Tremila e duecento e cinquantacinque sono le
case che in due anni il golpista e poi presidente-salvatore nonché modernista Al
Sisi ha fatto saltare in aria a Rafah, lungo il chilometro di confine con Gaza.
Secondo la denuncia di Human Rights Watch
l’ha deciso in totale disprezzo e violazione delle leggi interazionali.
L’esercito del Cairo ha iniziato l’opera di “pulizia” per creare una zona
cuscinetto lungo la frontiera con la Striscia a fine luglio 2013. Con
operazioni crescenti, attuate senza preavviso, tramite sfratti esasperati e
soprattutto senza offrire alternative abitative alle persone che vivevano lì.
L’intento era cacciarle via, punirle per il rapporto non solo commerciale coi
gazawi, basato sul contrabbando realizzato attraverso i famosi tunnel che in
molte occasioni sono stati distrutti dai militari egiziani (o dall’aviazione
d’Israele negli sbocchi sulle sabbie della Striscia). Tunnel comunque sempre
ricreati, scavando magari all’interno delle stesse abitazioni. La finalità
della pulizia territoriale è rivolta anche a colpire i gruppi del jihadismo palestinese
e da un anno a questa parte - con la presenza dei filo Isis nella penisola del
Sinai - tutto è stato più facile e accettabile all’opinione pubblica interna e
internazionale. Perché si dice che si fa pulizia contro lo Stato Islamico.
Oltre tremila, per la precisione tremila e
seicento, sono i morti scaturiti dalle operazioni, buona parte civili, ma anche
miliziani jihadisti e militari delle Forze Armate, che hanno subìto un
crescendo di attentati negli stessi luoghi che presidiano assiduamente. Situazioni
che rafforzano intenzioni e programma di sicurezza del governo cairota che
proprio in queste ore rilancia un nuovo Esecutivo forte di 33 ministri (solo due donne) guidati da Sherif Ismail, tecnocrate in carriera senza legami coi
partiti che Sisi esibisce come dimostrazione del proprio progetto “apolitico”,
votato a rilanciare l’Egitto nel Medioriente e nel mondo. Ma la cartina al
tornasole dei suoi piani si specchiano in due uomini forti: il ministro della
Difesa, Sedki Sobhi, ovviamente un collega, ex responsabile delle Forze Armate
proprio nel sud del Sinai. E Abdel-Ghaffar all’Interno, già capo di quei
Servizi di Sicurezza che nel 2011 sostituirono i famigerati mukhabarat di Mubarak. Una sostituzione
nel nome non certo nei metodi, come hanno potuto constatare migliaia di
attivisti, non solo della Fratellanza ormai fuorilegge. A Ghaffar la demagogia
non manca: anch’egli, come il suo nuovo raìs, dichiara di lavorare per il bene
del popolo.
Le demolizioni avvengono in maniera scientifica,
con tanto di mappe verificate da ricognizioni aeree. Quindi si minano mura e
fondamenta e si crea l’effetto tabula
rasa che piace agli uomini d’ordine. Così sono state ripulite 30 miglia
quadrate a ridosso del confine, che comprendono la città di Rafah rimasta in
piedi coi suoi 78.000 abitanti. L’alibi del contrabbando d’armi tramite i
tunnel regge parzialmente, perché si è evidenziato come la fornitura delle stesse
per i jihadisti filo Isis proviene da molto più lontano, il confine libico,
oppure è l’effetto della perdita da parte dei soldati che subiscono agguati e
rapine. Secondo alcuni rappresentanti della struttura di Human Rights Watch mediorientale, che ha il polso della situazione
attraverso i contatti con la popolazione locale, l’abbattimento delle case
rappresenta un boomerang per la campagna di antiterrorismo in quanto semina
odio fra la gente. Il governo egiziano è di parere esattamente opposto e
sostiene di “offrire ogni garanzia e protezione
della proprietà dei cittadini, preoccupandosi di alleviarne le sofferenze. Tutte le misure prese sono state concordate e
coordinate coi residenti, che sono consapevoli dell’importanza della sicurezza
nazionale e partecipano e contribuiscono allo scopo”. Fatto e rivenduto con
la spudoratezza del potere.
Nessun commento:
Posta un commento