Non si può
dire che i Lupi grigi,
o gli attivisti del kemalismo più feroce, e quelli dell’Islam politico,
plasmati un tempo da Erbakan e poi da Erdoğan, familiarizzino facilmente. Anzi.
Tendenzialmente laici i primi, oppure credenti secondo quel soggettivismo
privato indicato da Atatürk, investiti d’una religiosità pura e totale, vissuta
nelle scelte quotidiane, gli altri. Già con le formazioni disciolte dai
militari nel 1971 e dopo il golpe del 1980 i teorizzatori dell’Islam turco chiamavano
il loro partito del “Benessere”, della “Giusta via”, sino a giungere al
vincente “Giustizia e sviluppo” e mostravano intenti populisti e
interclassisti. E al tempo stesso un mai celato nazionalismo che li aiutò a superare
le ripetute persecuzioni collettive e personali scatenate contro di loro dalla
casta militare. Un elemento riusciva facilmente a rilanciarne le velleità
politiche: il senso di Patria con la maiuscola, grazie al quale facevano della
nazione turca un patrimonio genetico facilmente spendibile su ogni piazza e
latitudine. Perciò dopo divieti e scioglimenti spuntava una rigenerazione che
vedeva l’Islam turco interloquire con ogni ceto sociale. E quando, dalla fine
degli anni Novanta, la direzione di quest’area politica passò all’intraprendente
e motivata generazione dei Gül ed Erdoğan taluni orientamenti precedenti
cambiarono rotta.
Islam sì,
ma niente
antioccidentalismo e antimodernismo, cosa che da subito piacque molto al
Pentagono e alla Nato che sui generali anatolici e sulle loro basi aeree continuavano
a investire tantissimo per il controllo dell’urente scacchiere Mediorientale.
Dall’inizio del Millennio l’ascesa e le fortune dell’Akp e del modello
erdoğaniano continuano a poggiare sul piedistallo conservatore del suo
predecessore e trovano nel nazionalismo l’elemento con cui quel partito ha
ricevuto voto e consensi anche da famiglie precedentemente vicine al kemalismo.
Ecco un comune denominatore che in questi giorni avvicina i seguaci dell’Akp e
del Mhp nel bruciare le sedi del Partito democratico del popolo, nell’inseguire
e picchiare i suoi militanti, nell’umiliare, linciare, uccidere uomini e donne
kurde sotto il vago sguardo delle forze dell’ordine. Una storia antica e
recente fatta di assassini, persecuzioni, deportazioni esaltate negli anni
Ottanta e Novanta, soprattutto nel fascismo che albergava fra militari di
professione e quelli di aspirazione, come sono i Lupi Grigi. Eppure durante il suo
secondo mandato l’allora premier Erdoğan ha usato tattiche d’apertura verso
candidati indipendenti (docenti universitari e uomini di cultura,
rappresentanti industriali, businessmen e women); ai kurdi del sud-est
prometteva spazi d’autonomia e autogoverno, mentre fra il 2010 e 2012 su suo
input il capo degli agenti del Mıt preparava la via ai colloqui di pace col
leader incarcerato Öcalan.
E allora da
dove viene la follìa
esplosa da due mesi a questa parte, rinfocolata dai discorsi nient’affatto
pacificatori del presidente? Viene da lontano. Chi segue le vicende turche
interne e internazionali conosce le manìe di grandezza e l’avventato
determinismo con cui Erdoğan ama muoversi, col consenso di chi, anche nelle
alte sfere, lo segue ciecamente e contro chi gli indica differenti passi. Dal
durissimo contrasto coi vertici delle Forze Armate e la magistratura (per
promuovere uomini del suo entourage o comunque fedeli alla sua linea) a quello
con amici diventati freddi e distaccati (Gül) o acerrimi nemici (Gülen); passando
allo scontro coi giovani metropolitani per Gezi Park, ai giri di walzer sulla
scena internazionale con cui ha dato solidarietà a Gaza additando le criminali
azioni d’Israele, alla tolleranza e supporto ai ribelli anti Asad, miliziani
dell’Isis compresi. Ultimo, ma non certo secondario, il progetto d’un
presidenzialismo cucito sul suo immenso potere personale e clanista. Gioco non
diverso da altri autocrati, benedetto comunque da passaggi democratici,
elezioni, Parlamento. E’ con l’intoppo dello scorso giugno che quest’ultimo ingranaggio
s’è bloccato, e da lì proviene l’escalation della violenza che dalla strage dei
volontari pro Kôbane a Suruç ha preso un’accelerazione pericolosissima. Perché
oggi si brucia e s’ammazza come nei
periodi più neri della storia di quel Paese. Ieri altre trenta vittime nella
marcia promossa dal partito filo kurdo a Cizre.
Dal 7
giugno il ‘sultano’ non ha più certezze e con questo clima d’assedio cerca un riscatto
che nella normalità non verrebbe. I sondaggi per le elezioni del 1° giugno
vedono tutte le forze d’opposizione stabili o in crescita. Proprio l’Mhp e
l’Hdp potrebbero addirittura aumentare le buone percentuali registrate a
giugno; entrambi con gli attuali 80 deputati ciascuno impediscono all’Akp di
volare alto e occupare quella maggioranza di seggi che riproporrebbero il
monocolore islamista e soprattutto il cambiamento unilaterale della Costituzione.
Indiscrezioni sostengono che lo stesso premier Davutoğlu sia stato intralciato dal
presidente nei tentativi di formare un governo di transizione. Erdoğan e i
fedelissimi puntano tutto sulle elezioni in un clima agguerrito, affermando di
voler combattere terrorismo, caos interno e stasi economica. Per ottenerlo i
passaggi diventano: un Hdp intimidito nel poter svolgere una campagna
elettorale regolare o peggio una sua esclusione in quanto accusato di
fiancheggiamento dei guerriglieri del Pkk. Un imbavagliamento dell’informazione
sgradita che ha trovato nel Doğan group e
nel gülenista Koza Ipek, capri
espiatori da azzittire, così da preservare da qualsiasi dissenso e pensiero
critico un elettorato che per l’80% è orientato dai media. E nella corsa al
tutto per tutto in chiave autoritaria che sdogana i massacri, c’è chi non
esclude un avvicinamento erdoğaniano proprio al Milliyetçi Hareket Partisi di
Bahçeli. Un realismo politico diabolico per multietnicità, democrazia e vita.
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