giovedì 17 ottobre 2024

I denti di Sinwar e la punizione del Dio Israele

 


Il puzzle dell’orrore con cui Israel Defence Forces per primo, e a cascata svariati siti web e conseguentemente media online, hanno esaminato denti e orecchie d’un cadavere eccellente (non dissimile alle migliaia che Israele ha  seminato lungo i 42 chilometri della Striscia di Gaza in un anno di stragi) riscontrando che possa essere il gran capo militare di Hamas Yahya Sinwar, offre a Netanyahu ulteriore linfa vitale. Corrobora il suo gusto macabro di uccidere, investito del ruolo del grande vendicatore, e se per colpire un nemico giurato si accumulano salme, più o meno maciullate più o meno identificabili, non importa. Sicuramente non importa al governo in carica, ma anche a buona parte dei concittadini che avallano una guerra di sterminio come quella in corso. Non importa al grande vecchio d’Oltreoceano che finisce il mandato e nulla ha fatto per fermare le indiscriminate uccisioni di civili, non quella del mostro Sinwar, di civili inermi. Non importa alla linea estera statunitense in Medio Oriente, che rimarrà inalterata dopo le elezioni di novembre con Harris o Trump nello Studio Ovale. Perché Washington ha deciso di rimodellare la regione secondo il volere israeliano, con Tel Aviv pilastro dell’alleanza inter araba che passa per Ryadh, Il Cairo, Abu Dhabi fino ai contorni giordani e dopo aver distrutto un già disastrato Libano. Tutto per preparare l’assalto all’Iran, da settimane nel mirino di una punizione “educatrice” seppure di medio cabotaggio come ha patteggiato la Casa Bianca. Ma oltre alla macro geopolitica regionale, assolutamente in divenire e con incognite ed evoluzioni da verificare, prevale il gusto con cui Israele si compiace nel seminare morte. Una morte diffusa, anche quando sostiene di punire i nemici con omicidi mirati, sapendo che ci saranno ‘danni collaterali’ di due e cinque anni – del tutto trascurabili mentre quando quegli anni appartengono ai suoi figli il raccapriccio e la riprovazione sono totali. Non così per quel popolo infimo che sono i palestinesi, meritori d’ogni castigo... Uccidendo Sinwar Israele potrebbe ritenersi contento e “vittorioso”, soprattutto dopo aver eliminato Haniyeh a decine di figure di spicco del Movimento Islamico di Resistenza. Non sarà così, poiché la sua scelta strategica è cancellare non un inesistente Stato Palestinese, ma la sua popolazione, rendendola schiava del proprio volere politico, di piani di metodico annientamento bellico, di persecuzioni alla comunità e alla singola persona. Svilirla a collettività sbandata e umiliata, ridotta a vivere fra reiterate macerie, alienanti fughe, costanti paure, periodiche depredazioni. E’ il volere della lodata “unica democrazia mediorientale” che un pezzo di mondo dovrebbe accettare e che non può accettare. Come non l’accetta quel che resta di Hamas e dei palestinesi con cui quel gruppo si rapporta per scelta reciproca. Ayyash, Shehadeh, Yassin, Rantisi, Abu Selmeya, Jamila Al-Shanti, Al-Arouri, il ricordo di quelli che la gente di Gaza, non solo i miliziani bardati di verde, definiscono martiri è vivo, come decennio dopo decennio può testimonia ogni cronista passato in quei luoghi. Dopo Haniyeh e Sinwar c’è chi proseguirà a stimolare il desiderio di punizione del Dio Israele. La condanna fra assassini e vittime è reciproca.

venerdì 4 ottobre 2024

Khamenei preghiera armata

 


Ha raccolto il popolo fedele nella grande moschea Mosalla intitolata al Ruhollah Khomeini e ha guidato la preghiera del venerdì in pubblico. Una folla strabordante. La Guida Suprema Ali Khamenei non lo faceva da quasi cinque anni, che ormai gli pesano. In condizioni sempre più tristi. Non quelle personali del tempo che scorre inesorabile, ma nelle circostanze sempre più buie per la Repubblica Islamica, passando da un funerale all’altro di uomini difficilmente sostituibili. Nel 2020 il gran capo delle brigate Al Quds, Qasem Soleimani, in quest’occasione del grande alleato libanese, Hassan Nasrallah. Lutti imperituri. Per l’occasione ha voluto al fianco politici riformisti, come il presidente Pezeshkian e principalisti come Qalibaf, eterno sconfitto in varie corse elettorali, ma vicino al laicismo dei pasdaran combattenti e al combattentismo dei pasdaran prossimi al clero. E nel rivolgere le preghiere a chi è stato strappato dal compito di resistere all’entità sionista, dai leader e miliziani alle decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi, ha posto accanto al microfono l’inequivocabile simbolo d’un fucile. Icona dell’essenza dell’Iran khomeinista, seguendo le indicazioni del padre fondatore che aveva scosso la nazione dalla subordinazione del servilismo filo statunitense in cui la manteneva la dinastia Pahlavi. Una radice della fede sciita che non teme il martirio per una causa. Per richiamare l’ora grave vissuta dall’intera nazione che ingaggia una guerra, per ora, a distanza con Israele, subendone le intrusioni assassine sul suo territorio, il vecchio Khamenei ha parlato anche in arabo. Rivolto alla Umma globale, ai fedeli sunniti, ai cittadini mediorientali egualmente esposti alle “punizioni” di Tsahal e lusingati per isolare il Paese persiano. “La difesa di Gaza da parte di Hezbollah e il suo sostegno alla Moschea di Al-Aqsa rappresentano un servizio cruciale per l’intera regione - ha detto -. I Paesi islamici hanno tutti un nemico comune… Il popolo palestinese ha il diritto di opporsi al nemico che ha occupato la sua terra e rovinato la sua vita. Difendere i palestinesi è legittimo, aiutarli è legittimo, come legittima è stata l’operazione ‘Tempesta di Al-Aqsa’. Se necessario colpiremo ancora…” L’enfasi e pure la retorica sono quelle dei momenti critici vissuti dall’Iran nei suoi quarantacinque anni di scontro diretto e indiretto, da quello dell’assedio all’ambasciata Usa alla sanguinosissima guerra contro Saddam Hussein, passando per le battaglie ingaggiate dagli alleati mediorientali:  Hezbollah, Ansar Allah, lo stesso Hamas. Restare su una perenne barricata ha esposto la nazione a uno stillicidio d’insidie, la più micidiale è l’economica che ha creato defezioni anche fra quegli strati poveri – i cosiddetti mostazaffin – che avevano riempito le file della milizia basij e che sei anni addietro hanno contestato il regime nella città santa di Mashhad. Nonostante la mobilitazione ideologica contro i grandi e piccoli Satana statunitense e sionista sia proseguita, i combattenti della prima ora si sono incanutiti. I nuovi miliziani sono finiti per difendere (perché tatticamente gli serviva) un dittatore cinico e sanguinario come Asad, si sono spesi contro lo Stato Islamico in Siria, ovviamente non hanno ricevuto crediti dalla comunità internazionale e tantomeno da Washington. Tel Aviv, da parte sua, se n’è sempre infischiata dell’Isis che attacca altri islamici visto che può tornargli comodo. Gli anni di conflitto siriano sono costati somme ingentissime al governo degli ayatollah, denaro che avrebbero potuto conoscere (come ogni finanziamento bellico) destinazione civile. A Teheran sono venute meno ispirazioni ideali e finanze per strutturarsi adeguatamente alla conflittualità contemporanea. Così la presunta punizione all’aggressività sionista viene spenta dalla tecnologia militare di Israele, fra Cupole di ferro, Frecce e Fionde di David, le sue protezioni dalle incursioni missilistiche da Oriente. Il fucilino è, perciò, un simbolo d’altri tempi con cui un disperato commando antisionista assalta e uccide qualche incolpevole passante prima d’essere stroncato. L’attuale Fronte della Resistenza è un atto di volontà, una preghiera dell’anima, una speranza, troppo spesso un martirio.   


 

giovedì 3 ottobre 2024

Palestinesi fra intifade e massacri

 


Quando dal 30 marzo 2018 al 27 dicembre dell’anno successivo per ogni venerdì un numero crescente di manifestanti si avvicinava ai confini orientali della Striscia di Gaza, sventolando bandiere, gridando slogan e chiedendo il permesso di tornare nelle terre d’origine fra Israele e la Cisgiordania, l’esercito di Tel Aviv li teneva a distanza sparandogli addosso. Lacrimogeni, proiettili di gomma e poi di piombo. “La Grande Marcia per il ritorno” come gli organizzatori, tutti attivisti non affiliati a gruppi politici, definivano la protesta prevista per un mese iniziò a patire i primi morti e feriti. Decisero comunque di proseguire, pacificamente come avevano iniziato, ma le vittime aumentavano. Si mossero anche gli organismi politici: Hamas, Fdlp, Fplp, Jihad islamica scegliendo di non usare armi ma fionde e bottiglie incendiarie. Quando il 14 maggio 2018 un soldato dell’Idf rimase leggermente ferito, furono freddati sessanta manifestanti. Il 13 giugno 2018 l’ennesima risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite condannava l’uso della forza letale da parte israeliana, ma come decenni di risoluzioni non servì a nulla. Dopo un anno, otto mesi, tre settimane e sei giorni le vittime, tutte palestinesi, erano arrivate a 223 (46 sotto i 18 anni), i feriti superavano ampiamente i diecimila. Molti furono gli amputati, tanti rimasero ciechi e orbi perché i cecchini, con le automatiche di precisione, miravano agli occhi. Certo, ci furono anche episodi d’uso delle armi da parte palestinese, evidenziato quello d’un manipolo con kalashnikov e granate immediatamente freddato dai militari di Tel Aviv, di fatto i venerdì di protesta si tramutavano in un tiro a bersaglio a senso unico: cadevano i palestinesi. Ora se un Centro sociale milanese, rivendica il diritto di manifestare sabato prossimo a Roma sostenendo nel suo comunicato di voler ricordare “il 7 ottobre come data in cui il popolo palestinese ha messo in gioco la propria esistenza per non morire giorno dopo giorno nell’assoluta indifferenza…”, non va lontano dalla verità. Si può precisare che una parte delle organizzazioni della Striscia (Hamas e Jihad islamica) hanno deciso l’assalto del 7 ottobre; gli si può contestare l’obiettivo: civili inermi e pacifici anziché militari e coloni armati, non la realtà di morte quotidiana nell’indifferenza del mondo, politico e civile. E’ quanto sta accedendo dall’8 ottobre scorso e per chi non dimentica la storia della tragedia di questo popolo, è quanto accade dal 14 maggio 1948. 

martedì 1 ottobre 2024

Il carceriere Sisi tiene Alaa in prigione

 


Doveva tornare in libertà Alaa Abdel Fattah, l’attivista e scrittore egiziano con nazionalità anche britannica, arrestato il 29 settembre 2019 con l’accusa di diffondere false notizie per mezzo di piattaforme social come Facebook. Ma i familiari - la madre Laila, la sorella Mona - hanno avuto l’amara sorpresa di un’ulteriore dilazione della carcerazione. Addirittura per due anni, visto che il Tribunale del Cairo non vuole includere il biennio di detenzione preventiva come parte della pena scontata. Si prospetta, dunque, uno scivolamento dell’arresto sino al gennaio 2027: due anni e tre mesi in più. Per il quarantaduenne è una beffa insostenibile che s’unisce al danno di veder trascorrere il tempo nelle tetre galere del regime di Al Sisi. Alaa aveva condiviso sul profilo Fb notizie sulle gravi violazioni dei diritti umani da parte del sistema poliziesco ripristinato e ampliato dal generale-golpista sin dall’estate 2013. A poco sono serviti gli inviti dello stesso ministro degli Esteri britannico David Lammy di rivedere la sentenza. Totalmente inascoltata risulta la campagna di sostegno ad Alaa - e a tutti i detenuti egiziani per presunti reati d’opinione che ammontano a decine di migliaia - lanciata da Ong dei diritti umani. La madre, una docente avanti con gli anni, ha promesso l’ennesimo sciopero della fame, ribadendo il sopruso del governo del Cairo e la complice protesta solo formale del governo di Londra che, a suo dire, non tutela un proprio cittadino. Del resto Sisi è da tempo ampiamente sostenuto dalla politica occidentale, che trova nel suo pugno di ferro contro gli oppositori interni (islamici e laici) un fattore di sicurezza come accadeva sotto i regimi di Sadat e Mubarak. In più il militare, che ha ordinato e coperto operazioni di eliminazione e sparizione di "elementi di disturbo" attuate dalla propria Intelligence come nel caso dell’omicidio Regeni, costituisce un pilastro per il riordino d’un Medioriente autoritario. Una regione modellata sull’asse di altri Paesi arabi interessati a simili sviluppi (le petromonarchie del Golfo votate ad affarismo e incremento bellico) e il riassetto coloniale imposto da Israele che sotterra l’irrisolta questione palestinese, assieme alle migliaia di cadaveri accumulati nei mesi di guerra nella Striscia di Gaza e ora in Libano.