Suona “Rimedio”, in turco Deva (Demokrasi
ve Atılım Partisi),
la sigla del nuovo partito con cui Ali Babacan s’appresta a curare l’odierna
Turchia che, a suo dire, è malata, non morta. Dunque democrazia e progresso sono
la via per la guarigione. Ma le “medicine” di progresso, sviluppo, giustizia ricorrono nelle denominazioni di formazioni politiche dai tempi di Özal,
che con la crescita economica cercava di cancellare le ferite dell’ultima
dittatura militare, e hanno disegnato una società più tecnologica non più libera.
Babacan, già ministro dell’Economia dei tempi d’oro del consolidamento del
potere di Erdoǧan (2009-2015), lo sa bene. Perché del
progetto delle grandi promesse dell’Akp è stato uno dei pilastri, godendo del
titolo di più giovane ministro del primo gabinetto del Sultano nel 2002. Se all’epoca
Erdoǧan ai suoi occhi fosse un altro politico, può darsi. Non lo era per quei
laici e democratici turchi che tremavano al suono del discorso rimasto celebre
su “minareti, cupole e moschee quali canne di fucile, elmetti e caserme” per il
suo progetto d’Islam politico. Dopo quell’arringa a una folla di attivisti-fedeli,
Erdoǧan finì incriminato e scontò mesi di carcere, ma ne uscì rafforzato tanto
da poter avviare la scalata al potere. Lo affiancavano Gül, Davutoğlu, Barbacan
e altri sodali che ora non gli sono più accanto e, come quest’ultimo, meditano vie
di salvezza per la nazione. Sebbene la tenuta interna del presidente sia
reale e la sua considerazione internazionale concreta, nonostante scaltrezze e
reiterati ricatti.
E’ contro la corazzata
dell’Akp e contro l’ex mentore che Babacan lancia il piano
del “Rimedio”. Considera
la Turchia un Paese ampio, non un’isola-Stato da condurre centralisticamente.
Un’idea bella, forse un sogno vista la storia recente della nazione, le sue
crisi risolte o comunque rappezzate a suon di colpi di scena e di mano
dall’uomo che vuol incarnare lo Stato ben più di Atatürk. E anche davanti agli
attuali orientamenti autocratici della geopolitica. Eppure le sfide diventano
tali proprio perché appaiono impossibili e l’ambizioso Babacan è troppo giovane
per ritirarsi a vita privata. Dovrebbe sapere quel che rischia, poiché l’Erdoǧan presidente pratica quel populismo autoritario che non è esplicita dittatura, ma ne raggiunge gli scopi usando gli strumenti costituzionali, plasmati a suo favore
coi voti del Parlamento. Con questi negli ultimi anni piega gli avversari, fino a
incastrarli con accuse di trame corruttive, sovversive, terroristiche. Così ha
trasformato ex alleati e oppositori politici in nemici della patria,
allontanandoli dal potere oppure incarcerandoli. Così tratta giornalisti,
intellettuali, attivisti e avvocati dei diritti, oltre agli odiati kurdi
dell’autodeterminazione politica, pur quando giungono nel Meclis con tanto di
legittimazione elettorale. Se Babacan non cadrà nella rete d’una magistratura
anch’essa “presidenzialista”, la sfida potrebbe arrivare con le elezioni del 2023.
Elezioni doppie, parlamentari e presidenziali, cui peraltro Erdoǧan tiene come
a una fase iconica, che lo collocherebbe alla guida della Turchia per un
lasso di tempo pari a quello rivestito proprio da Atatürk.
Ostacolare la sua
megalomanìa è possibile? e altrettanto lo è battere la
macchina elettorale del partito di maggioranza? Il cinquantaduenne transfuga ritiene di sì, erodendo l’appoggio di quel ceto medio che le spinte centrifughe
della politica estera del presidente mettono in subbuglio, come la stessa
economia che ne risente le scosse. Insomma l’uomo che aveva buoni rapporti con
l’Occidente sia d’Oltreoceano, sia dell’Unione Europea prospetterebbe la via
del liberismo moderato senza strattoni e senza “problemi coi vicini”, quello
che fu il mantra di Davutoğlu. Certo quella fase s’è chiusa. Ed è attraverso la
polarizzazione del suo stesso popolo che Erdoǧan ha stretto attorno a sé un
sostegno militante che gli ha acconsentito di rintuzzare il terrorismo,
annullare un golpe, ottenere ‘comprensione' quando ha portato la guerra nelle
case dei kurdi del nord-est, ai tempi dell’assedio di Cizre, e con gli attacchi esterni al Rojava dell’ottobre scorso. E’
vero che nelle ultime amministrative il regime ha dovuto ingoiare la perdita
del consenso in tutte le grandi città, ma quella sconfitta ha sancito una
risalita nell’urna del kemalismo repubblicano, non la nascita d’un nuovo
soggetto politico. Chi lo aveva pensato fra i Lupi grigi, la deputata Akşener,
uscita dal Mhp proprio contestando l’alleanza con l’Akp, non ha ricavato
granché (7.3%). E un partito a una cifra oggi non va da nessuna parte, in
Turchia e altrove. L’unica ipotesi diventa il fronte “anti-sultano”, ma
questa scommessa è tuttora una nebulosa, gli attuali i partiti-pianeti
appartengono a sistemi fra loro estranei.
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