Il corpicino, ormai cadavere del bimbo nato
profugo e mai rifugiato se non fra le braccia d’un poliziotto turco che ne
constata l’assenza d’ogni luce, non è diverso da altre scene di morte ben più
che prematura. Che riguardano strazi disumani decisi e compiuti da uomini in
doppiopetto, uniforme o in maniche di camicia per Ragioni di Stato e di Potere.
Coadiuvati dal disinteresse professionale di certa informazione mainstrem, che
pur in certi casi s’indigna, mentre lascia cadere altri nell’oblìo, senza
un’immagine, una riga di commento e neppure di cronaca. L’orrore, il
sensazionalismo calamitano un’attenzione, purtroppo sempre più voyeristica,
scevra però da consapevolezze che i drammi accaduti ci riguardano e
c’inchiodano. Perché inchiodano il sistema nel quale viviamo che in un
crescendo rossiniano tende a schivare e insabbiare, a deresponsabilizzarsi e
distrarsi. Nel pur dibattuto conflitto siriano, da anni chi conta ha scelto di
fare la conta di morti, feriti, rifugiati salvati, profughi dannati. Solo ora
si prova a tamponare un esodo gonfiato
dal tempo e dalla disperazione. Morire a due anni è un insulto per noi che
restiamo, impotenti e un po’ indifferenti al cospetto della fuga forzata di
milioni di persone, predisposta dalla scelta di stare a guardare. Ciascuno nel
proprio ruolo, centrale o marginale. Una scossa alla coscienza giunge dal cadaverino
che potrebbe esserci figlio o nipote, poi si clicca su un’altra immagine.
Ahinoi, esistono cadaveri di cui non ci accorgeremo mai perché, accanto a
questioni trattate e narrate, ce ne sono altre dimenticate e occultate. E chi
scrive, filma, fotografa faccia quanto deve per svelare il volto di chi taglia
il filo, che non è Atropo. Né il Destino cinico e baro.
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