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giovedì 17 settembre 2015

Turchia, altri arresti nel conflitto fra gli Islam politici

Sullo scenario delle prossime elezioni turche continua ad aggirarsi lo spettro della sicurezza interna per quella guerra civile strisciante che in tre mesi ha tolto la vita a un centinaio di poliziotti e un numero imprecisato di kurdi, alcune centinaia fra guerriglieri del Pkk, attivisti dell’Hdp e di associazioni della società civile, semplici cittadini. La consultazione del 1° novembre potrebbe anche slittare se la violenza dovesse aumentare e prendere un diffuso sopravvento; una tipologia di scontro primordiale fatto di sassi, spranghe e molotov che di recente ha creato rinnovati pogrom verso la comunità kurda, e anche assalti a sedi di media nazionali. A gestirli i famigerati Lupi grigi, ultranazionalisti non nuovi a simili metodi, e gli stessi militanti dell’Akp. Erdoğan e Davutoğlu nei rispettivi ruoli hanno stimmatizzato quegli avvenimenti, ma i loro focosi interventi pubblici contro il così definito “terrorismo del Pkk” avevano rappresentato un innesco nient’affatto secondario. Rinunciare alla prova dell’urna per ragioni d’ordine pubblico rappresenterebbe un grosso smacco all’immagine del partito di maggioranza che tiene in vita un governo di transizione.
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Verrebbe a sottolineare la sua perdita d’autorità e di controllo del territorio, elementi apparsi palesi negli ultimi due anni nonostante l’ennesimo successo ottenuto da Erdoğan alle presidenziali che l’opponevano a Ihsanoğlu e Demirtaș. In molti sostengono come il ‘sultano’ punti tutto su questa tornata elettorale dopo il blocco al disegno presidenzialista riscontrato il 7 giugno. Ridimensionare numericamente l’Hdp significherebbe riportarlo al di sotto della soglia del 10%, privarlo di quegli 80 deputati che hanno stravolto la rappresentanza nel Parlamento turco, sottraendo al partito di maggioranza i numeri necessari ad attivare la trasformazione costituzionale tanto agognata dal presidente. Per prepararsi all’evento Erdoğan sa che deve controllare l’informazione sulla quale s’appoggia l’80% dell’elettorato. L’attacco all’attività giornalistica, alla libera stampa, ai reporter considerati avversi è in atto da tempo. Ne sa qualcosa l’Hürriyet che s’è visto piombare in redazione poliziotti ala cacci di cronisti e direttore e supporter islamici sotto la sede per devastazioni. Ma un nemico dichiarato è il movimento Hizmet, promosso dall’ormai arcinoto imam Fetullah Gülen, forte nei media (sue le testate Zaman e Hizmet), nei contatti economico-finanziari, finanche fra le fila di polizia e magistratura.

In questi due settori dal 2011 l’Erdoğan premier ha fatto pesare i suoi poteri attuando un repulisti di personale fedele sia al kemalismo, sia alla Confraternita islamista. Un puro scontro per il potere contro i nemici fra cui è entrato l’ex sodale Gülen. Ieri l’ennesimo attacco a suon di manette è giunto per undici imprenditori, tutti d’impronta gülenista, di cui l’immobiliarista Memduh Boydak è il nome più noto. Un tempo agevolato dal governo in carica, come altri impresari fedeli, e allargatosi ai settori energetico e bancario, due rami strategici con cui la politica ama dialogare per i benefici di ritorno. Sembra, però, che per lui la festa sia finita. E’ indagato per l’ottenimento di terreni da parte della fondazione dell’Università di Meliksah che da Boydak viene amministrata. Un’altra faccia del conflitto a colpi di blitz di due fazioni della magistratura che due anni addietro incastrava Bilal, il figlio di Erdoğan, per corruzione e denaro imboscato e che dopo la rimozione (governativa) del procuratore indagatore è rimasto in sospeso. Come lo scontro a distanza fra il grande vecchio dell’Islam politico turco e il suo incarnato che si combattono senza esclusione di colpi. Ciò che è accaduto col voto dello scorso giugno rappresenta una conseguenza della lotta di logoramento gülenista che, secondo alcuni analisti, avrebbe mangiato voti alla creatura politica di Erdoğan per bloccare il suo golpe presidenzialista. E la partita continua.

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