Dicono pace e la
firmano. Sui tavoli diplomatici di Doha, dove per mesi i rappresentanti
talebani e statunitensi si sono incontrati sotto la regia di mister Khalilzad,
l’ambasciatore dell’accordo. Alla stipula, evidenziata con enfasi dal
Segretario di Stato americano Pompeo, erano presenti delegazioni di Pakistan, India,
Turchia, Indonesia, Uzbekistan, Tajikistan e Qatar. Gli annunci delle parti
hanno sottolineato ciò che a ciascuno, fra un alterco e l’altro, stava maggiormente
a cuore: il ritiro delle truppe Usa per i turbanti, la cessata ostilità per le truppe
a stelle e strisce. Se sarà una vera pacificazione, si vedrà nell’immediato
futuro, perché in quella latitudine anche i patti sottoscritti può portarseli
via il vento di interessi che restano contrapposti. I taliban per quanto hanno
fatto intendere sino alla vigilia dell’accordo non accettano collaborazioni con
l’apparato politico gradito a Washington, che con le presidenziali meno votate
dal 2001 ha rilanciato la coppia Ghani presidente e Abdullah premier. Gli Usa
perché mai dovrebbero chiudere la decina di basi aeree superattrezzate con
caccia e droni per controllare, spiare, bombardare nemici nella vasta area
dell’Asia centrale dove l’Afghanistan si colloca? Certo, per ora restano le
dichiarazioni del portavoce talib, lanciate ufficialmente davanti ai microfoni
dell’emittente Al Jazeera, di “una guerra che è finita”. I tempi per il
ritiro delle truppe americane è indicato attorno ai quattordici mesi. Comprenderanno
i 14.000 propri soldati e gli altrettanti dei 39 Paesi Nato che hanno dato
manforte e vite a quell’occupazione. Nulla si dice dei contractor che ammontano
a 30.000. Il ritiro, anche per questioni logistiche sarà graduale, ma la stessa
gradualità s’era discussa durante l’amministrazione Obama nel 2013-14. Tanto
che l’operazione Nato in corso, Resolute Support, introdotta dal gennaio 2015 è durata finora quattro
anni e due mesi, alternando i militari, non ritirandoli. Alle contraddizioni
passate e presenti il rappresentante del gruppo Internazionale di Crisi Robert
Malley risponde con un filosofico “Nessun
accordo è perfetto e anche questo non fa eccezione”. Vero, verissimo. Ma la
puntualizzazione può anche far pensare al peggio, che vuol dire quella carta
può essere stracciata. In futuro i talebani dovrebbero incamerare la
cancellazione dei loro membri dalla lista dei sanzionati, o forse sarebbe
meglio dire militarmente cacciati. In questi mesi hanno guadagnato il rilascio
dalle prigioni di cinquemila loro adepti, gran parte combattenti e non solo. Effettivamente i turbanti nell’ultima
settimana hanno completamente azzerato qualsiasi iniziativa di guerriglia, cosa
che nell’anno e mezzo di colloqui non era mai accaduta. Mentre fra dieci giorni
dovrebbe seguire l’apertura d’un confronto inter afghano. C’è da chiedersi chi
parlerà con chi. Per i talib l’attuale establishment del Paese non è altro che
un fantoccio al servizio dell’Occidente, dunque proprio l’auspicata continuità di
colloquio potrebbe creare il primo intoppo a un risultato che l’amministrazione
Trump vuole usare come ennesimo traguardo raggiunto nell’ambito della sua
ricandidatura presidenziale.
sabato 29 febbraio 2020
mercoledì 26 febbraio 2020
La visita di Trump incendia l’India
Chiamano “Jai Shri Ram” la mobilitazione anti islamica e vanno a
bruciare la moschea ad Ashok Nagar, area nord di New Delhi. Strada facendo
pestano i musulmani che trovano o gli si fanno contro per via. Non sono le pur attive
squadre della morte che il Bharatiya Janata Party ha ereditato dal precedente
Rashtriya Swayamsevak Sangh di Damodar Savarkar. Sono le decine di migliaia di
cittadini hindu che il premier Modi ha trasformato in fanatici mazzieri e
potenziali assassini, per attuare quel piano di potere basato sullo sfrenato
fondamentalismo di alcuni cattivi maestri d’un secolo fa (Savarkar per
l’appunto) con le cui teorie sta governando la nazione-continente. Uno
scellerato disegno che esalta l’essere hindu a discapito delle altre componenti
etniche e religiose presenti da secoli su quel territorio. Un mix di fanatismo
e razzismo per esaltare la maggioranza hindu, un miliardo di cittadini, ricchi
classi medie e poverissmi, contro i restanti trecento milioni d’indiani. Ma
soprattutto contro i duecento milioni di musulmani. Verso i quali vengono
organizzati attacchi come quello di ieri che - è già accaduto in altre
occasioni - mira ad azzerare culto, tradizioni e la stessa presenza islamica.
Insomma si vuole un’India solo per gli hindu.
Del resto gli ultimi passi istituzionali, quello della scorsa
estate che abolendo un articolo della Costituzione aboliva l’autonomia
amministrativa del Kashmir e il successivo Citizeship Amendment Act, che
impedisce ai soli fedeli musulmani provenienti da Paesi limitrofi l’accoglienza
in India, puntano a infiammare una situazione sociale tesissima. Nell’India
dell’apartheid promossa da Modi succede che i ministri dell’Istruzione e della
Cultura adottino misure atte a cancellare la presenza islamica, che pure ha
segnato un pezzo di storia del Paese. Poi accade che la polizia, ieri è stato
così, anziché disperdere i facinorosi guardi altrove e non impedisca violenze
fisiche e materiali, rivolgendo invece la repressione sulle proteste degli islamici.
Solo ieri si sono registrate venti vittime. Così non solo scompare il principio
pluralistico e pluriconfessionale che caratterizzava l’India moderna voluta da
Ghandi e Nehru, ma si getta benzina su un incendio che non cenna a placarsi. Le manifestazioni
contro il cosiddetto CAA erano in corso da domenica quando si concludeva la
visita lampo del presidente statunitense Trump. Che si è tenuto ben lontano da
trattare questioni come quella dei diritti delle minoranze su cui Washington fa
pressione altrove.
Anzi il presidente statunitense ha detto di apprezzare
Modi e il suo operato. Mentiva, almeno sul piano commerciale. La concreta
motivazione del breve viaggio riguardava questioni di mercato. Le virate
protezioniste del governo di Nuova Delhi hanno infastidito l’amministrazione
americana che ha perso 25 miliardi di dollari di affari col gigante orientale.
Attualmente il commercio bilaterale fra le due nazioni vale 142 miliardi di
dollari. Trump s’è dichiarato fiducioso per una ricucitura mercantile con
l’India e ha lasciato intendere che il mercato delle armi, piatto forte
dell’offerta commerciale americana, può essere d’aiuto alla gestione politica
di Modi con un’ampia scelta di merci: droni, elicotteri da combattimento,
sistema missilistico. I due leader hanno anche preparato un ricambio di visite.
Modi è atteso a settembre a Houston, come ospite di Trump, o più precisamente
della sua campagna presidenziale per il voto americano del prossimo novembre. L’India
che brucia non è certo in cima ai pensieri del capo della Casa Bianca, di cui
analisti politici non solamente indiani hanno ricordato lo spiccato spirito
anti islamico. E la visita s’è potuta chiudere con una vigorosa stretta di mano
e d’intenti futuri.
martedì 25 febbraio 2020
Mubarak è morto
Nessun coccodrillo per la morte di Mubarak. Coccodrillo era lui, e
fingeva di piangere mentre divorava i suoi figli. Non Gamal e Alaa, i due discendenti
legittimi e viziati perché rampolli del raìs, e al suo fianco ladri di risorse
e futuro per i coetanei e per i più giovani ancora. Diversamente da altre
satrapìe mediorientali il babbo non riuscì a piazzarli al posto suo. In realtà
ci aveva provato con Gamal ma nove anni fa, quando doveva festeggiare i
trent’anni di potere personale e di lobby, la rivolta di Tahrir incendiò le
strade del Cairo. Mubarak provò a fermarla facendo uccidere più di ottocento
manifestanti. Non ci riuscì e se ne andò. Arrestato, doveva essere impiccato.
Lo salvarono la casta militare, da cui proveniva, e i giudici sempre ossequiosi
al potere, e per l’allora ottantaduenne Hosni giunse la sentenza all’ergastolo,
da scontare in una caserma dell’esercito, poi finita ai domiciliari perché si
diceva che l’anziano presidente stesse “per morire”. Quindi tre anni fa grazie
a Sisi, uno degli epigoni di divisa che più e meglio di lui sta schiacciando
libertà e speranze degli egiziani, Mubarak tornò nella sua casa a Heliopolis. Oggi,
dopo un ricovero in ospedale nel fine settimana, il presidente che più a lungo
ha governato il grande Paese arabo ha cessato di vivere. Aveva 91 anni.
Pilota dell’aeronautica militare, era vicepresidente di Anwar
Sadat quando questi nel 1981 venne assassinato. Gli subentrò al comando d’una
nazione che già aveva stretto una ferrea alleanza con gli Stati Uniti. Nel giro
di tempi non lunghi anche i rapporti con Israele divennero distensi a tutto
discapito dei palestinesi, soprattutto della Striscia di Gaza, di cui l’Egitto
mubarakiano divenne il carceriere sulla frontiera meridionale per compiacere
Tel Aviv e Washington. Ma, anno dopo anno, un sistema di clientele di corpo,
quello delle Forze Armate che controllano una gran quantità di attività
economiche - dalla manifattura all’agricoltura dalle costruzioni al turismo -
fu convertito anche in sistema di accaparramento personale, col raìs in prima
fila assieme a sodali quali Shafiq. Per la cronaca diventata storia recente,
quest’ultimo fu l’ex militare prestato alla politica su cui l’entourage del
presidente disarcionato aveva fatto convergere i voti dei foloul per la sfida all’islamista Morsi alle elezioni del 2012. Il
trentennio di Mubarak può essere ricordato come uno scenario politico di
servilismo agli interessi dell’imperialismo in cambio, appunto, di mani libere
per ruberie e corruzioni interne ai danni d’una popolazione sempre più impoverita
e intimorita dalle angherie di polizia e servizi segreti. Le stesse proseguite
e ampliate dal generale-golpista ora al comando.
lunedì 24 febbraio 2020
Voto iraniano, bassa affluenza alto consenso conservatore
Bassa la percentuale di voto alle parlamentari
iraniane, un 42% nazionale che è la più flebile partecipazione dalla nascita
della Repubblica Islamica, con un misero 25% nella capitale. Ma con quel 25%
l’ex sindaco di Teheran, nonché comandante delle Guardie della Rivoluzione
Mohammad Bagher Qalibaf, balza alla testa dei candidati preferiti dal popolo
elettore. Un successo personale che lo proporrà come elemento di spicco per le
presidenziali dell’anno prossimo. Qalibaf aveva partecipato anche alla tornata
presidenziale del 2017, rivinta da Rohani, e non era risultato l’elemento con
maggiori consensi sul fronte tradizionalista. La gente gli aveva preferito il
chierico Raisi, che molte voci considerano il sostituto naturale alla carica di
Guida Suprema, quando Khamenei passerà nei cieli di Allah. Eppure Khamenei,
dato per spacciato da anni per problemi di salute, resta ancorato al suo
incarico di uomo chiave della nazione. Commentando il voto e i problemi legati
all’infezione Covid-19 - esplosa con alcuni casi di morte e conseguenti colpiti
(finora si registrano 12 decessi, sebbene un deputato abbia dichiarato 50 vittime solo a Qom, città dell'iniziale contagio) proprio alla vigilia
dell’apertura delle urne - la Guida ha ribadito come la paura “diffusa ad arte”
dai nemici dell’Iran per tenere in casa gli elettori ha prodotto solo
parzialmente l’effetto negativo della diserzione dei seggi.
Se così fosse verrebbe
avvalorata la tendenza astensionista scelta dal fronte riformista che,
Coronavirus o meno, aveva deciso di boicottare il voto. Questa è la valutazione
di molti osservatori che ricordano la definitiva frattura creatasi fra gli
elettori progressisti e quel centro moderato che aveva espresso nel 2013
l’ipotesi Rohani, ribadita pur con parziali defezioni nel 2017. Ora i riformisti
hanno nuovamente imboccato la via nascosta della non partecipazione alla rappresentanza,
seppure in parlamento compare un manipolo d’una ventina di deputati di questo
fronte. A cui s’uniscono 35 deputati indipendenti e i cinque esponenti delle
minoranze religiose cui è garantito il seggio (zoroastriani, ebrei, assiri, caldei,
armeni). Questo significa che il fronte pro regime fa il pienone nel Majlis,
accaparrandosi gli altri 230 posti. Si sa che questo blocco non è uniforme. Non
lo è stato anche quando aveva espresso la presidenza di Ahmadinejad, frutto d’un
compromesso fra il clero tradizionalista e la componente laica
militar-politico-economica dei Pasdaran. Nei sondaggi realizzati proprio nel
corso delle presidenziali del 2017 che rielessero Rohani, emerse con un
cospicuo 15% il gradimento alle posizioni principaliste basate su
conservatorismo, realpolitik, populismo e tradizione teocratica. E il successo
di Qalibaf è basato proprio sull’alleanza col cosiddetto Fronte Islamico della
Stabilità, guidato da Morteza Agha Tehrani.
Oggi sessantatrenne, Tehrani non è un volto nuovo
della componente ultraconservatrice. Il suo mentore è l’anziano ma sempre
potente ayatollah Taqi Mesbah Yazdi, entrambi si spesero a favore di
Ahmadinejad nella scalata al potere nel
2005, fino alla sua perdita di credibilità di agli occhi della Guida Suprema. Diversamente
dai riformisti, dispersi nella difficile fase attraversata dal Paese con
contestazioni dell’establishment per i problemi economici dettati dalle nuove
restrizioni statunitensi e dall’embargo strisciante degli anni passati che oggi
producono un’inflazione del 33%, i
principalisti rivendicano la bontà del pur dispendioso impegno militare sugli
scenari di guerra mediorientali (Siria, Yemen e resistenza sud libanese) per
tamponare l’isolamento geopolitico del Paese, da anni “sotto attacco del nemico
occidentale e sionista”. Una linea che è coesistita al cambio di marcia con le
aperture diplomatiche dalla coppia Rohani-Zarif che, però, non ha pagato. Anzi,
l’Iran di recente ha vissuto lo sfregio dell’assassinio d’una figura simbolo,
quel generale Soleimani in predicato per un ruolo politico di spicco. Allo
spirito combattente, all’orgoglio nazional-popolare si rifà il principalismo
per proporre una nuova scalata al potere. E ha dalla sua il fatto che né ai
tempi di Khatami, né con la ben più contenuta gestione Rohani l’Occidente si
sia mostrato amico.
venerdì 21 febbraio 2020
Iran, lontani dalle urne per dissenso o coronavirus?
Riempire i 290 seggi del Majlis, il Parlamento
iraniano, rientra nella normale turnazione elettorale che prevedeva per oggi la
scadenza di voto. Cinquantotto milioni di elettori, di cui almeno tre milioni
alla prima esperienza nei seggi, dovevano scegliere fra le candidature che
hanno superato il vaglio del Consiglio dei Guardiani, da sempre formato da
uomini prossimi alla Guida Suprema. Anche in tale circostanza la “scrematura”
ha eliminato gran parte dei rappresentanti riformisti che provavano a superare
le maglie della supervisione di un organo fortemente controllato dalla
componente conservatrice vicina ad Ali Khamenei. Alla competizione erano
iscritti 7.000 candidati, con una bassa presenza femminile pari al 6.6%. Nei
55.000 seggi predisposti per il voto l’affluenza è risultata scarsa. Alcuni
osservatori parlano di apatia verso un panorama rimasto sotto il controllo del
governo, compreso il presidente Hassan Rohani che molte aspettative ha deluso e
che l’anno prossimo chiuderà il secondo mandato. Dopo le ondate di protesta con
cui, in più occasioni, s’è misurato il Paese per motivi economici, compresa la
galoppante inflazione e l’aumento del prezzo del carburante; quindi la nuova
crisi geopolitica con gli Usa per l’assassinio del generale Soleimani, le
polemiche sull’abbattimento dell’aereo di linea ucraino da parte del servizio
di sicurezza dei Pasdaran, ci si aspettava più che nuove contestazioni un
dissenso silenzioso.
Pare sia andato così. Sebbene molte figure pubbliche si siano spese
per invitare il popolo a recarsi alle urne, dal Khamenei che ha ricordato i
valore religioso del voto, allo stesso Rohani che ne sottolineava quello
politica volto a rintuzzare la boria statunitense. Anche taluni parlamentari
uscenti hanno ribadito come la gente doveva esprimere negli stessi seggi
quell’afflato mostrato con le grandi manifestazioni di massa registrate in
occasione dei funerali di Soleimani e nel 41° anniversario della Rivoluzione
Islamica. Però i fatti sembrano smentirli. Certamente i risultati finali
porteranno nell’aula i rappresentanti del popolo iraniano, ma a essere
rappresentato sarà un pezzo del Paese, quello che elegge i candidati più
conservatori, i cosiddetti falchi, molto più numerosi dei centristi della
corrente di Rohani, fortemente in ribasso. Come detto, le candidature
riformiste erano assenti. Quell’area evidenzierà il dissenso col mancato accesso
ai seggi dei propri elettori. Ma viene ricordato che sulla scarsa affluenza alle urne ha pesato non poco
il fantasma del coronavirus. Materializzatosi nei giorni scorsi a Qom con due
casi finiti con altrettanti decessi. In più sono state registrate altre tre infezioni,
due sempre a Qom, un’altra ad Araq e riguarda un medico. Dalle autorità sanitarie
si è appreso che i due deceduti non avrebbero avuto contatti con persone che si
erano recate in Cina, né con stranieri di qualsiasi nazione. Cosa che, fra i
vari misteri del Covid-19, potrebbe far presupporre lo sviluppo d’un focolaio interno. E’ un simile timore che ha tenuto a
casa tanti potenziali elettori? Talune notizie lo smentiscono, visto che, finora,
proprio a Qom caffè e locali risultano frequentati.
mercoledì 19 febbraio 2020
Erdoğan-Asad, presidenti guerrieri
Erdoğan minaccia un’imminente operazione militare a
Idlib, la zona ribelle anti Asad che quest’ultimo vuole sbaragliare per
completare la riconquista del nord della Siria. Ovviamente di quel territorio
dove il suo esercito - aiutato via terra dai pasdaran iraniani, via aria
dall’aviazione russa - ha negli ultimi quattro anni stroncato gli ampi focolai
jihadisti. Nella mappa provvisoria d’un Paese frantumato c’è pure l’area di
nord-est dove insistono le Forze Democratiche Siriane, l’alleanza kurdo-araba
che s’è opposta al governo di Asad. E le famose enclavi del Rojava, spazzate
via dall’invasione turca dell’autunno scorso. L’esercito di Ankara, con
l’accordo a due stabilito fra Erdoğan e Putin, ha occupato con cingolati e
autoblindo le pianure di Afrin, Tal Abyad, Ras al-Ain. Il mondo ha visto la
protervia e il cinismo con cui i potenti decidevano di scacciare gli abitanti
del luogo e azzerare l’esperimento di autogoverno democratico che lo
caratterizzava da oltre cinque anni. La zona di sicurezza contro il “pericolo
terrorismo” non era altro che un’espansione turca a danno degli odiati kurdi.
Popolo non amato neppure dal penzolante governo di Damasco, in questi anni di
crisi e conflitto a tutto campo salvato da alleati interessati e da strategie
geopolitiche che in Medio Oriente promuovono uomini e governi forti per
contrastare stravolgimenti socio-politici.
La guerra contro i civili è l’aspetto più odioso che il mondo politico
ha avuto sotto gli occhi, restando fermo. Con organismi internazionali (Nazioni
Unite) impotenti, talune superpotenze disinteressate o incapaci di agire (Stati
Uniti e Unione Europea), altre (Russia) interessatissime e attivissime, come
certi Paesi che incarnano una supremazia regionale sempre più in punta di
missile o di Jihad (Turchia, Iran, Arabia Saudita). I civili, a milioni, sono
restati solo bersagli. Per eccidi che proseguono da tempo, rivolti non solo e
tanto ai combattenti, bensì a coloro che avevano la sfortuna di abitare in quei
luoghi da generazioni. Costoro hanno subìto deportazioni, talune indotte, altre
scelte da sé per salvare la pelle. In tanti non ce l’hanno fatta e continuano a
non farcela. Solo in questi cinquanta giorni del 2020, trecento civili sono morti
sotto le bombe dei lealisti di Asad che puntano a occupare Idlib. Non sapevano
dove fuggire. Né gli strateghi della morte hanno consentito lo sgombero di
certi teatri di scontro. Nella regione di Idlib quasi un milione di oggettivi
profughi sono accalcati in campi predisposti dall’Unhcr, e da settimane assediati
anche da una morsa di gelo, che di per sé ha provocato vittime e malati cronici
fra bambini e anziani. Nel personale piano di pseudo legittimità e supremazia i
presidenti guerrieri se ne infischiano di tutto ciò e sulla testa della gente che dicono di difendere, continuano a
decretarne la morte.
domenica 16 febbraio 2020
Caso Zaky, l’Unione Europea scopre il mal d’Egitto
Ora che Patrick George Zaky, lo studente egiziano
specializzando presso l’Università di Bologna risulta incastrato nel perverso
sistema studiato dalla giustizia del suo Paese, che in ogni semestre, o anche
meno, aggiunge un tassello repressivo a
presunti accusati di “terrorismo antistatale”, la democratica Unione Europea
sembra svegliarsi dal colpevole torpore, applicato pervicacemente per anni
verso taluni attacchi ai diritti umani. L’ha fatto col nuovo presidente,
l’italiano David Sassoli. Un giornalista
prestato alla politica, europea per l’appunto, con l’ingresso nel parlamento di
Bruxelles nel 2009, cui è seguito la scalata alla prestigiosa carica di
rappresentanza. Sassoli s’è speso per la vicenda Zaky, dichiarando che l’Unione
“deve condizionare i suoi rapporti con
nazioni terze al rispetto dei diritti umani”. Le Istituzioni del Cairo,
tramite il presidente del parlamento locale, Abdel Aal, hanno immediatamente
reagito, definendo le dichiarazioni del presidente Ue “un’inaccettabile interferenza”. Nella piccata risposta, uno degli
uomini-regime di Al Sisi involontariamente s’incarta, affermando: “L’imputato gode di pieni diritti, come gli
altri arrestati, senza discriminazioni”, che non è proprio quel che accade
agli imputati egiziani, da troppi anni. Peraltro, ora le condizioni peggiorano:
il regime militare e il suo presidente simbolo, introducono un inasprimento
della legge già in vigore sul terrorismo che prevederà pene estreme: ergastolo
e condanna a morte.
C’è da tener presente che, come ultimamente Zaky sta purtroppo
provando sulla sua pelle, l’orientamento del governo punta a considerare
“terrorista” qualsivoglia manifestazione non solo di dissenso o di contrarietà
a ciò che nel Paese accade dal golpe bianco del 2013, ma ogni riferimento di cronaca e di commento delle
vicende interne. Sia fatto da addetti all’informazione, giornalisti, o da
blogger e da semplici cittadini sui social media o per via. Tutti controllati, sul
territorio egiziano da agenti ordinari o mukhabarat, e da altri “osservatori” pure
nei canali virtuali del web; visto che certe accuse mosse al dottorando,
catturato mentre rientrava in patria per una visita ai familiari,
riguarderebbero proprio sue espressioni comparse sui social media. Nel primo
incontro coi magistrati Zaky le ha smentite, sostenendo come il profilo in
questione non sia un suo frutto. Ma al di là della linea adottata dalla difesa,
e le posizioni della famiglia Zaky che puntano a tener fuori il giovane da paragoni
mediatici col drammatico caso Regeni, quest’ennesima vicenda ha l’amarissimo
sapore che altri giovani (attivisti, giornalisti, studenti e studiosi) egiziani
e il ricercatore italiano Giulio Regeni
hanno vissuto negli anni passati. E la società civile che si stringe attorno a
Zaky per cercare di evitargli il peggio (che ovviamente non dev’essere
l’orrenda fine che i “Servizi di sicurezza” del Cairo hanno riservato a tanti),
ma anche la trafila della galera infinita, è un passo importante per
risvegliare dall’indifferenza i grandi assenti del mal d’Egitto.
Costoro sono innanzitutto i politici, italiani ed europei,
cui il regime di Sisi fa comodo. Fa comodo ai loro affari, economici e
geostrategici, che riguardano gli armamenti da vendere perché il Cairo duetti
con gli uomini forti in azione in Medio Oriente, si chiamino bin Salman o Haftar.
E se serve Erdoğan e Asad, due satrapi che da anni muovono le proprie armi
contro le loro minoranze e anche la propria gente. Non solo una bella fetta
della politica nostrana ed estera se ne frega di quel che le accade attorno e
ancor più dei diritti civili. La stessa cittadinanza, la gente comune non s’era
finora allarmata per quel che accadeva ai Regeni d’Egitto nelle prigioni speciali
dove si entra il piedi e si esce distesi. Oppure non risulta neppure d’esser crepati. Poiché dei Morsi
padre, l’ex presidente perseguitato, e figlio, entrambi deceduti per collasso
in galera, bisogna giocoforza dare un’informazione, seppure laconica. Delle
centinaia, forse migliaia, di egiziani deceduti per violenze o malattie e
stenti nelle celle e nelle camere di tortura si può tacere. E di conseguenza tacitare
gli avvocati dei diritti che provano a ricercarli, ma in tanti casi non sanno
neppure chi e dove. Se quest’Egitto - che esiste dall’agosto 2013, quando tante
anime belle della sedicente “seconda rivoluzione egiziana” che spazzava via il
governo della Fratellanza osannavano la democrazia dei militari - verrà
considerato non un affidabile partner, bensì un persecutore dei suoi figli,
solo allora giovani come Zaky potranno sperare di poter tornare a vivere.
lunedì 10 febbraio 2020
Egitto, salvare Zaky dalla repressione di Sisi
Qual è la colpa di Patrick George Zaky, ventisettenne
egiziano, attivista e ricercatore all’Università di Bologna? Per il regime del
presidente-torturatore Al Sisi lui è: un diffusore di notizie false, un
istigatore di proteste di piazza, un attentatore del sistema politico e della
sicurezza nazionale egiziani. In una parola un terrorista. Per questo quando la
scorsa settimana, incautamente, ha provato a rientrare nel suo Paese dopo
cinque mesi trascorsi per gli studi nell’Università felsinea, è stato fermato
all’aeroporto del Cairo e condotto dai poliziotti in un luogo segreto. Come i
cento, come i mille e i diecimila attivisti egiziani che dal 2013 subiscono un
simile trattamento finendo in fetide celle di famigerate galere, dove vengono
seviziati e lasciati marcire con conseguenze letali per i più deboli. Oppure
spariscono, definitivamente assassinati. Alcuni, un caso a noi noto porta il
nome di Giulio Regeni, ricompaiono come cadaveri violati. Di altri si perdono
definitivamente le tracce e guai a cercarne notizie. Le strutture di sicurezza del
Cairo possono agire verso parenti, amici, attivisti, avvocati dei diritti che
cercassero di sapere qualcosa sulle misteriose scomparse. Pronti per loro le
accuse di terrorismo con cui l’apparato della forza e quello politico
terrorizzano novanta milioni di egiziani. Quelli che detestano tale sistema e
anche chi gli strizza l’occhio per consenso o timore di finir triturato nei
suoi ingranaggi repressivi.
Fior fior di associazioni internazionali dei diritti pongono da
anni domande alla politica internazionale attorno alle violazioni e al clima
liberticida avallato dalle più alte cariche dello Sato: il presidente Al Sisi, i
ministri dell’Interno (Ghaffar), degli Esteri (Shoukry), della Giustizia
(Marwan), apparati della magistratura sono implicati in prima persona in questa
saga dell’infamia assassina, ma non ne rispondono. Non l’hanno fatto neppure
davanti alle inchieste ufficiali dei procuratori di Roma che per due anni hanno
svolto indagini per scoprire responsabili e mandanti dell’omicidio Regeni.
Ufficialmente l’Egitto prigioniero del clan di Al Sisi ha ostacolato quelle
indagini facendosi beffa d’una nazione che le si mostra amica, chiedendole
aiuto in un’iniziativa di giustizia. In quattro anni non s’è mosso nulla e i quattro
governi italiani che si sono succeduti hanno ingoiato amaro e accettato quelle infamie.
Prigionieri, come sono stati e sono, degli affari economici che ci legano all’altra
sponda del Mediterraneo, con l’Eni a sostenere il mantenimento dei rapporti in
cambio dello sfruttamento dei giacimenti di gas, la Finmeccanica infoiata nella
fornitura di armi e il quadro geopolitico della Nato che inserisce il regime
militare egiziano nel gruppo degli alleati garanti del conservatorismo
ideologico-sociale-militare in Medio Oriente accanto alle petromonarchie del
Golfo. Per la cronaca Zaky aveva diffuso sui social media frasi come "Il governo egiziano limita il dissenso" oppure "voci contrarie non sono ammesse". E aveva la 'colpa gravissima' di collaborare con l'ong Egyptian Commission for rights and freedoms.
mercoledì 5 febbraio 2020
L’India di Modi non tira più
Nella grande nazione indiana le turbolenze di piazza
degli ultimi mesi non hanno riguardato solo l’autonomia del Kashmir, che
secondo i locali è stata azzerata dallo scorso agosto con l’abrogazione
dell’articolo 370 della Costituzione imposta dal premer Modi. Né le proteste
contro la successiva norma sull’accoglienza di minoranze etnico-religiose dai
Paesi confinanti, che escludeva i musulmani. Tutto ciò continua a mobilitare.
Però la gente scende per le strade anche per le crescenti difficoltà economiche,
e in questo caso non si tratta di soli cittadini islamici. Il sensibile
rallentamento economico è una realtà con cui gli indiani fanno drammaticamente i
conti, nel senso che per tanti di loro il salario mensile non basta.
Attualmente uno stipendio medio s’aggira sui 200 euro, ovviamente c’è chi ne
guadagna molto meno e comunque cerca di tenersi il lavoro perché in troppe città
s’aggira lo spettro della disoccupazione. In questi giorni la ministra
dell’economia Nirmala Sitharaman ha annunciato un paio di misure per far tenere
la rotta al governo: una riorganizzazione delle imposte e un piano di
privatizzazioni. Questo coinvolge due pezzi pregiati dell’economia interna che
verranno venduti: la compagnìa aerea nazionale Air India e la Life Insurance
Corporation, l’assicurazione generale della nazione che era una vera
istituzione. Sessantaquattro anni di vita, era sorta riunificando oltre 200
compagnie private, occupa 110.000 di indiani e vanta circa 300 milioni di
clienti.
La Lic, finisce sul mercato dando vita a una delle
maggiori capitalizzazioni borsistiche del continente-nazione, contabilizzata a
oltre 100 miliardi di euro. Tutto per sostenere un’economia che non va, con un
Pil fermo fra il 5 e il 6%, mentre gli esperti finanziari sostengono che il
minimo accettabile dovrebbe essere l’8%. Peraltro gli osservatori economici,
analizzando il programma che la ministra di Modi ha presentato a fine del 2019,
guardano alla sua scommessa di privatizzazione come a un’incognita. C’è una
lista di ben 6500 progetti e 1.300 miliardi di euro che coinvolgono
prevalentemente trasporti, con la previsione di costruire un centinaio di
aeroporti, energia e irrigazione. Quest’ultima coinvolge il settore agricolo
che non ha più le percentuali di prodotto dei decenni passati, però continua a
occupare centinaia di milioni di abitanti di tantissime aree rurali. Insomma la
trasformazione dell’economia in senso tecnologico con un’ampia ricaduta
occupazionale (Modi alla prima elezione nel 2014 prometteva 20 milioni di posti
di lavoro all’anno) appare ferma. Ma gli stessi introiti maggiori che lo Stato
pensava d’ottenere aumentando le imposte di vari prodotti dal 22% al 30% subirà
un freno poiché potrebbe bloccare quella spinta al consumo che proprio il governo
cerca d’incentivare. Coi bassi salari e l’aumento dei prezzi il mercato si
ferma, un baco vizioso del vizioso sistema mercantile. Le rivendicazioni,
dunque, si spostano sul fronte economicistico, forse anche per questo il
diversivo del conflitto etnico-religioso pareva un salvagente. Ma non è escluso
che l’onda anomala del conflitto sociale renda Modi un naufrago in un Oceano
indiano sempre più agitato.
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