La Senatrice Liliana Segre interviene sul Corriere della Sera allarmandosi e allarmandoci per l’uso e l’abuso di una “parola malata” – genocidio – con cui ormai milioni di persone nel mondo (cittadini, attivisti, politici, comunicatori, intellettuali) definiscono la sistematica azione dell’attuale governo di Israele d’impedire l’esistenza alla popolazione di Gaza. Secondo l’anziana Senatrice, testimone del genocidio nel Terzo Reich germanico verso il popolo ebraico, la sua famiglia e se stessa, in quest’ultimo caso per fortuna non perpetrato, i palestinesi della Striscia non stanno subendo quel terribile trattamento. La loro situazione non rientra nella casistica che la Storia, peraltro recente, offre sulla questione. Segre ne elenca alcuni: il Medz yeghern armeno, l’Holodomor ucraino, la Shoah ebraica, il Porrajmos rom, e poi la strage cambogiana e lo sterminio tutsi che non hanno dalla loro il conio d’un termine autoctono di genocidio. In realtà neppure per i palestinesi questa matrice c’è stata, ma sono ben visibili la morte e la pianificazione della propria estinzione per bombardamento, fame, malattie, impossibilità di cura, negazione d’un luogo dove vivere, tutti imposti da Israele. Eppure alla senatrice non basta. Ovvero anche lei ammette che ci sono strage e crimine, ma quel termine non si deve usare, non si può applicare ai palestinesi, probabilmente non ne hanno diritto perché nel concetto accademico di cosa sia un genocidio ai palestinesi non si adattano i presupposti di: pianificazione dell’eliminazione e rapporto funzionale con la guerra. Questioni di lana caprina e di punti di vista, gentile Senatrice. Le domandiamo se, per il buon cuore della sua posizione, le vittime gazesi dei tredici mesi di sterminio da parte di Israel Defence Forces, 50% bambini e 30% donne, abbiano un rapporto funzionale con una guerra, peraltro presunta visto che costoro non combattono, la Striscia di Gaza non è uno Stato, lo stesso Hamas non è un esercito.
Anziché aprire gli occhi sull’orientamento guerrafondaio, coloniale, razzista dello Stato di Israele nella sua schiacciante maggioranza, non solo sull’attuale governo ancorato al potere e blindato da un’adesione popolare massiccia; più che constatare che l’altro Israele non solo non riesce a rovesciare chi comanda, ma gli è solidale davanti alle stesse limitazioni della follìa omicida poste dalla Corte Penale dell’Aja con la richiesta d’arresto per Netanyahu e Gallant, la Senatrice Segre rilancia il tema della persecuzione antisemita. Lo fa in maniera anomala, potremmo dire scorretta, mescolando il vecchio fronte mai morto del nazifascismo, del negazionismo, del relativismo con cui può avere rapporti più d’un partito del cosiddetto fronte democratico italiano, europeo, mondiale non certo chi sostiene i palestinesi con un attivismo militante, aiuti umanitari, impegno diretto nei luoghi di sterminio o genocidio costretto ad amputare arti senza anestesia su corpi straziati “dall’unica democrazia mediorientale”. Pur appartenendo a un popolo e a una comunità servirebbero realismo e pudore, che non leggiamo nelle righe apparse sul Corsera. Una storica ebraica italiana ha di recente posto tale riflessione parlando del suicidio di Israele. Da tempo la comunità ebraica italiana ha imboccato la strada che l’allontana da quell’antifascismo e antitotalitarismo richiamato da Segre nel suo intervento. Chi segue la questione palestinese sa che la demonizzazione Israele prima di riceverla la impone quando considera terrorista non solo il militante di Hamas, Jihad, Fatah ma la gente che nei territori occupati e bombardati è costretta a sopravvivere prima che qualcuno da Tel Aviv decida del suo presente e gli impedisca un futuro. Gentile Senatrice Segre è dunque malata la parola o lo sono i fatti?