venerdì 25 ottobre 2024

Turchia kurda, la pace e la guerra

 


A chi hanno affidato il loro messaggio e le loro vite martirizzate i due assalitori di Kahramankazan lanciati contro Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca? Una scenografia simbolica: kalashnikov contro i sofisticati strumenti da guerra lì progettati e prodotti,  in un impari scontro che ha aggiunto all’iniziale prologo di morte (cinque le vittime dell’attentato) altrettante nella risposta proprio dell’aviazione turca attiva il giorno seguente su quarantasette postazioni kurde dislocate fra Iraq e Siria. Palesata l’apertura a un possibile dialogo, accantonato da molti anni, fra il condannato eccellente e padre del Partito kurdo dei lavoratori Öcalan e l’attuale maggioranza del Meclis nella persona del ‘Lupo grigio’ Bahçeli, il gruppo dirigente di Qandil fa capire di non gradire la mossa. Sebbene tutto sia fermo da oltre un decennio, e in questo tempo tanto sia peggiorato per la numerosa comunità kurda di Turchia, i capi della montagna sembrano togliere la parola al leader piombato nell’isola di İmrali. Pare ripetersi un deja vu, conosciuto fra il 2012 e 2013, quand’erano in corso i famosi colloqui fra ‘Apo’ Öcalan e l’allora boss del Mıt Fidan, fedelissimo di Erdoğan poi dislocato sul fronte diplomatico. Insomma Bahçeli, che fa le veci del presidente turco, giorni fa aveva aperto uno spiraglio parlando di “diritto alla speranza”, che per la legge nazionale si può applicare agli ergastolani, non a chi è considerato un terrorista come Öcalan. Eppure con uno scambio reciproco questa via potrebbe essere intrapresa. A inizio ottobre la distensione s’avvaleva dell’interposizione di alcuni membri del Partito Democratico dei Popoli, la componente kurda presente in Parlamento che vede tuttora detenuto il co-presidente Demirtaş e altri onorevoli. “Pace dignitosa” chiosava Hatimogullari, attuale leader, e si è continuato con la rivisitata ipotesi della chiusura del ciclo armato che ha fatto ridire a Erdoğan:  Ci aspettiamo che ciascuno si renda conto che non c’è posto per il terrorismo e la sua ombra oscura nel futuro della Turchia”. 

 

Forse Öcalan e Demirtaş sono d’accordo, Karayilan, uno dei leader del Pkk armato, no. Infatti alcuni commentatori di lungo corso del conflitto a ‘media intensità’ che in Anatolia presegue da quarant’anni non credono alla possibilità che la volontà del settantacinquenne iniziatore delle rivendicazioni kurde siano ascoltate sulle montagne turco-irachene. Nonostante i recenti bombardamenti, nonostante arresti e retate rivolte anche alla popolazione civile, anzi proprio quest’ultima colpita indiscriminatamente, viene ricordata dall’odierno comunicato ufficiale del Pkk che si attribuisce l’assalto alla Tusaş produttrice di morte. Gli ottimisti sostengono che nonostante i funerali e il lutto i colloqui ci saranno. Troppo alta la posta in gioco, al di là di guerra e pace interne, i tatticismi dei mossieri convergono sui precari equilibri, risicati in fatto di voti, per le elezioni future. L’assalto del Partito repubblicano alla presidenza della Repubblica per ora è stato sventato, però Erdoğan è al capolinea: per ricandidarsi dovrebbe avere il conforto d’un ritocco costituzionale, come quello che nel 2017 trasformò il Paese in repubblica presidenziale. I trentacinque milioni di kurdi di Turchia, il loro partito (Dem) terza forza nazionale, sono un bacino elettorale appetitoso se il blocco di maggioranza relativa riuscirà a barattarne un sostegno. In cambio l’aria di libertà per i kurdi reclusi, capi e gregari. Probabilmente anche alcune garanzie in più riguardo ad amministrazione delle province orientali, mentre sui diritti di autodeterminazione, che erano il pezzo forte delle richieste di ‘Apo’ un quindicennio fa, per ora nulla traspare. Fra la scommessa, totalmente interessata, dei volponi di governo e il possibilismo dei leader reclusi, c’è il dubbio che contrappone eventuali accordi e la mitologia della guerriglia d’altura e urbana degli irriducibili della lotta armata. Di fatto kalashnikov contro jet Kaan.

mercoledì 23 ottobre 2024

Turchia, tornano gli attentatori

 


Nuovo terrore in Turchia. Quattro morti, fra cui gli assalitori, e quattordici feriti è il bilancio d’un attacco compiuto da un commando presso la maggiore azienda aerospaziale di Stato (TUSAŞ) situata a Kahramankazan, una piccola località a una quarantina di chilometri dalla capitale. Nel sito lavorano quindicimila addetti, in sintonìa con la Nato si producono nuovi modelli di caccia e i droni Kizilelma Bayraktar, fiore all’occhiello della tecnologia bellica anatolica. La polizia, e lo stesso Mıt, esaminano i filmati delle telecamere di sicurezza in cui sono impressi i volti scoperti d’un uomo con uno zaino e un fucile d’assalto, coadiuvato da una donna. Giunti in taxi davanti ai cancelli della struttura hanno immediatamente iniziato a sparare, hanno anche fatto esplodere un ordigno e nei video scandagliati dalle forze dell’ordine s’intravede molto fumo. Penetrando all’interno degli uffici hanno preso in ostaggio alcune persone poi liberate dall’intervento di reparti di sicurezza che hanno ucciso la coppia armata. Non c’è stata finora alcuna rivendicazione. Il ministro dell'interno Ali Yerlikaya ha fatto riferimento a “Tre martiri e quattordici feriti, tre dei quali in gravi condizioni”, forse non parlava del commando. Le ipotesi sull’attacco oscillano dall’Isis, ai sedicenti Falconi della Libertà, gruppo vicino o fuoriuscito dal Partito dei Lavoratori Kurdi (Pkk) oppure direttamente a quest’ultimo. Questo partito vive una spaccatura fra un’indomita componente militarista che mal digeriva già più d’un decennio addietro la linea aperturista di Öcalan, padre storico del Pkk e storico internato nel supercarcere di İmralı e chi non voleva e non vuole chiudere il capitolo della lotta armata. Negli ultimi anni la Turchia è stata teatro di molteplici attentati, con le città vetrina di Istanbul e Ankara nel mirino. L’ultimo fuoco c’era stato nel novembre 2022 nella centralissima İstiklal Caddesi, la via del passeggio e dello shopping degli istanbulioti, sei i morti e sospetti vicini ai citati Falconi. La metropoli sul Bosforo era già stata bersagliata: la notte di Capodanno 2017 presso la discoteca Reina nel quartiere di Beṣiktaṣ un uomo scaricava un kalashnikov in una sala zeppa di astanti festosi: trentanove morti. Gli scampati all’agguato sostennero che l’attentatore parlava arabo. Qualche giorno prima ad Ankara l’ambasciatore russo in Turchia, Karlov, veniva freddato da un poliziotto turco che gli faceva da scorta. Questi mentre sparava intonò un inno qaedista. In quell’anno i Falconi della Libertà nel cuore di Ankara avevano prodotto mortali esplosioni costate la vita a trentasette cittadini e agli stessi attentatori kamikaze. Mentre nel luglio 2015 a Suruç sul confine siriano, un’associazione giovanile socialista che stava organizzando una missione di sostegno e ricostruzione per l’assediata enclave kurda di Kobanê registrò un attentato con trentadue giovani vittime. Sospetto sull’Isis, certezze nessuna. Sospetto d’intrecci con le Intelligence parecchi. E comunque non finisce. Mentre Erdoğan e Putin, in passato competitori e da tempo dialoganti, parlavano nel consesso dei Brics gli attentatori si riaffacciano all’uscio. Per la cronaca la Farnesina comunica che i tecnici italiani di Leonardo spa presenti oggi presso la TUSAŞ sono tutti sani e salvi. 

 

lunedì 21 ottobre 2024

Muore Gülen l’incubo di Erdoğan

 


Il tempo fa il suo percorso e si porta via il predicatore e magnate Fethullah Gülen, l’alleato e poi acerrimo nemico del sultano Recep Tayyip Erdoğan. Lo liquida magari in anticipo, Gülen aveva ottantatré anni, ma l’uomo era malato già da quando, venticinque anni or sono, si autoesiliò in Pennsylvania. O almeno questo faceva credere. Eppure fu proprio in quella fase che, nonostante i molti chilometri di distanza, la prossimità fra i due personaggi vide luce e divenne stretta. Erdoğan aveva da poco fondato il Partito della Giustizia e Sviluppo (Akp), dopo aver scontato alcuni mesi di reclusione per il suo islamismo politico spinto, sebbene quella condanna fosse ideologica. Mossa dal kemalismo presente in seno alla magistratura che non sopportava i versi del poeta Ziya Gökalp, citati dall’allora sindaco di Istanbul in un comizio: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli che pregano i nostri soldati”. I due si avvicinarono perché l’obiettivo di scardinare dall’interno il sistema creato da Kemal Atatürk era comune. Gülen ci aveva lavorato sin da giovane, dopo avere per anni studiato il Corano per induzione paterna. Passò di moschea in moschea da Edirne a Izmir e come suo padre divenne un predicatore. Frequentando case studentesche e dormitori comprese l’importanza della triade: istruzione, predicazione, organizzazione e da lì iniziò a riprodurre questi servizi per la struttura denominata appunto Hizmet, che in turco assume quel significato. Erano gli anni Sessanta. Il Paese anatolico, soggiogato da uno sfrenato nazionalismo, passava da un golpe militare all’altro, la tattica dell’Hizmet gülenista si basava su crearsi consenso e affiliazioni, transitando dalla scuola, nei ruoli d’insegnanti e studenti, all’apparato amministrativo statale. Un entrismo più arduo era quello fra le Forze Armate, cuore del laicismo kemalista, ma gradualmente anche lì la Confraternita scavava le sue nicchie e s’insediava. Quindi i media. Moschee, bollettini e poi giornali e radio e televisioni si trasformavano se non in un impero in apparato ben strutturato, che comunque produceva utili da reinvestire in ulteriori strutture. Gülen non faceva direttamente politica, ma poteva influenzarla. Erdoğan dopo un’adolescenza trascorsa sul rettangolo di gioco del Kasımpaşa Spor Kulübü, nel quartiere istanbuliota d’origine, non pensava che a quella. 

 

I due sembravano fatti l’uno per l’altro per conquistare la Turchia. E fra una predica e un comizio, unione fu. Ma come in ogni matrimonio d’amore e d’affari il tempo è stato galantuomo e ribaldo. Tutto ciò che filava liscio nel primo quindicennio, con l’Akp erdoğaniano ben saldo al potere e con le “infiltrazioni” nelle casematte d’un kemalismo confuso e smarrito presente fra militari e giudici, poi iniziò a scricchiolare. Il momento del crac seguì la caduta di popolarità di Erdoğan nella metropoli sul Bosforo con le contestazioni di Gezi Park. Quel movimento giovanile, laico, sinistorso, alternativo, con l’occhio rivolto ai diritti difendeva un polmone verde che l’amministrazione, e direttamente il governo centrale, volevano cementificare. Morti, arresti e repressione tagliarono il centro storico di Istanbul per mesi Subito dopo l’apparente calma, taluni giornali (Today’s Zaman di proprietà gülenista) e alcuni magistrati avviarono indagini su presunti illeciti e corruzioni che dai deputati del partito di governo arrivavano fin dentro casa del Primo ministro con l’accusa di riciclaggio per il figlio Bilal. Indagini rimbalzate sino in Italia dove, nel 2015, Erdoğan junior s’era ritirato per motivi di studio. Così diceva. Poi tutto si sgonfiò e venne archiviato. Per compiacere l’allora premier turco? Non si sa. Intanto il legame fra l’imam, che non si muoveva dal rifugio statunitense, e un sempre più solfureo sultano erano saltati. Anzi iniziava una resa dei conti coi cosiddetti güleniçi, gli emissari dell’imam sul territorio anatolico. Fino all’episodio del 15 luglio 2016, il tentativo di golpe, sventato in diretta telefonica e poi televisiva dal presidente turco, forte d’una popolarità carismatica che portò in strada decine di migliaia di suoi fedelissimi che s’opponevano a mani nude a un goffo tentativo di presa del potere da parte di alcuni reparti dell’esercito. Il colpo fallì con l’intervento di militari lealisti. Il capro espiatorio, presunto o reale, fu manco a dirlo Fethullah Gülen, contro cui furono improntate anche richieste di estradizione cadute nel vuoto. Per chi fra i suoi adepti risiedeva in Turchia la vendetta risultò tremenda. Oltre ai due anni di Stato d’emergenza, quasi tremila militari vennero arrestati, altrettanto accadde a duemila ottocento giudici, e poi insegnanti, impiegati a decine di migliaia furono licenziati o pensionati, fossero aderenti alla Confraternita Hizmet o solo sospettati. Se ne sono calcolati circa centocinquantamila. Gülen sotterra con sé un bel po’ di misteri, ma conta di rivedersi faccia a faccia col suo ex sodale. Ad Allah piacendo. 

giovedì 17 ottobre 2024

I denti di Sinwar e la punizione del Dio Israele

 


Il puzzle dell’orrore con cui Israel Defence Forces per primo, e a cascata svariati siti web e conseguentemente media online, hanno esaminato denti e orecchie d’un cadavere eccellente (non dissimile alle migliaia che Israele ha  seminato lungo i 42 chilometri della Striscia di Gaza in un anno di stragi) riscontrando che possa essere il gran capo militare di Hamas Yahya Sinwar, offre a Netanyahu ulteriore linfa vitale. Corrobora il suo gusto macabro di uccidere, investito del ruolo del grande vendicatore, e se per colpire un nemico giurato si accumulano salme, più o meno maciullate più o meno identificabili, non importa. Sicuramente non importa al governo in carica, ma anche a buona parte dei concittadini che avallano una guerra di sterminio come quella in corso. Non importa al grande vecchio d’Oltreoceano che finisce il mandato e nulla ha fatto per fermare le indiscriminate uccisioni di civili, non quella del mostro Sinwar, di civili inermi. Non importa alla linea estera statunitense in Medio Oriente, che rimarrà inalterata dopo le elezioni di novembre con Harris o Trump nello Studio Ovale. Perché Washington ha deciso di rimodellare la regione secondo il volere israeliano, con Tel Aviv pilastro dell’alleanza inter araba che passa per Ryadh, Il Cairo, Abu Dhabi fino ai contorni giordani e dopo aver distrutto un già disastrato Libano. Tutto per preparare l’assalto all’Iran, da settimane nel mirino di una punizione “educatrice” seppure di medio cabotaggio come ha patteggiato la Casa Bianca. Ma oltre alla macro geopolitica regionale, assolutamente in divenire e con incognite ed evoluzioni da verificare, prevale il gusto con cui Israele si compiace nel seminare morte. Una morte diffusa, anche quando sostiene di punire i nemici con omicidi mirati, sapendo che ci saranno ‘danni collaterali’ di due e cinque anni – del tutto trascurabili mentre quando quegli anni appartengono ai suoi figli il raccapriccio e la riprovazione sono totali. Non così per quel popolo infimo che sono i palestinesi, meritori d’ogni castigo... Uccidendo Sinwar Israele potrebbe ritenersi contento e “vittorioso”, soprattutto dopo aver eliminato Haniyeh a decine di figure di spicco del Movimento Islamico di Resistenza. Non sarà così, poiché la sua scelta strategica è cancellare non un inesistente Stato Palestinese, ma la sua popolazione, rendendola schiava del proprio volere politico, di piani di metodico annientamento bellico, di persecuzioni alla comunità e alla singola persona. Svilirla a collettività sbandata e umiliata, ridotta a vivere fra reiterate macerie, alienanti fughe, costanti paure, periodiche depredazioni. E’ il volere della lodata “unica democrazia mediorientale” che un pezzo di mondo dovrebbe accettare e che non può accettare. Come non l’accetta quel che resta di Hamas e dei palestinesi con cui quel gruppo si rapporta per scelta reciproca. Ayyash, Shehadeh, Yassin, Rantisi, Abu Selmeya, Jamila Al-Shanti, Al-Arouri, il ricordo di quelli che la gente di Gaza, non solo i miliziani bardati di verde, definiscono martiri è vivo, come decennio dopo decennio può testimonia ogni cronista passato in quei luoghi. Dopo Haniyeh e Sinwar c’è chi proseguirà a stimolare il desiderio di punizione del Dio Israele. La condanna fra assassini e vittime è reciproca.

venerdì 4 ottobre 2024

Khamenei preghiera armata

 


Ha raccolto il popolo fedele nella grande moschea Mosalla intitolata al Ruhollah Khomeini e ha guidato la preghiera del venerdì in pubblico. Una folla strabordante. La Guida Suprema Ali Khamenei non lo faceva da quasi cinque anni, che ormai gli pesano. In condizioni sempre più tristi. Non quelle personali del tempo che scorre inesorabile, ma nelle circostanze sempre più buie per la Repubblica Islamica, passando da un funerale all’altro di uomini difficilmente sostituibili. Nel 2020 il gran capo delle brigate Al Quds, Qasem Soleimani, in quest’occasione del grande alleato libanese, Hassan Nasrallah. Lutti imperituri. Per l’occasione ha voluto al fianco politici riformisti, come il presidente Pezeshkian e principalisti come Qalibaf, eterno sconfitto in varie corse elettorali, ma vicino al laicismo dei pasdaran combattenti e al combattentismo dei pasdaran prossimi al clero. E nel rivolgere le preghiere a chi è stato strappato dal compito di resistere all’entità sionista, dai leader e miliziani alle decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi, ha posto accanto al microfono l’inequivocabile simbolo d’un fucile. Icona dell’essenza dell’Iran khomeinista, seguendo le indicazioni del padre fondatore che aveva scosso la nazione dalla subordinazione del servilismo filo statunitense in cui la manteneva la dinastia Pahlavi. Una radice della fede sciita che non teme il martirio per una causa. Per richiamare l’ora grave vissuta dall’intera nazione che ingaggia una guerra, per ora, a distanza con Israele, subendone le intrusioni assassine sul suo territorio, il vecchio Khamenei ha parlato anche in arabo. Rivolto alla Umma globale, ai fedeli sunniti, ai cittadini mediorientali egualmente esposti alle “punizioni” di Tsahal e lusingati per isolare il Paese persiano. “La difesa di Gaza da parte di Hezbollah e il suo sostegno alla Moschea di Al-Aqsa rappresentano un servizio cruciale per l’intera regione - ha detto -. I Paesi islamici hanno tutti un nemico comune… Il popolo palestinese ha il diritto di opporsi al nemico che ha occupato la sua terra e rovinato la sua vita. Difendere i palestinesi è legittimo, aiutarli è legittimo, come legittima è stata l’operazione ‘Tempesta di Al-Aqsa’. Se necessario colpiremo ancora…” L’enfasi e pure la retorica sono quelle dei momenti critici vissuti dall’Iran nei suoi quarantacinque anni di scontro diretto e indiretto, da quello dell’assedio all’ambasciata Usa alla sanguinosissima guerra contro Saddam Hussein, passando per le battaglie ingaggiate dagli alleati mediorientali:  Hezbollah, Ansar Allah, lo stesso Hamas. Restare su una perenne barricata ha esposto la nazione a uno stillicidio d’insidie, la più micidiale è l’economica che ha creato defezioni anche fra quegli strati poveri – i cosiddetti mostazaffin – che avevano riempito le file della milizia basij e che sei anni addietro hanno contestato il regime nella città santa di Mashhad. Nonostante la mobilitazione ideologica contro i grandi e piccoli Satana statunitense e sionista sia proseguita, i combattenti della prima ora si sono incanutiti. I nuovi miliziani sono finiti per difendere (perché tatticamente gli serviva) un dittatore cinico e sanguinario come Asad, si sono spesi contro lo Stato Islamico in Siria, ovviamente non hanno ricevuto crediti dalla comunità internazionale e tantomeno da Washington. Tel Aviv, da parte sua, se n’è sempre infischiata dell’Isis che attacca altri islamici visto che può tornargli comodo. Gli anni di conflitto siriano sono costati somme ingentissime al governo degli ayatollah, denaro che avrebbero potuto conoscere (come ogni finanziamento bellico) destinazione civile. A Teheran sono venute meno ispirazioni ideali e finanze per strutturarsi adeguatamente alla conflittualità contemporanea. Così la presunta punizione all’aggressività sionista viene spenta dalla tecnologia militare di Israele, fra Cupole di ferro, Frecce e Fionde di David, le sue protezioni dalle incursioni missilistiche da Oriente. Il fucilino è, perciò, un simbolo d’altri tempi con cui un disperato commando antisionista assalta e uccide qualche incolpevole passante prima d’essere stroncato. L’attuale Fronte della Resistenza è un atto di volontà, una preghiera dell’anima, una speranza, troppo spesso un martirio.   


 

giovedì 3 ottobre 2024

Palestinesi fra intifade e massacri

 


Quando dal 30 marzo 2018 al 27 dicembre dell’anno successivo per ogni venerdì un numero crescente di manifestanti si avvicinava ai confini orientali della Striscia di Gaza, sventolando bandiere, gridando slogan e chiedendo il permesso di tornare nelle terre d’origine fra Israele e la Cisgiordania, l’esercito di Tel Aviv li teneva a distanza sparandogli addosso. Lacrimogeni, proiettili di gomma e poi di piombo. “La Grande Marcia per il ritorno” come gli organizzatori, tutti attivisti non affiliati a gruppi politici, definivano la protesta prevista per un mese iniziò a patire i primi morti e feriti. Decisero comunque di proseguire, pacificamente come avevano iniziato, ma le vittime aumentavano. Si mossero anche gli organismi politici: Hamas, Fdlp, Fplp, Jihad islamica scegliendo di non usare armi ma fionde e bottiglie incendiarie. Quando il 14 maggio 2018 un soldato dell’Idf rimase leggermente ferito, furono freddati sessanta manifestanti. Il 13 giugno 2018 l’ennesima risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite condannava l’uso della forza letale da parte israeliana, ma come decenni di risoluzioni non servì a nulla. Dopo un anno, otto mesi, tre settimane e sei giorni le vittime, tutte palestinesi, erano arrivate a 223 (46 sotto i 18 anni), i feriti superavano ampiamente i diecimila. Molti furono gli amputati, tanti rimasero ciechi e orbi perché i cecchini, con le automatiche di precisione, miravano agli occhi. Certo, ci furono anche episodi d’uso delle armi da parte palestinese, evidenziato quello d’un manipolo con kalashnikov e granate immediatamente freddato dai militari di Tel Aviv, di fatto i venerdì di protesta si tramutavano in un tiro a bersaglio a senso unico: cadevano i palestinesi. Ora se un Centro sociale milanese, rivendica il diritto di manifestare sabato prossimo a Roma sostenendo nel suo comunicato di voler ricordare “il 7 ottobre come data in cui il popolo palestinese ha messo in gioco la propria esistenza per non morire giorno dopo giorno nell’assoluta indifferenza…”, non va lontano dalla verità. Si può precisare che una parte delle organizzazioni della Striscia (Hamas e Jihad islamica) hanno deciso l’assalto del 7 ottobre; gli si può contestare l’obiettivo: civili inermi e pacifici anziché militari e coloni armati, non la realtà di morte quotidiana nell’indifferenza del mondo, politico e civile. E’ quanto sta accedendo dall’8 ottobre scorso e per chi non dimentica la storia della tragedia di questo popolo, è quanto accade dal 14 maggio 1948. 

martedì 1 ottobre 2024

Il carceriere Sisi tiene Alaa in prigione

 


Doveva tornare in libertà Alaa Abdel Fattah, l’attivista e scrittore egiziano con nazionalità anche britannica, arrestato il 29 settembre 2019 con l’accusa di diffondere false notizie per mezzo di piattaforme social come Facebook. Ma i familiari - la madre Laila, la sorella Mona - hanno avuto l’amara sorpresa di un’ulteriore dilazione della carcerazione. Addirittura per due anni, visto che il Tribunale del Cairo non vuole includere il biennio di detenzione preventiva come parte della pena scontata. Si prospetta, dunque, uno scivolamento dell’arresto sino al gennaio 2027: due anni e tre mesi in più. Per il quarantaduenne è una beffa insostenibile che s’unisce al danno di veder trascorrere il tempo nelle tetre galere del regime di Al Sisi. Alaa aveva condiviso sul profilo Fb notizie sulle gravi violazioni dei diritti umani da parte del sistema poliziesco ripristinato e ampliato dal generale-golpista sin dall’estate 2013. A poco sono serviti gli inviti dello stesso ministro degli Esteri britannico David Lammy di rivedere la sentenza. Totalmente inascoltata risulta la campagna di sostegno ad Alaa - e a tutti i detenuti egiziani per presunti reati d’opinione che ammontano a decine di migliaia - lanciata da Ong dei diritti umani. La madre, una docente avanti con gli anni, ha promesso l’ennesimo sciopero della fame, ribadendo il sopruso del governo del Cairo e la complice protesta solo formale del governo di Londra che, a suo dire, non tutela un proprio cittadino. Del resto Sisi è da tempo ampiamente sostenuto dalla politica occidentale, che trova nel suo pugno di ferro contro gli oppositori interni (islamici e laici) un fattore di sicurezza come accadeva sotto i regimi di Sadat e Mubarak. In più il militare, che ha ordinato e coperto operazioni di eliminazione e sparizione di "elementi di disturbo" attuate dalla propria Intelligence come nel caso dell’omicidio Regeni, costituisce un pilastro per il riordino d’un Medioriente autoritario. Una regione modellata sull’asse di altri Paesi arabi interessati a simili sviluppi (le petromonarchie del Golfo votate ad affarismo e incremento bellico) e il riassetto coloniale imposto da Israele che sotterra l’irrisolta questione palestinese, assieme alle migliaia di cadaveri accumulati nei mesi di guerra nella Striscia di Gaza e ora in Libano.