Il cuore e la Ragion di Stato, s’incontrano sulla
ferrovia nei pressi di Szeged, Ungheria. Nazione ormai fatta di filo spinato e
poliziotti. Ligi, attenti, severi come da ordini superiori che hanno detto no
all’arrivo della fiumana di migranti della guerra e della fame. Poi sì, ma con
riserva fino al 15 settembre quando il leader e nuovo padrone del Paese
ordinerà di richiudere ogni varco. Intanto uomini, donne e bambini, cercatori
di rifugio, varcano e vagano finché possono, sognando un’altra vita che si
chiami Germania, Merkel, Svezia, Europa… Nomi più che luoghi e personaggi politici.
Possibilità d’avere un domani di fronte al nulla del limbo in cui il destino li
ha spinti. E’ già autunno inoltrato nel ventre del continente che li accoglie e
li respinge, pianificando cosa fare, cosa conviene alla macroeconomia e alle
strategie geopolitiche. Ciascun rifugiato, i bambini su tutti, ha poco con sé
perché il viaggio non permetteva di portarsi qualcosa in più: un maglione, un k-way,
scarpe adeguate a una meteorologia differente dal tepore Mediorientale. Oppure
la solidarietà dei teneri e compassionevoli, secondo altri programmatori del
business dell’accoglienza, ha offerto un giacchino, coloratissimo. Quello
giallo shock su un corpicino fermo a lato delle traversine dei binari, tende un
biscotto a un agente che stupito schiva l’offerta. Forse vorrebbe riceverlo,
però la divisa, i colleghi, il capo manipolo, Orbán stesso l’avrebbero
redarguito. Così cerca di cavarsela con una smorfia imbarazzata. Egualmente
imbarazzati altri agenti mascherati osservano oppure guardano altrove. Un
comportamento che l’establishment occidentale e i suoi elettori attuano da tempo
verso drammi cresciuti esponenzialmente, come i conflitti internazionali, che
vengono ignorati o fomentati, per poi stupirsi della marea umana che “invade” i
nostri confini e ci tende la mano. In tanti casi non solo per prendere, ma per
offrire spontaneamente quel che può dare.
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