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giovedì 4 settembre 2025

Cina vicinissima

 


Fanno più effetto le fitte e perfette file di divise multicolori che percorrono a passo marziale la piazza Tienanmen oppure lo scorrere iper armato di ordigni nucleari (DongFeng-61, JL1 Fulmine), i missili antinave supersonici, i carri e i droni, al cospetto di cittadini estasiati e orgogliosi più del regista e padrone dell’intero spettacolo di grandiosa grandezza dell’Oriente più evoluto? Entrambi. Ma la seconda voce si trascina a suo conforto l’effettiva capacità di questa potenza che è esibizione di tecnologia. L’odierna Cina antioccidentale, anche perché un certo Occidente la stuzzica e continua a bistrattarla, sta raggiungendo quello status per cui gli imperi s’innalzano e s’impongono: la tecnica creata e applicata. La padroneggia ovunque, e ora che ne mostra gli effetti anche nell’antico mestiere delle armi, su cui i nemici storici, nipponici e statunitensi, avevano la meglio diviene lo spettro da cui difendersi. In realtà è più d’un ventennio che l’ora ics è attesa da politologi e analisti economici, ma chi pratica gli effetti di queste materie, che per il dominio del mondo sono accampate fra la Casa Bianca, il Pentagono e Wall Street, dunque dai tempi di Bush junior, passando per Obama, Trump, i generali e i finanzieri posti ai vertici di quegli organismi, ha nicchiato facendo finta che il Dragone esistesse solo nei brutti sogni. Certo, ancora oggi che uno Xi Jinping vestito da Mao Tse Dong si bea sul palco godendosi la propria Pace Celeste, le classifiche del Pil globale mettono gli affari statunitensi davanti a tutti, coi propri sei trilioni di dollari di vantaggio a trainare il carro capitalistico del pianeta. Ancora oggi JB Morgan e Bank of America primeggiano in tutte le Borse, anche in quelle asiatiche di Shanghai e Singapore. Però non durerà. Lo dicono gli advisors di Manhattan, e le statistiche dei numeri che pongono sempre più studenti cinesi (e indiani) nelle università del mondo e conseguentemente negli organismi della ricerca tecnologica e poi della finanza internazionali,  così da scavare spazi per la trasformazione della supremazia e creare sorpassi. La demografia presenta il conto quando s’accompagna a pianificazioni statali, e in questo lo statalismo postcomunista in salsa capitalistica punta a fare Bingo, con la soddisfazione nell’iperuranio dell’uomo che alla scomparsa del grande Timoniere tirava la volata a simili soluzioni, Deng Xiaoping. 

 

 


Forse l’ex “capo architetto” della riforma economica cinese, solo approssimandosi alla dipartita terrena subodorava che il grande balzo avrebbe aperto scenari catastrofici per il cosiddetto Vecchio Mondo, ma chi osservava da un mondo egualmente antico e compassato aveva tutto il tempo di attendere sulla sponda del fiume il passaggio di cadaveri. Capitalismo di Stato, mix di statalismo e privatizzazione, controllo socialista del capitalismo, capitalismo collettivistico burocratico, le definizioni d’un orizzonte socio-economico fino a mezzo secolo addietro sconosciuto si sono sprecate in questi anni. Fra l’altro i tratti sono in divenire e sono mutati dal 1980 ai giorni nostri, con tanto di tratti d’indicibile profitto, corruzione, criminalità speculari alle peggiori storie delle fortune (capitalistiche) indissolubilmente legate al crimine, come ricordava il Balzac di Papà Goriot, perché certi vizi non hanno latitudini geografiche e possono riprodursi ovunque. Ma non sono tali righe una disamina sul dna cinese, non ne avrebbero le competenze che illustri studiosi di sistemi economici realizzano da tempo, proponendo distinguo e contraddizioni di questo Paese, idealizzato prima e dopo il Sessantotto per marxismo-leninismo allo stato puro, con comuni agricole, studenti-operai, ore di studio e lavoro a forgiare una nuova gioventù per una società migliore, comprensiva di ‘rivoluzione culturale’ e Rivoluzione con la maiuscola. Del cambio di passo di Deng, s’è ricordato, e si può pure rammentare la Tienanmen della rivolta studentesca dell’Ottantanove - rivoluzionaria? borghese? - la cortina dell’epoca ne discorreva poco. A Occidente s’insinuava, s’ipotizzava, dall’interno un Deng matusa  celava tutto, soprattutto le vittime d’una repressione protratta nel tempo. Fu l’ultimo anelito d’una Cina  ideologica e ideale? Forse. L’immagine dei Novanta e molto oltre è data dalle impattanti China National Petroleum Corporation, Sinopec, China State Construction Engeneering attive, attivissime ed efficaci sulle piazze mondiali, accusate d’impossessarsi dei tesori dell’altrui sottosuolo in Africa, Asia, Sudamerica. Accusate da chi? dalla concorrenza che pratica il medesimo scippo dall’epoca del colonialismo seicentesco. Nel pieno rilancio dei blocchi commerciali, geopolitici, geo militari, imperi invecchiati e innovati si confrontano, proponendo adesioni. Con uno spazio per le utopie scarso o nullo; i sistemi forti s’espongono per imporsi, gli altri osservano più o meno persi o angosciati.

lunedì 1 settembre 2025

L’altro organismo

 


Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva, assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza. Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’ pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi. 

 

 

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India, rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh, e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da soli fanno un quarto della cittadinanza   globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan, perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil. Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori, da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso vale  per la Turchia erdoğaniana, liberata dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto collo, ma tant’è.