Vota la Siria, non i siriani che sono fuggiti, profughi, rifugiati, da almeno dieci anni. C’è naturalmente chi è rimasto, un manipolo di loro andrà alle urne a scegliere candidati sedicenti indipendenti per riempire 140 seggi del nuovo Parlamento, altri 70 saranno cooptati direttamente dal traghettatore di questa fase di transizione, iniziata dieci mesi or sono con la cacciata di Bashar Asad. Lui è il presidente ad interim Ahmad al-Sharaa, un tempo al-Golani, convertito alla democrazia per quanto pilotata, un po’ dalle coordinate internazionali che ne sostengono l’operazione: dalla Turchia alle monarchie del Golfo, col benestare degli Stati Uniti e pure d’Israele, che lo tiene sotto scacco per i confini occidentali oltre le Alture del Golan e per il patrocinio, reale o presunto, della comunità drusa. Un po’ dal suo stesso approccio che punta con queste consultazioni a ridare fiato al sistema dei capi locali, di provincia, tribù o bastone. Un sistema arcaico mediorientale adottato da vari dittatori “socialisteggianti” che nel secolo scorso hanno sotterrato i sogni d’un socialismo arabo e terzomondista. Roba vecchia in veste nuova. Eppure la popolazione coinvolta, soprattutto nei centri urbani maggiori, dalla capitale ad Aleppo e Latakia, spera in un rilancio dei rapporti e della vita, oscurata per anni da un conflitto sanguinario, che solo l’attuale genocidio israeliano verso i gazawi sta superando. I candidati da eleggere sono oltre 1.500, sono stati vagliati da al Sharaa in persona e dagli undici membri del Comitato Supremo per le attuali elezioni, formato da elementi scelti dallo stesso presidente. Una partita di giro che smentisce qualsiasi libero arbitrio. Sono nove uomini e due donne, Lata Shaher Aizouki, giornalista senza chador e Hanan al Balkhi, ex ambasciatrice in Norvegia e membro assai fedele del Consiglio Nazionale Siriano.
Fra le barbe e i doppiopetti compaiono un ex ministro, ovviamente non del passato regime bensì degli organismi provvisori di Idlib, un giudice, un ministro dell’educazione sempre dei territori ribelli del settentrione siriano, e poi dei professionisti, un radiologo, un dentista (la nuova leadership tine molto a rilanciare i settori della salute e dell’istruzione), altri duri e puri ex esponenti dell’Esercito Siriano Libero e anche un attivista kurdo. Manca un esponente alawita e la stessa comunità concentrata nella fascia costiera occidentale, già punita fra febbraio e marzo scorsi per un tentativo di ribellione, ha denunciato l’ennesima intimidazione col misterioso assassinio di Haidar Shahin, candidato per l’area di Tartous, ammazzata avvenuta a fine settembre. L’astensione da qualsiasi voto da parte degli alawiti è data per certa, come pure la lontananza dai seggi e dalla loro conduzione dei kurdi del nord-est, sebbene nei mesi scorsi ci sia stato un accordo per inglobare le Unità di Protezione Popolare e le Forze Democratiche Siriane, che agivano nel territorio del Rojava, nel nuovo esercito siriano, rilanciato attorno al solido nucleo di Tahrir al Sham, la creatura militar-politica dell’allora al Golani. La nuova Siria va veloce, e al Sharaa con lei, seppure all’inizio del nuovo corso ha promesso di mettersi da parte appena la nazione avesse assunto una transizione tranquilla, che in fondo finora non c’è stata per i venti di guerra agitati anche contro questo territorio da Israele. Il ritorno alle urne, sebbene coi limiti illustrati, doveva servire a questo, visto che finora una certa normalità la vive solo il bazar. Mentre i vertici, pur provvisori, attendono ulteriori cordialità dai finanziatori internazionali soprattutto per rilanciare investimenti e lavoro davanti a una corposa disoccupazione che sfiora il 40% degli attuali ventiquattro milioni di cittadini. Certo, i laici, le minoranze che non si riconoscono nell’islam oltranzista temono norme regolate dalla Shari’a, è il verbo che la popolazione anche islamica spera di discutere fuori da conflitti.
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