Con la
scelta di Salman come nuovo re e del principe Muqrin quale erede al trono,
la tradizione della ricchissima e conservatrice petromonarchia saudita si pone
in sintonia con talune tendenze espresse nella nazione dallo scomparso re
Abdullah. Per la cronaca entrambi i designati sono figli del fondatore
dell’Arabia Saudita, re Abd al Aziz Saud. Salman ha 80 anni, Muqrin è di dieci
più giovane. Quest’ultimo ha vestito la divisa dell’aeronautica dove ha
lavorato fino al 1980 e dal 2005 è stato capo dell’Intelligence del Paese, un
fattore su cui torneremo. Scelta di continuità, dunque, che però deve fare i
conti con un panorama geopolitico regionale e internazionale diventati sempre
più focosi. Il ‘Consiglio di fedeltà’ (Hay’at
al Bay’ah), composto dai figli e dai discendenti rappresentativi della casa
regnante, che ha dato vita alla scelta di successione, anni addietro aveva
approvato la creazione d’una figura di vice principe erede nell’ipotesi d’una
carica ereditaria vacante. Ma il caso in cui il vice principe può assumere
l’incarico è legato all’esclusiva impossibilità da parte del governo
d’usufruire sia dell’impegno del sovrano sia del principe. Situazione alquanto
remota.
Tale norma
rappresenta comunque una delle modifiche con cui Abdullah, in nove anni di regno ufficiale
e nei precedenti quindici d’ufficiosa reggenza, s’è costruito la fama di
riformatore in un Paese ossimoro, dove vale la legge degli opposti: modernità
di facciata dietro l’amovibilità di regole e cultura rimaste medievali nell’accezione
più oscurantista del termine. Almeno così pensano diversi osservatori. Secondo
alcune valutazioni la creazione d’un secondo erede al trono ha evidenziato una
feroce competizione per il potere fra il principe Bin Abdullah, figlio del re
scomparso e il principe Bin Naif, ministro dell’interno, divenuto ora seconda
linea al trono dietro il principe Muqrin. Il novantunenne sovrano pensava a una
pacifica soluzione della diatriba quand’era ancora in vita, ma non ha fatto in
tempo. Strascichi che restano in un ‘Consiglio di fedeltà’ dove lignaggio e
clanismo si mescolano e s’azzuffano. L’attuale sistema di potere viene definito
piramidale, al vertice ci sono forze di sicurezza (ministeri dell’interno, della difesa e guardia nazionale), il
‘Consiglio di fedeltà’ è al centro, in fondo si pone la successione al trono
con l’influenza del sovrano. Le forze di sicurezza, ben organizzate e ben rifornite
dalla tecnologia occidentale, sembrano influenzare lo stesso ‘Consiglio della fedeltà’,
controllando di fatto la struttura della successione al trono.
Secondo la
nuova legge
l’attuale monarca avrebbe minor potere degli apparati della forza, nei quali
comunque c’è la presenza di rampolli reali (il citato Muqrin è uno degli
esempi). In passato per ogni gruppo della famiglia reale era stato definito un
ruolo, ora è in corso un cambiamento nel passaggio fra la monarchia post
coloniale di prima e seconda generazione (Feysal e Abdullah). Un fattore chiave
della politica interna resta la linea delle riforme, timidamente tracciata dal
re scomparso, che dovrà prevedere maggiore partecipazione popolare. Ad esempio
il Consiglio della Shura dovrebbe essere eletto, così da originare forme più
democratiche, invece sulla condizione femminile e dei diritti civili le
valutazioni della Comunità internazionale restano ampiamente negative. Un
aspetto destabilizzante riguarda la minoranza sciita, le cui proteste sono
state represse in casa e nel vicino Barhein, mentre in queste settimane la
questione si riapre sul versante yemenita. Una partita che si lega alla
politica estera e rappresenta l’ulteriore sfida per l’attuale establishment. L’occhio
sulla regione e sul mercato continuano a rappresentare due irrinunciabili
obiettivi che hanno finora accresciuto il potere saudita, attraverso l’alleanza
con gli Stati Uniti e il Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Restare sotto l’ombrello statunitense significa però doverne coadiuvare gli interessi
nel Medio Oriente vicino, sui cui i sauditi hanno mire egemoniche, e quello
lontano che sfiora i confini cinesi. Ovunque il ruolo dell’Iran è competitivo
seguendo più che coperture con altri stati, un discorso ideologico che cerca
alleanze su base etnico-religiosa con le comunità sciite sparse nella regione e
su quello antimperialista e d’opposizione a Israele e al suo uso della forza
(non solo in funzione antipalestinese). La situazione conflittuale è ampiamente
cresciuta in un’area vastissima e ciò non può non preoccupare i sauditi che
vorrebbero proseguire i propri affari in condizioni più tranquille. Posizione
molto diffusa fra tutti gli strati della popolazione e fattore che può legare
gli interessi del vertice e della base. In anni recenti investimenti interni di
centinaia di miliardi di dollari hanno contenuto disoccupazione e povertà,
motivi deflagranti nelle società mediorientali, dove le energie giovanili (anche
in Arabia Saudita la metà della popolazione ha meno di 25 anni) possono
riversarsi nelle proteste, com’è accaduto nelle Primavere arabe. Alle quali
Riyad ha promesso e donato petrodollari, agendo sul doppio binario securitario
verso l’Egitto dei militari, con cui in futuro duetterà sempre più, e
destabilizzante del jihadismo, che è nel cuore di certo sunnismo wahhabita e
d’un tribalismo ricco e autoreferenziale.
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