A chi hanno affidato il loro messaggio e le loro vite martirizzate i due assalitori di Kahramankazan lanciati contro Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca? Una scenografia simbolica: kalashnikov contro i sofisticati strumenti da guerra lì progettati e prodotti, in un impari scontro che ha aggiunto all’iniziale prologo di morte (cinque le vittime dell’attentato) altrettante nella risposta proprio dell’aviazione turca attiva il giorno seguente su quarantasette postazioni kurde dislocate fra Iraq e Siria. Palesata l’apertura a un possibile dialogo, accantonato da molti anni, fra il condannato eccellente e padre del Partito kurdo dei lavoratori Öcalan e l’attuale maggioranza del Meclis nella persona del ‘Lupo grigio’ Bahçeli, il gruppo dirigente di Qandil fa capire di non gradire la mossa. Sebbene tutto sia fermo da oltre un decennio, e in questo tempo tanto sia peggiorato per la numerosa comunità kurda di Turchia, i capi della montagna sembrano togliere la parola al leader piombato nell’isola di İmrali. Pare ripetersi un deja vu, conosciuto fra il 2012 e 2013, quand’erano in corso i famosi colloqui fra ‘Apo’ Öcalan e l’allora boss del Mıt Fidan, fedelissimo di Erdoğan poi dislocato sul fronte diplomatico. Insomma Bahçeli, che fa le veci del presidente turco, giorni fa aveva aperto uno spiraglio parlando di “diritto alla speranza”, che per la legge nazionale si può applicare agli ergastolani, non a chi è considerato un terrorista come Öcalan. Eppure con uno scambio reciproco questa via potrebbe essere intrapresa. A inizio ottobre la distensione s’avvaleva dell’interposizione di alcuni membri del Partito Democratico dei Popoli, la componente kurda presente in Parlamento che vede tuttora detenuto il co-presidente Demirtaş e altri onorevoli. “Pace dignitosa” chiosava Hatimogullari, attuale leader, e si è continuato con la rivisitata ipotesi della chiusura del ciclo armato che ha fatto ridire a Erdoğan: “Ci aspettiamo che ciascuno si renda conto che non c’è posto per il terrorismo e la sua ombra oscura nel futuro della Turchia”.
Forse Öcalan e Demirtaş sono d’accordo, Karayilan, uno dei leader del Pkk armato, no. Infatti alcuni commentatori di lungo corso del conflitto a ‘media intensità’ che in Anatolia presegue da quarant’anni non credono alla possibilità che la volontà del settantacinquenne iniziatore delle rivendicazioni kurde siano ascoltate sulle montagne turco-irachene. Nonostante i recenti bombardamenti, nonostante arresti e retate rivolte anche alla popolazione civile, anzi proprio quest’ultima colpita indiscriminatamente, viene ricordata dall’odierno comunicato ufficiale del Pkk che si attribuisce l’assalto alla Tusaş produttrice di morte. Gli ottimisti sostengono che nonostante i funerali e il lutto i colloqui ci saranno. Troppo alta la posta in gioco, al di là di guerra e pace interne, i tatticismi dei mossieri convergono sui precari equilibri, risicati in fatto di voti, per le elezioni future. L’assalto del Partito repubblicano alla presidenza della Repubblica per ora è stato sventato, però Erdoğan è al capolinea: per ricandidarsi dovrebbe avere il conforto d’un ritocco costituzionale, come quello che nel 2017 trasformò il Paese in repubblica presidenziale. I trentacinque milioni di kurdi di Turchia, il loro partito (Dem) terza forza nazionale, sono un bacino elettorale appetitoso se il blocco di maggioranza relativa riuscirà a barattarne un sostegno. In cambio l’aria di libertà per i kurdi reclusi, capi e gregari. Probabilmente anche alcune garanzie in più riguardo ad amministrazione delle province orientali, mentre sui diritti di autodeterminazione, che erano il pezzo forte delle richieste di ‘Apo’ un quindicennio fa, per ora nulla traspare. Fra la scommessa, totalmente interessata, dei volponi di governo e il possibilismo dei leader reclusi, c’è il dubbio che contrappone eventuali accordi e la mitologia della guerriglia d’altura e urbana degli irriducibili della lotta armata. Di fatto kalashnikov contro jet Kaan.