S’aggira sempre più smagrita, canuta, invecchiata la professoressa Saif, madre di Alaa il detenuto eccellente, uno dei tanti sepolti vivi del regime di al Sisi. Del figlio sa sempre meno, perché nel vuoto sono caduti i numerosi appelli per la sua liberazione. Disattese le invocazioni materne rivolte al regime egiziano e pure al premier inglese Starmer, visto che Alaa ha il passaporto britannico e quella Democrazia politica e giuridica poteva farsi un piccolo scrupolo e domandare il rilascio d’un suo concittadino. Ma certe tutele non appartengono a una civiltà occidentale che definisce statista un oppressore di gente comune cui non viene solo negato ogni diritto, lui la trasforma in bersaglio, com’è accaduto al ricercatore Giulio Regeni - raggirato, arrestato, seviziato, assassinato - perché osservava, parlava e scriveva. Al Sisi è ammesso nelle assise internazionali, addirittura quale negoziatore per lo strazio degli abitanti di Gaza. Lui che con gli ‘Accordi di Abramo’ dei gazawi condivide un futuro fatto d’ulteriori persecuzioni e deportazioni, ma non oltre il confine di Rafah, non in casa sua. Perché quelle famiglie, finora massacrate sulla propria terra, devono finire altrove, fuori dal personale orizzonte geografico e politico egiziano. Questo è il generale al Sisi, l’uomo che continua a tenere reclusi sessantamila cittadini, da chi come Alaa parla di liberarsi dalla perfidia manipolatrice dei militari, ai semplici candidati che hanno provato a sfidarlo alle elezioni. A uno di questi, Ahmed Tantawi, arrestato col suo staff sempre per la litanìa della ‘sicurezza nazionale’, il presidente ha promesso un’uscita dal carcere alla fine di questo mese. Sarà vero? o finirà coi rinvii perenni applicati alle centinaia di sottoscrittori di post sui social, com’era Patrick Zaki. Chi è finito nelle galere di Tora e dintorni, si salva se non pensa.
Se è giovane, robusto, dotato di buoni anticorpi per resistere alla rudimentale ma efficace “tortura del pollo” e a quelle coi cavi elettrici mai passate di moda. Se resiste a cibi putrescenti, a latrine che allagano le celle, dove i corpi ammassati emettono più gemiti che respiri. In quel Paese che l’Unione Europea considera sicuro in base ai propri affari, ti va di lusso se non muori. Certo, se hai chinato la testa, accettato d’essere un numero cui ogni tanto, per convalidare la “Democrazia”, viene offerta l’opportunità di votare, puoi recarti al seggio e contribuire a quel 90% che da dodici anni incorona Sisi Capo di Stato. Così Starmer e Von der Layen sono confortati, e tutto fila liscio per chi non crea problemi al Cairo e a Bruxelles. In più, ogni tanto, il potere sopporta il manipolo dei pochi, pochissimi raccolti sotto la sede cairota dell’Ordine dei Giornalisti, categoria in gran parte tacitata, normalizzata. Dalle testate più note, come Al-Ahram, che ai tempi della rivolta di Tahrir, pur sotto Mubarak, raccoglieva fatti e opinioni e poi non più, per quella morte della libertà di pensiero e parola imposte dai militari. Infine trasformata in notiziario di Palazzo, come quasi ogni media d’Egitto. Eppure qualche giorno fa un gruppetto di coraggiosi della penna e del microfono, più qualche attivista e politico s’è lì riunito al centro del Cairo - si riconosceva Hisham Ismail Fahem. Tollerati dalla polizia perché parlavano delle stragi quotidiane subìte dai palestinesi, hanno incrociato mamma Leila, l’odierno suo necessario bastone, l’immensa volontà di lottare per una giustizia di famiglia e di popolo. Sono stati commoventi gli abbracci, offerti con delicata attenzione a quel corpicino senza carne per digiuni politici bistrattati da chi vuol decidere delle sorti di un’umanità ridotta a pelle e ossa.