La prolungata consultazione indiana fa tappa a Varanasi, il 1° giugno. E la città sul Gange, antichissima di quattro millenni e fitta di corpi come poche al mondo (gli abitanti sono 3.8 milioni, ma se ne contano tremila per chilometro quadro) è un luogo dal quale Narendra Modi s’aspetta tanto. Da quella folla che definire affollata sa di carenza lessicale, di mancanza di sinonimi. E dunque soffocante, stringente, ingombrante come l’uomo che vuole acclamare e sostenere, a cui ha affidato il presente e ipotecato il futuro d’un Paese sempre più asfissiato dall’omologazione. Fra questa calca, pregando ovviamente nello storico tempio di Kashi Vishwanath, il premier uscente è passato a metà maggio, per ribadire un successo già conosciuto nel 2019. In quella data Modi prevalse con un margine attivo di 600.000 preferenze. Vuole bissarlo e magari ampliarlo. Perché il voto nel popolosissimo Stato dell’Uttar Pradesh vale ottanta seggi, e tredici riguardano appunto Varanasi. Inoltre, avversario diretto in città è Ajay Rai, 55 anni, dal 2012 candidato del National Congress, che nel passato ha conosciuto un avvìo politico con l’ala studentesca del Bharatiya Janata Party. Un fedifrago, dunque. O come lo valutano alcuni osservatori, un politico fluido e fluttuante. Perché, forse, alla stregua di colleghi d’Occidente: sta con chi lo tratta meglio. Oppure no. I sostenitori lo giudicano un elemento che ha maturato un percorso ideale, spostandosi prima verso la socialdemocrazia del partito Samajwadi, quindi al riformismo del NC. In un Paese sempre più polarizzato, simili oscillazioni possono più nuocere che giovare. Infatti, pur essendo molto radicato nella città sacra, Rai è già stato sconfitto da Modi. Ora aderendo alla coalizione denominata India, medita riscossa in un confronto-scontro comunque aperto.
Lo è perché tanti, troppi concittadini paiono insoddisfatti. Proprio dalle promesse sociali del Bjp spesso disattese. Certo da quando Modi governa, la città-santuario ha registrato una crescita esponenziale del turismo religioso, passato dai 5,5 milioni ai 54 milioni di visitatori-pellegrini. Un formicaio smistato nelle strette viuzze a ridosso dei templi nientemeno che da gruppi paramilitari. Eppure il turismo del culto comprendeva storicamente anche i fedeli poveri e poverissimi che almeno una volta nella vita compivano le abluzioni nel Gange e abbandonavano i corpi sui ghāt. Attualmente vengono soppiantati da una maggiore presenza di hindu appartenenti a strati sociali di medio calibro. E questo sarebbe il minimo, per quanto sull’onda della trasformazione sociale del Paese, ci sia chi plaude e approva. In campagna elettorale l’opposizione ha messo il dito in questa piaga, sottolineando come nell’ultimo decennio la crescita sociale non è stata diffusa e paritaria. Ha favorito una parte e ampliato le criticità, e non solo per i dalit. Colpiti soprattutto i lavoratori di mezza età licenziati o messi ai margini del ciclo produttivo. Addirittura molti giovani, acculturati e laureati, sono costretti ad arrangiarsi perché ultimamente l’occupazione stenta e non vengono impiegati nel settore della propria specializzazione. Uno, intervistato dall’immancabile Al Jazeera, sostiene di fare il barcaiolo trasportando i turisti sulle sponde del fiume sacro. E la città, per tre quarti induista, vanta comunque inserimenti lavorativi anche nei non pochi luoghi di culto islamico presenti. Fra l’altro la locale lavorazione della pregiata ‘seta seree’ è appannaggio delle famiglie di fede musulmana. Nonostante il desiderio del suprematismo hindu d’infiammare i rapporti fra le due comunità, Varanasi persiste come enclave di convivenza. Assolutamente pacifica è difficile da mantenere in un tragitto elettorale che ha ripresentato discorsi d’odio razziale e confessionale per bocca di figure istituzionali del Bharatiya. In ogni caso il 1° giugno s’avvicina, e subito dopo lo spoglio definitivo atteso nei tre giorni seguenti.