venerdì 29 novembre 2024

La parola malata e la malattia d’un Paese

 


La Senatrice Liliana Segre interviene sul Corriere della Sera allarmandosi e allarmandoci per l’uso e l’abuso di una “parola malata” – genocidio – con cui ormai milioni di persone nel mondo (cittadini, attivisti, politici, comunicatori, intellettuali) definiscono la sistematica azione dell’attuale governo di Israele d’impedire l’esistenza alla popolazione di Gaza. Secondo l’anziana Senatrice, testimone del genocidio nel Terzo Reich germanico verso il popolo ebraico, la sua famiglia e se stessa, in quest’ultimo caso per fortuna non perpetrato, i palestinesi della Striscia non stanno subendo quel terribile trattamento. La loro situazione non rientra nella casistica che la Storia, peraltro recente, offre sulla questione. Segre ne elenca alcuni: il Medz yeghern armeno, l’Holodomor ucraino, la Shoah ebraica, il Porrajmos rom, e poi la strage cambogiana e lo sterminio tutsi che non hanno dalla loro il conio d’un termine autoctono di genocidio. In realtà neppure per i palestinesi questa matrice c’è stata, ma sono ben visibili la morte e la pianificazione della propria estinzione per bombardamento, fame, malattie, impossibilità di cura, negazione d’un luogo dove vivere, tutti imposti da Israele. Eppure alla senatrice non basta. Ovvero anche lei ammette che ci sono strage e crimine, ma quel termine non si deve usare, non si può applicare ai palestinesi, probabilmente non ne hanno diritto perché nel concetto accademico di cosa sia un genocidio ai  palestinesi non si adattano i presupposti di: pianificazione dell’eliminazione e rapporto funzionale con la guerra. Questioni di lana caprina e di punti di vista, gentile Senatrice. Le domandiamo se, per il buon cuore della sua posizione, le vittime gazesi dei tredici mesi di sterminio da parte di Israel Defence Forces, 50% bambini e 30% donne, abbiano un rapporto funzionale con una guerra, peraltro presunta visto che costoro non combattono, la Striscia di Gaza non è uno Stato, lo stesso Hamas non è un esercito. 

 

Anziché aprire gli occhi sull’orientamento guerrafondaio, coloniale, razzista dello Stato di Israele nella sua schiacciante maggioranza, non solo sull’attuale governo ancorato al potere e blindato da un’adesione popolare massiccia; più che constatare che l’altro Israele non solo non riesce a rovesciare chi comanda, ma gli è solidale davanti alle stesse limitazioni della follìa omicida poste dalla Corte Penale dell’Aja con la richiesta d’arresto per Netanyahu e Gallant, la Senatrice Segre rilancia il tema della persecuzione antisemita. Lo fa in maniera anomala, potremmo dire scorretta, mescolando il vecchio fronte mai morto del nazifascismo, del negazionismo, del relativismo con cui può avere rapporti più d’un partito del cosiddetto fronte democratico italiano, europeo, mondiale non certo chi sostiene i palestinesi con un attivismo militante, aiuti umanitari, impegno diretto nei luoghi di sterminio o genocidio costretto ad amputare arti senza anestesia su corpi straziati “dall’unica democrazia mediorientale”. Pur appartenendo a un popolo e a una comunità servirebbero realismo e pudore, che non leggiamo nelle righe apparse sul Corsera. Una storica ebraica italiana ha di recente posto tale riflessione parlando del suicidio di Israele. Da tempo la comunità ebraica italiana ha imboccato la strada che l’allontana da quell’antifascismo e antitotalitarismo richiamato da Segre nel suo intervento. Chi segue la questione palestinese sa che la demonizzazione Israele prima di riceverla la impone quando considera terrorista non solo il militante di Hamas, Jihad, Fatah ma la gente che nei territori occupati e bombardati  è costretta a sopravvivere prima che qualcuno da Tel Aviv decida del suo presente e gli impedisca un futuro. Gentile Senatrice Segre è dunque malata la parola o lo sono i fatti?

mercoledì 27 novembre 2024

L’Egitto amarissimo di Laila e Alaa

 


Laila Soueif ha sessantotto anni. Né tanti né pochi, ma ne dimostra decisamente di più. Il volto è segnato da una vita di lotta iniziata giovanissima, quando aveva sedici anni, e manifestava a piazza a Tahrir contro il regime di Sadat da poco salito al potere. Una protesta che per lei non durò a lungo, visto che i genitori, entrambi docenti universitari, la rintracciarono riconducendola in casa prima che le potesse capitare qualcosa di spiacevole. Laila aveva una passione per la matematica e dai banchi di scuola e poi dell’università l’ha trasferita nella vita lavorativa, entrando anche lei nell’ateneo del Cairo in qualità d’insegnante. Lì aveva conosciuto il futuro marito, Ahmed Seif El-Islam, un attivista comunista anch’egli docente e avvocato. Insieme hanno avuto tre figli Alaa, Sanaa e Mona. Tutti attivisti come i genitori. Il volto di Laila è segnato non tanto dal passare del tempo, ma dalle sofferenze. Dalle vicende familiari frutto dell’impegno per libertà e giustizia. I guai del primogenito Alaa sono arrivati, come per migliaia di giovani protestatari, con le primavere arabe che hanno scosso il Medio Oriente dal dicembre 2010. Nel gennaio 2011 la generazione successiva a Laila era tornata in piazza Tahrir contestando Hosni Mubarak che di lì a qualche settimana abbandonerà un potere durato molto più a lungo di quello del predecessore Anwar Sadat. Tutti presidenti, tutti militari, come l’attuale persecutore di Alaa e Laila: Abdel Fattah al Sisi. Il generalissimo. Il militare egiziano, che fece fuori il presidente laico Mohammad Morsi, si predispone a durare - ad Allah piacendo - più dei sovrani di quel regno militare che ancora s’ostina a definirsi Repubblica d’Egitto. Si cita Sisi e qualsiasi italiano normale pensa a Giulio Regeni, al suo strazio, al suo martirio. Gli italiani di governo invece fanno spallucce. Dicono che non sapevano del suo sequestro, lo fa sotto giuramento l’ex primo Ministro Renzi al processo in corso a Roma contro gli aguzzini del ricercatore friulano, che poi sono fidati servitori del regime di Sisi. Oppure sostengono, come la premier Meloni, che l’Egitto è un Paese sicuro e ci rispediscono chi ne fugge atterrito o affamato. 

 

Basterebbe chiederlo alla professoressa Laila, a suo figlio Alaa cos’è diventato l’Egitto nell’ultimo decennio. E se migliaia di attivisti locali non possono qualificarlo in nessun modo perché sono stati tacitati per sempre (come? alla maniera di Giulio Regeni o anche peggio perché gli scomparsi sono un’infinità) altre sessantamila egiziani e forse più rinchiusi nelle patrie galere certificano a familiari e avvocati, se e quando riescono a ricever visite, i segni di quella normalità: bruciature elettriche e di fiamma ossidrica, lividi e cicatrici sulla pelle e lì dove non vedono ma s’intuiscono, nel profondo dell’anima. Per un crudele e cruento gioco burocratico Alaa viene trattenuto due anni in più. Era stato arrestato nel 2019 con l’accusa di diffondere sui social “false notizie”, e aveva scontato la pena, però a pochi giorni dall’auspicabile liberazione la Corte del Cairo ha comunicato che i due anni trascorsi in prigione in attesa del processo non erano validi e ha riaggiornato la pena, con l’aggiunta di alcuni mesi. Per Alaa la data si sposta a metà del 2027. Da quel momento mamma Laila ha avviato uno sciopero della fame per domandare alle stesse autorità britanniche, che per lei e i figli sono un riferimento visto che hanno anche questa nazionalità, d’intervenire a sostegno di un abuso subìto da un cittadino del Regno Unito. Finora Laila ha ricevuto qualche promessa da Londra, nessuna dal Cairo, eppure le parole non si traducono in nulla. Oggi la docente, l’attivista per i diritti, la madre è al sessantesimo giorno di sciopero della fame. Beve acqua, assume minerali e sali, con un minimo di calorie, un’azione che per la sua età diventa rischiosa. Lei caparbiamente la prosegue ma in una recente intervista a Sky News ha dichiarato: “Personalmente ne ho abbastanza, non posso affrontare condizioni simili e anche Alaa è senza speranze. Il ministro degli Esteri (britannico, ndr) Lammy sostiene che il caso è una priorità governativa da discutere con l’omologo egiziano, non sembra che Il Cairo mostri attenzione né intavoli dialoghi. Spero di ricevere non più assicurazioni sulla vicenda, bensì iniziative concrete. Non voglio collassare o morire”.

martedì 26 novembre 2024

Pakistan infuocato dal Belucistan a Islamabad

 


Non si placa l’ira dei sostenitori dell’ex premier pakistano Imran Khan, recluso da un anno e mezzo e incriminato nientemeno che di centocinquanta reati. Il suo partito, Tehreek-e-Insaf (Pti), aveva organizzato domenica l’ennesima marcia di protesta per chiederne la liberazione, s’è trovato a bloccargli l’accesso al centro della capitale polizia statale e privata e pure l’esercito. Finora si contano quattro vittime fra queste forze, ma può innescarsi un clima decisamente peggiore. Già nei mesi passati cortei e scontri avevano messo a ferro e fuoco i quartieri centrali di Islamabad, provocando vittime fra manifestanti e polizia. Stavolta il ministro dell’Interno Mohsin Naqvi ha deciso di bloccare i manifestanti lungo le autostrade d’accesso alla città, predisponendo da lunedì l’arresto di migliaia di cittadini. La tivù locale ne dichiara quattromila. Naqvi e l’attuale capo dell’esecutivo Shehbaz Sharif sono visti come fumo negli occhi dai sostenitori del Pti. Quest’ultimo è definito “un usurpatore” dai militanti ridiscesi in piazza come quando avevano denunciato brogli nelle elezioni vinte di misura dalla Lega Musulmana N di cui Shehbaz è esponente, assieme al chiacchierato e pluricondannato fratello Nawaz. Le migliaia di candelotti lacrimogeni usati ieri, che hanno intossicato anche numerosi agenti, continueranno a stabilire la cortina posta a protezione del Parlamento e dell’Alta Corte di Giustizia, istituzioni contestate cui miravano le altrettanto numerose unità di cittadini propense a passare dalla protesta alla rivolta. Sebbene nel Pti ci siano due tendenze: una prima intransigente sostenuta dalla moglie di Khan che richiede la scarcerazione del consorte e di altri membri del partito e la riammissione nel mandato interrotto nell’aprile 2023. Una seconda, d’un altro pezzo della leadership, è propensa ad accettare il tavolo di trattative promosso in queste ore da Naqvi. 

 

Dunque contestazione spaccata? E’ presto per dirlo. La mobilitazione sta proseguendo con una tensione altissima, anche perché da stamane il fronte di protesta accusa le forze dell’ordine dell’uccisione di due attivisti e del ferimento di parecchi altri, notizie non diffuse dai media ufficiali a favore delle sole morti degli agenti. Chi era in strada ha riversato in rete filmati che, accanto al presunto “alleggerimento coi lacrimogeni”, accusano polizia e corpo paramilitare dei Ranger dell’uso di armi da fuoco con cui sono stati colpiti bersagli umani mobili e fissi. Per Shehbaz: ”La protesta non era pacifica, c’è un gruppo anarchico (sic) che cerca spargimenti di sangue”; secondo Bhutto-Zardari, presidente del Partito Popolare Pakistano:gli incidenti di queste ore sono terrorismo puro perché Ranger e personale di polizia che hanno abbracciato il martirio erano figli coraggiosi della nazione”. Insomma questi leader puntano a ribadire la spaccatura nazionale senza neppure tentare l’opzione del dialogo lanciata dal ministro dell’Interno. Acuire la tensione non rappresenta un passo favorevole all’attuale governo che solo una settimana fa ha lanciato guerra aperta ai gruppi fondamentalisti che fomentano attentati nella regione del Belucistan, sostenendo il reiterato desiderio di autonomia, e in alcuni casi separazione, di cellule locali come l’Esercito di Liberazione Beluco. A meno che la lunga mano dei vertici delle Forze Armate, sempre presenti e interferenti nella politica pakistana, non stia spingendo per l’attuazione di uno scontro a più livelli che giustifichi una militarizzazione della scena con ampliamento della repressione anche sugli interventi critici di partiti, associazioni e cittadini. Questa è la tesi dei Tehreek-e-Insaf (Pti) che già in occasione della sfiducia e della caduta di Khan parlarono di un’operazione pilotata dalla lobby militare, con cui comunque in precedenza proprio Khan aveva avuto buoni rapporti, e dell’amministrazione statunitense.

giovedì 21 novembre 2024

Netanyahu criminale impunibile

 


Incriminare Netanyahu? Da oggi si può. Lo fa la Corte Penale dell’Aja che emette un mandato d’arresto internazionale per lui e uno per l’ex ministro della Difesa Gallant, entrambi accusati d’aver commesso crimini contro l’umanità. Non solo per i 44.000 gazesi finora uccisi a seguito dell’intervento militare per cielo e per terra sulla Striscia di Gaza, ma per aver creato volontariamente una distruzione di parte della locale popolazione palestinese “privata di cibo, acqua, elettricità, carburante, forniture mediche” siano essi adulti e bambini. La Corte ricorda altresì che “i medici sono costretti a operare sui feriti ed eseguire amputazioni, anche sui minori, senza anestetici” bloccati scientemente, come ogni rifornimento, fuori dai confini del territorio assediato. Un terzo mandato emesso dalla Corte riguarda Mohammed Deif, comandante militare di Hamas, accusato di “omicidio, sterminio, tortura, stupro, cattura di ostaggi” per la pianificazione dell’operazione lanciata dal suo gruppo il 7 ottobre 2023. Che provocò l’uccisione di circa 1.200 cittadini israeliani e stranieri partecipanti a un raduno-concerto oppure dislocati nei kibbutz presi d’assalto e di militari presenti nei luoghi, più il sequestro e la prigionia di 250 individui. Mandati di cattura anche per altri due leader di Hamas, Sinwar e Heniyeh, ma tutti e tre nei mesi scorsi sono stati uccisi da Israel Defence Forces.

Cosa comporta il mandato d’arresto? Una conseguente applicazione da parte dei Paesi che riconoscono la Corte stessa che sono 124 nel mondo, fra essi tutti gli Stati europei. Non fanno parte e non riconoscono la Corte oltre a Israele e Stati Uniti, anche Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, Siria, Iraq, Turchia, Arabia Saudita. Quindi il primo Ministro di Tel Aviv da oggi conoscerebbe una limitazione negli spostamenti verso nazioni dove potrebbe essere fermato e tratto in arresto in ottemperanza alle volontà della Corte.

Potrà accadere? Teoricamente sì, posto che il ricercato difficilmente rischierebbe un viaggio lì dove potrebbe trovare polizie pronte ad applicare il mandato. Tranne che lui in persona e Israele in toto fossero disposti a forzare politicamente la mano come stanno facendo con le operazioni belliche, già giudicate nel maggio scorso dal procuratore capo della Cpi Karim Khan crimini di guerra, ma non per questo fermate. Da nessuno. Di fatto non accadrà nulla. Anche perché la nuova amministrazione statunitense con Donald Trump, blinda le nefandezze del premier israeliano con un’adesione assoluta alla sua linea politica e a quel che rappresenta la sua persona. Peraltro Netanyahu in queste ore sta ricevendo dal cosiddetto “altro Israele” consenso e solidarietà col rilancio della solita accusa di “antisemitismo” indirizzata al provvedimento e alla Corte dell’Aja.  

mercoledì 20 novembre 2024

Pakistan, riparte la guerra al terrore

 


Da oggi il premier pakistano Shehbaz Sharif lancia “l’operazione militare globale” rivolta ai separatisti del Belucistan. I toni del governo di Islamabad sono perentori, il ministro dell’Interno Mohsin Naqvi ha definito martirio di eroi quello degli ultimi poliziotti uccisi in un ennesimo attentato suicida compiuto nell’area. “I figli coraggiosi della nostra patria hanno sacrificato le loro vite per contrastare i disegni nefasti dei terroristi” ha dichiarato in video, mentre la tivù di Stato dedicava servizi giornalistici per ricordare come Islamabad sarà vicina ai familiari dei caduti con sostegni economici. La retorica in questi giorni è stata ridondante anche perché fra assalti e azioni kamikaze si sono registrati prima ventisei poi dodici morti in un crescendo che destabilizza completamente la sicurezza, non solo nel profondo sud della regione contesa. Il Belucistan è un’amplissima area tribale vissuta per secoli come tale dalle popolazioni autoctone prima di finire inglobata in più recenti confini nazionali. E’ divisa fra Pakistan e Iran, quest’ultimo in alcune fasce orientali aggiunge la denominazione Sistan. Storicamente i beluci sono popolazioni iraniche che parlano una lingua locale e pure pashto e brahui. Sull’onda di rivendicazioni autonomistiche sempre negate sia dagli ayatollah iraniani, sia dai governi pakistani d’ogni tendenza, si sono creati relazioni con le componenti del fondamentalismo talebano della Shura di Quetta. Uno dei gruppi che costituiscono una spina nel fianco di chi comanda a Islamabad sono i Thereek-i Taliban Pakistan autori di sanguinosissimi, sensazionali e reiterati attentati rivolti prevalentemente a reparti dell’esercito, e pure a loro familiari. Il più atroce accadde dieci anni or sono presso la scuola di Peshawar riservata ai figli degli ufficiali, e vide lo sterminio di 132 ragazzi presenti nel college. La motivazione dei TTP fu implacabile: si colpivano ragazzi fra i dieci e diciotto anni come vendetta per la medesima sorte subìta da adolescenti e famiglie del Waziristan del Nord sottoposto alla repressione delle Forze Armate con l’operazione Zarb-e-Azb, che doveva colpire i miliziani islamisti ma produsse centinaia di vittime civili.

 

In Pakistan il clima è infuocatissimo da tempo. Nel 2023 i dati offerti dal ministero dell’Interno registrano “1.524 morti e 1.463 feriti per azioni terroristiche e antiterroristiche”. Nel Belucistan propriamente detto, opera l’Esercito di liberazione beluco, che chiede autonomia al governo centrale per poter gestire il territorio  completamente depredato dall’esterno. Da oltre un quindicennio gli esecutivi di Islamabad hanno dato via libera all’uso della regione da parte di aziende cinesi a supporto del cosiddetto corridoio economico Cina-Pakistan. Terminale il porto di Gwadar, in cui Pechino ha investito miliardi, uno dei terminali del passaggio di merci inserito nella Belt and Road Initiative affacciata sul Mar Arabico. Questo, come in altri investimenti infrastrutturali cinesi, vede una cospicua presenza di forza lavoro straniera e non offre ritorno alla popolazione locale né come ricaduta economica né sotto forma di servizi. Se ne avvantaggia solo il governo centrale che stipula contratti con l’estero non riconoscendo ai beluci neppure un dollaro. Una vera usurpazione secondo i gruppi armati che prendono di mira i progetti e le forze dell’ordine pakistane che li presidiano. Dell’aumento di azioni definite terroristiche - sebbene sui fronti bellici libano-palestinese e ucraino si registrino decine di migliaia di vittime - si è ultimamente occupato anche il Dipartimento di Stato Statunitense. Washington ribadisce l’impegno di sostenere l’alleato pakistano, ma sia la smobilitazione dell’amministrazione Biden, sia la valutazione che accanto alle vittime chi risulta colpito dall’instabilità è l’affarismo cinese, potrebbero produrre un esclusivo effetto di facciata, nulla di più d’una dichiarazioni d’intenti antiterroristica e via. Da parte sua il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha annunciato l’avvìo di una propria iniziativa sul territorio di sua competenza contro i separatisti armati. Comunque fra i due confinanti l’Iran risulta finora il meno colpito dai fondamentalisti che supportano le rivendicazioni autonomiste.

mercoledì 13 novembre 2024

Erdoğan-Musk, empatìa sovrana

 


Nella rimappatura mondiale, economica prima che militare e geostrategica, è tutto un fremito fra i nuovi padroni del globo e quelli che ambiscono a diventarlo, personalmente anche fuori da qualsiasi investitura popolare. Basta essere ricchi come gli imperatori dei tempi andati. I magnati, sempre autoritari, che stanno rilanciando il capitalismo delle origini - puro, duro, crudo e crudele - purgato delle edulcorazioni keynesiane che hanno fatto innamorare generazioni di liberal non solo statunitensi e perdere la testa, e soprattutto la via, alla sinistra pur riformista, sono soppiantate da oltre un trentennio. Com’è stato per il fascismo l’Italietta ha fatto da laboratorio. Il berlusconismo degli anni Novanta disegnava un modello guardato con interesse altrove e imitato e ovviamente ingigantito. Perché se non il potere criminale, di cui il Belpaese è comunque un peso massimo, quello finanziario presenta protagonisti ben più corpulenti capitalisticamente parlando dell’omino della Provvidenza che ha inquinato la nostra democrazia nazionale. Il tornaconto personale, privatissimo è trasformato in interesse pubblico, senza quei distinguo, ormai è d’uso definirli ipocriti, che pure politici di levatura internazionale magari chiacchierati, comunque differenziavano. Il clan kennediano, tanto per fare un notissimo esempio, con tutti i suoi legami legali e illegali aveva pesato non poco sui successi del più amato dei discendenti, il John Fitzgerald della Nuova Frontiera, ma la scia delle maldicenze che riguardavano il presidente si riversava più sulla sua brama sessuale e sulla ragion di Stato che sul desiderio di acquistare con la forza del denaro il potere mondiale. Non è più così e non lo sarà, sebbene certi tycoon (pensiamo agli indiani Adani e Ambani tanto per stare in rima e direzionarsi su Paperoni del presente e futuro) preferiscono coprirsi le spalle con premier acchiappaconsensi in base a una recita comunque elettoralmente fruttifera, vale per Modi e Trump per restare su colossi globali, poi a cascata ci sono le corti finanziarie di Putin o Erdoğan. 

 

Proprio fra i purosangue della politica vecchia maniera, che da decenni continuano a galleggiare sopra un mix di consenso incentrato su intuitive capacità, populismo, retorica, finanziamenti del capitalismo cui restituiscono prebende, alleanze e veti incrociati, e i ricconi che scalpitano per impugnare uno scettro come nel mondo medioevale, si creano continui e crescenti ammiccamenti. E’ di queste ore l’approccio fra Elon Musk, nominato Doge (proprio così) per l’efficienza del governo statunitense e il super presidente turco. Il punto d’incontro diventa la tecnologia, che vede il multimiliardario di Pretoria, nazionalizzato statunitense, in prima fila in un pianeta dove con essa accumula stratosferiche ricchezze. SpaceX, Boring Company, Tesla, Hyperloop sono realtà affermate e in via di sviluppo che spaziano, è il caso di dirlo, dal cosmo al sottosuolo, interessandosi di una gamma di trasporti veloci e interplanetari assolutamente futuribili sebbene élitari. Cogliendo al volo l’incarico offerto da Trump al suo geniale pupillo, Erdoğan nell’assise Cop29 di Baku ha dichiarato: "La tecnologia non è un settore in cui si può progredire da soli, sono necessarie partnership. Se si presentano opportunità di collaborazione, siamo aperti a lavorare con Musk". I due s’erano incontrati un anno fa a New York e avevano parlato dell’ipotesi dell’apertura di una fabbrica di Tesla in Anatolia. Ma forse più che alle auto elettriche il pensiero del leader turco va al potenziale bellico, già in buona salute coi droni d’attacco Bayraktar  utilizzati in questi anni su diversi fronti. La Turchia sta già collaborando con l’aerospaziale SpaceX e nel luglio scorso ha lanciato il suo primo satellite di comunicazione, Turksat 6A, da Cape Canaveral. Al di là di simpatie e approcci soggettivi sono questi intrecci fra governanti autocrati e chi su governi, sistemi di potere, affarismo vuol realizzare regni sovrani a costituire l’attuale inquietante realtà. Un sistema di sudditanza definito democratico che di democrazia non ha nulla. Non solo quella partecipativa ormai tramontata ovunque, ma pure la rappresentativa. I governanti chiedono consenso, prospettando ai cittadini un’autocrazia identificativa che si rispecchi nel loro potere e nella loro ricchezza.

lunedì 11 novembre 2024

Erdoğan-Bahçeli, contrasto sui sindaci Dem

 


La recente guerra ai sindaci voluta dal governo di Ankara, che sta indagando su 37 comuni guidati da esponenti del Partito filo kurdo Dem (terzo partito al Meclisi con 57 deputati) per sostituirli con commissari statali, mette sotto pressione la ferrea alleanza fra Erdoğan e Bahçeli su cui l’esecutivo si regge. A ottobre l’anziano ma tuttora inamovibile esponente del Partito nazionalista (Mhp) aveva lanciato l’apertura rivolta al movimento kurdo e all’illustre leader incarcerato Öcalan per riavviare i dialoghi interrottisi un decennio or sono. Al centro di auspicabili colloqui concessioni di autonomia locale ai kurdi, agognate e proposte dallo stesso recluso dell’isola prigione di İmrali, in cambio dell’abbandono della lotta armata, su cui il capo storico del Pkk aveva annuito e che invece è stata sempre disapprovata dalla direzione del movimento arroccata sui monti di Qandil. Per settimane il possibilismo restava nell’aria, con Bahçeli che interveniva perché venisse interrotto l’isolamento totale subìto negli ultimi quattro anni da Öcalan cosicché potesse ricevere la visita d’un nipote, quindi la recente difesa del sindaco di Mardin Ahmet Turk da investire del ruolo di mediatore nel confronto con Öcalan. Il partito Dem, ultima versione di precedenti sigle costrette allo scioglimento poiché accusate di fiancheggiare il gruppo armato kurdo, ha sempre negato e continua a rigettare tale accusa. Che però non gli vale un diverso trattamento soprattutto da parte degli esponenti dell’Akp, lanciato dal 2015 in uno scontro aperto con ogni componente politica kurda e con la stessa cittadinanza dell’est del Paese. Nel corso dei passi attuati da Bahçeli il presidente turco era rimasto silenzioso a osservare, ma a seguito dell’iniziativa in corso contro gli amministratori locali ha dichiarato: "Non possiamo chiudere un occhio sull'organizzazione terroristica che ha istituito meccanismi di estorsione attraverso il potere municipale", un avallo dell’attacco all’investitura popolare ricevuta dai sindaci con le elezioni. Non è solo il responsabile per l’Asia centrale di Human Rights Watch a sostenere che “negare a centinaia di migliaia di cittadini i rappresentanti eletti del governo locale, sostituendoli con funzionari nominati dall’alto, mina il processo democratico e viola il diritto a libere elezioni”, l’alleato di ferro Bahçeli sul tema afferma che un sindaco come Turk, politico navigato utile per l’approccio diplomatico con Öcalan, non deve essere rimosso. Del resto certe imposizioni dall’alto hanno solo inasprito le relazioni, senza far recedere la popolazione dal voto verso i propri rappresentanti etnici, riconfermati e spesso rafforzati a ogni consultazione locale. Nel biennio 2016-17 furono sostituiti gli eletti in 94 comuni. Nel 2019 i fiduciari governativi hanno rimpiazzato gli eletti dell’allora Hdp in 48 municipi su 65. Con l’ultima denominazione il Partito Democratico dei Popoli continua a eleggere suoi esponenti, piaccia o meno al governo centrale.

martedì 5 novembre 2024

Mainstream mediatico e la protesta spogliata

 


I riflettori e le telecamere puntati sull’ovviamente vestitissima Kamala Harris, che spera di diventare prima presidente donna degli Stati Uniti, hanno lasciato cadere la notizia della volontariamente discinta iraniana Ahoo Daryaei. La quale tre giorni or sono era stata filmata nell’Unità di Scienza e Ricerca dell'Università Azad di Teheran mentre si aggirava in reggiseno e slip fra altri studenti maschi e varie studentesse rigorosamente in chador. Il video stesso, ripreso amatorialmente da una persona presente, mostrava prima un approccio interlocutorio verso la giovane da parte d’un uomo e una donna, forse di passaggio o forse appartenenti alla Gašt-e eršâd la nota polizia morale che vigila sull’uso del velo femminile. Poi evidenziava, seppure a distanza, come la ragazza venisse prelevata da un nucleo in borghese, probabilmente di basij. Non si sa ancora se Ahoo sia passata per una centrale di polizia. E mentre su parecchi social il filmato veniva diffuso e osannato come un’estrema protesta, ancor più clamorosa fra le tante che continuano a resistere alla repressione avviata dal 2022 dopo l’uccisione di Mahsa Amini, sempre per una ragione di velo mal indossato, altre voci sostengono che la ragazza sia stata condotta in un centro medico per indagare sul suo stato di salute mentale. Comitati studenteschi di opposizione al governo lanciano l’allarme su tale ipotesi: in altre circostanze più d’un attivista è stato tacciato di follìa o di patologie psichiche. Di più per ora non è dato sapere anche per i noti filtri imposti per “ragioni di sicurezza” dalla Repubblica Islamica iraniana. Ma pur in mancanza d’una chiara versione dei fatti, la ragazza in biancheria intima, non si sa se protestataria o meno, avrebbe avuto il privilegio di aperture di tiggì e prime pagine di giornali, se in questi giorni l’appuntamento elettorale americano non avesse occupato interamente la scena.

lunedì 4 novembre 2024

Harris-Trump, la forma e la sostanza

 


Mentre impazza il count-down mediatico - è bene chiamarlo così all’americana, come ai tempi della conquista lunare prodromo del controllo global-tecno-militare riversato sul Terzo Millennio, altro che “grande balzo per l’umanità” - su chi sarà il 47° presidente statunitense e sui rischi conseguenti d’un nuovo successo del miliardario criminale, nonché della novità rivoluzionaria della prima donna alla Casa Bianca, quell’angolo di mondo arso e riarso che è il Medioriente ha occhi socchiusi e scarsi dubbi. Non solo i sopravvissuti di Gaza, che pure possono domandarsi quanto tempo gli resta per non serrarli definitivamente, bensì gli altri,  attori e comparse, per nulla immuni dalla diffusa cenere. L’elenco delle scelte trumpiane nel quadriennio della sua presidenza (2016-2020) sono note: sulla contrapposizione israelo-palestinese il suo Studio Ovale le studiò tutte per favorire Tel Aviv, a partire da qualificare la città santissima di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico e insediarvi l’ambasciata Usa, in barba all’occupazione in atto dal 1967, alle molteplici risoluzioni Onu, all’area orientale della città abitata da arabi. Quindi: sovranità israeliana sulle siriane Alture del Golan, occupate anch’esse da quasi un sessantennio; introduzione dei cosiddetti “Accordi di Abramo” con Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, punta dell’iceberg d’un patto per normalizzare il ruolo coloniale d’Israele con una fetta del mondo arabo. A tutto danno dei palestinesi sempre più soffocati, braccati, seviziati, assassinati in quei lembi di terra riconosciutagli da altri leader, l’americano Clinton e l’israeliano Rabin, accoglienti e ossequiosi prima che con Arafat con l’ipotesi  d’una patria palestinese. Eppure erano insidiosi quegli Accordi stilati a Oslo, scritti sull’acqua e presto naufragati, non solo perché ignoravano rifugiati e il loro diritto al ritorno, ma risultavano intossicati da colonie e coloni ebraici più pericolosi dello stesso Israel Defence Forces nel soffocare l’esistenza palestinese. 

 

Trump, l’autarchico e sedicente non guerrafondaio, stravede per gli autocrati e per i cuori di pietra alla Netanyahu, perciò una sua rielezione è jattura pura per chi deve misurarsi con la tremenda vendetta che la Knesset avalla dietro il suo duce. L’altro Israele di fatto è impotente e comunque non sa che farsene dei palestinesi se non spingerli fuori dalla terra un tempo voluta e ora scippata a chi non deve avere il diritto di viverci. Agli occhi di questo popolo senza casa che vede annerito ogni futuro, l’altra America, democratica e sorridente come Kamala Harris, appare egualmente infida. E’ lei, è il partito che ha espresso Biden ad aver permesso tredici mesi di carneficina seguìti alla strage di Hamas, chiamando terroristi questi, militari gli apparati di Tsahal. Uno scontro impari che accanto alle vittime prodotte coi due interventi, ridisegna il Medioriente prossimo venturo. Con una Striscia di Gaza rasa al suolo e preda d’un ritorno ebraico, un Libano triturato sotto bombe ad alto potenziale tecnologico e mantenuto sotto tiro, una Cisgiordania immersa nella spirale sgombero-insediamento della diatriba palestinese-colono incentivata dal governo di Tel Aviv e accreditata da Washington quale azione estrema ma necessaria. Questo lungo anno di stragi ha avuto il partenariato dei Democratici d’America, non solo come conseguenza di ciò che tutti i governi degli Stati Uniti hanno sempre fatto dalla nascita dello Stato ebraico, ma uscito Trump dalla Casa Bianca nonno Biden ha dato di più, e la sorridente Kamala l’accompagnava nell’infausta orgia delle spedizioni dei gioielli omicidi di Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin. “Affari” sostiene il mondo finanziario che ha il cuore a salvadanaio e nessuna morale. Chissà se gli affabulatori della geopolitica televisiva, che nelle prossime ore ci spiegheranno non tanto le palesi differenze fra l’omaccione ossigenato e la ridanciana lady, quanto le finissime diversità sulla foreign policy dei due, convergeranno su quanto risulta esplicito: il presunto disimpegno americano in Medioriente resta una favola. Israele, la sua quinta colonna, è il perno d’un imperialismo con alleanze miste nel mondo arabo e non solo. Al di là di chi alloggerà nello Studio Ovale.