“La biblioteca di Mosul mi ha reso scrittore.
Era in un posto magnifico negli anni
Quaranta e Cinquanta: sulla riva destra del Tigri, presso il ponte Re Ghazi“
racconta l’iracheno Mahmoud Saeed che della narrazione ha fatto una ragione di
vita. Accanto all’ultimo scempio operato dai tagliatori di teste dell’Isis, che
applicano questa criminale manìa alle stesse statue decapitandole e smembrandole
assieme a capolavori millenari del museo cittadino, c’è quello della Biblioteca
cittadina di cui il direttore Ghanim al-Tàan calcola un’approssimativa distruzione
di circa diecimila volumi e manoscritti antichi. Una perdita che l’Unesco ha già
definito inestimabile. La particolarità della biblioteca, seconda in Iraq solo
a quella di Baghdad, consisteva nella presenza di migliaia di libri
appartenenti alle stesse famiglie benestanti che li depositavano nelle sale di
lettura e che potevano essere consultati da chiunque. Su quegli scaffali si rintracciavano
testi messi all’indice nel Paese: anche teorie politiche comuniste e socialiste
o questioni relative alla liberazione sessuale. Venivano, inoltre, raccolti
preziosi manoscritti d’epoca Ottomana. I roghi del materiale “eretico”, relativo
a religioni considerate takfir (empie),
e altre questioni sgradite, erano iniziati dall’autunno scorso. Approssimativamente
si stima che negli ultimi due mesi siano state arse 100.000 copie di libri
antichi insostituibili.
I libri, sì sempre loro. I libri di storia c’insegnano che quattro millenni prima di Cristo in
quei luoghi definiti poi biblioteche si raccoglievano tavolette d’argilla su
cui venivano impresse testimonianze di vita e vicende vissute. Accadeva a
Ninive, non lontano da Mosul, dove il re Assurbanipal aveva creato la maggiore
biblioteca dell’antichità, dov’era riassunta l’epopea di Gilgamesh di cui va
fiero il popolo kurdo che la considera l’alba della propria civiltà. Era quella
l’aurora civile del mondo che trovò continuazione in altre popolazioni, oltre i
Sumeri. Sebbene nelle antiche società le contraddizioni fossero molte, tutte si
chinavano all’arte e a un culto solo parzialmente oscurato dalle religioni. Che
spesso ordinavano e imponevano, ma preservavano anche. La conservazione del
sapere venne proseguita dal mondo arabo il cui credo islamico non scivolava
verso la cieca e meccanicistica follìa con cui il moderno fondamentalismo
s’approccia alle opere d’arte considerandole esclusivamente idoli. Da
sbriciolare e cancellare come non fossero mai esistiti. Furono i mongoli a
disgregare le oltre sessanta biblioteche che la città di Baghdad aveva
raggiunto in epoca Abbasside, annegando manoscritti pregiatissimi nella acque
del fiume Tigri. Certo gli schiavi scalpellini messi all’opera dal rancoroso
Thutmose III e dai successori, cancellarono per anni la presenza della mitica
Hatshepsut, la regina egizia diventata faraone grazie ai buoni uffici del clero
tebano. Ma queste distruzioni rientravano nelle lotte per la testimonianza d’un
potere personalizzato, come sempre il potere è stato e come continua a essere.
L’idea che il Califfo Al-Baghdadi e suoi
seguaci mostrano dell’autorità sembra basata sulla
frantumazione dell’altrui potere, ossessionati dalla sostanza che idee, fedi,
credenze differenti dalla propria riescano a far emergere. Timorosi del
confronto di culture, incapaci di stabilire rapporti o affrontare conflitti anche
oppositivi senza disintegrare il nemico. Intolleranti verso la diversità degli
altri che dev’essere annullata fino a sparire. Assolutisti nell’unicità del
modello proposto. Per questo frantumano a bruciano, statue, uomini, libri.
Dissolvono vestigia, come hanno fatto e fanno anche i guerrafondai d’Occidente.
In quella culla del genere umano che sono le pianure fra Tigri ed Eufrate, nel
tragico aprile 2003 l’umanità aveva già perso il museo archeologico e la
biblioteca di Baghdad. Tesori inestimabili, un milione e mezzo di libri, opere
d’arte sumera, assiro-babilonese finiti sotto bombe e razzie di saccheggi. Il
dolore delle anime sensibili allo scempio urlò da ogni parte del globo per
limitare i danni, raccogliere e mettere a sicuro i reperti che si potevano
salvare. Non fu fatto. La guerra e l’abbandono sono andate a braccetto, incuria
e furti sono proseguiti per anni, abbandonando quel ch’era distrutto, portando sul
mercato nero pezzi trafugati. L’Iraqi
Freedom statunitense ha sostituito la satrapìa di Saddam Hussein con un
caos socio-politico che portava morte nel corpo e nelle menti. L’attuale panorama,
aggiunge sangue e angoscia ed è difficile preservarsi con la saggezza che
faceva a dire a Marguerite Yourcenar: “Costruire
biblioteche è come edificare granai, per ammassare riserve contro un possibile
inverno dello spirito”.