lunedì 16 dicembre 2024

Asad, voce da replicante

 


In nessun momento ho pensato di dimettermi o di chiedere rifugio” dichiara dopo una settimana dalla scomparsa dal Palazzo, quello di famiglia, griffato Tange per volontà paterna, che lui s’era ritrovato ad abitare con consorte e prole come erede aggiunto del terrore. Asad non solo è vivo, sorretto per “ragioni umanitarie” dal suo protettore che serviva per interessi reciproci, ma ora da Mosca respira e pontifica. Dice cose non verificabili: è stato a Damasco fin nelle ultime ore dell’attacco ribelle, per passare nella base di Hemeimim a organizzare – lui – l’intervento bellico russo. A bè, sì bè… povero Asad lasciato soletto dai fedelissimi di truppa che hanno pensato a mollare, nascondersi, molti pure a voltare gabbana. Il presidente, ormai ex, dichiara invece il proprio “… profondo senso di appartenenza alla Siria e alla sua popolazione, un legame che resta immutato in qualsiasi posizione o circostanza”. Lo scrive su Telegram, perdendo l’occasione d’un silenzio non salvifico, visto che la salvezza l’aveva comunque raggiunta nella prigione dorata offerta dal suo tutore. Un silenzio con cui poteva chiosare la tragedia che l’ha visto per due decenni protagonista d’una condotta assassina ereditata sì, ma poi incarnata con volontà personale oltreché tribale. E quella laicità dei ruoli e dell’amministrazione, contro gli azzardi del confessionalismo e dell’esecrabile fondamentalismo, li ha usati alla maniera familiare, come aveva visto fare da papà Hafiz o come gli avevano narrato fosse giusto, per mascherare massacri. Sentendosi a posto per coscienza e senso d’appartenenza alla schiatta dei raìs che dominano, schiacciano, insanguinano e lavano, faccia e mani come per entrare in Moschea. Ora riappare allampanato e illanguidito dalla furia della lugubre storia che si trascina dietro e sentenzia: “la Siria è in mano ai terroristi”. Se ne accorge ora, ch’è un po’ guardare altri e osservarsi allo specchio da un luogo recondito, diverso da quello che fu il castello dei suoi privilegi, sebbene gradisse chiamarlo Kaser ‘l Shaab (Palazzo del popolo), da cui vomitava ordini di persecuzione e sterminio. Un sito ancor più ovattato, e non per la latitudine settentrionale, ma perché da lì la recita, incarnata o imposta, assume contorni surreali pur avendo cannibalizzato la realtà.

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