli e potere creata cinque anni fa. Tranne poi sentirsi
accusati, e non solo dai concorrenti tagliati fuori dalla corsa, dei soliti
brogli. Perciò sembra un mantra conosciuto il capitolo del rapporto che parla
della corruzione, nella quale, sia detto o meno, è coinvolta quella politica
che la Casa Bianca ha promosso dai tempi di Bush jr e Obama, prima con Karzai quindi
con la diarchia Ghani-Abdullah.
Nulla di nuovo nel modello ritrito e ormai stantìo con cui
si cerca di mascherare un’occupazione, che potrebbe continuare anche col ritiro
militare. E i capitoli che trattano le cosiddette “donazioni”, i fondi
stanziati per la mai realizzata ricostruzione del Paese, possono avere letture
ben differenti dagli allarmi che sollevano. La citata corruzione che - e l’abbiamo
visto per oltre un decennio - lega le massime autorità al doppio filo
dell’eversione politica e delle ruberie. Come definire altrimenti durante la
“reggenza” Karzai, gli scandali di Kabul Bank in cui erano coinvolti suoi
sodali? E gli affari di traffico d’oppio del clan di famiglia, con un fratello
rimasto ucciso nelle faide con altri clan che godevano del business
dell’eroina? Tutto con la protezione, interessata per ragioni di denaro, di
signori della guerra (Fahim, Khalili) collocati in alte cariche statali, allora
come poi è avvenuto con Dostum. Niente cambia sotto l’ombra dell’Hindu Kush, e
quelle tre generazioni di afghani che hanno cosciuto solo guerra e morte, per
sfuggire a questi eventi continuano a fuggire nelle rotte migranti diffuse ovunque
nel mondo. E francamente non possono che risultare stonate le note delle pagine
del documento Sigar che sostengono come “la
pazienza statunitense e di altri donatori sta svanendo”. Il filo rosso che
lega certe donazioni è un tutt’uno col sistema politico promosso che vive
esclusivamente di corruzione e soprusi. Ed è purtroppo un filo rosso di sangue
che vede molti colpevoli, portatori di armi o di denaro.