Fa male ai nostri cuori (figurarsi ai loro) la condizione in cui
filmati e foto li ritraggono infreddoliti, laceri, dolenti - da oggi anche
cadaveri - comunque speranzosi d’una caritatevole apertura di frontiera.
Migliaia di profughi siriani, afghani, iracheni, quelli della rotta balcanica
che è ripresa da due anni ed è stata parcheggiata a Bihać (Bosnia), oltreché dentro
il confine turco e di cui la geopolitica a orologeria ora si ricorda.
Ovviamente perché teme “un’invasione del sacro suolo” come, non solo i
sovranisti globali ma pure gli opportunisti democratici, adesso temono. Da anni
questi civili sono bersaglio dei conflitti che signori della guerra, ufficiali
e ufficiosi, combattono a nome di Stati fantasma che non hanno più popolazione.
Perché è morta, fuggita, riparata altrove. Lo speculatore per eccellenza della
politica mediorientale, il presidente turco Erdoğan, lancia l’ennesima richiesta
pecuniaria al sepolcro imbiancato di Bruxelles, quel Parlamento europeo che
dovrebbe rappresentare 28 nazioni. Altri tre miliardi di euro per contenere i
profughi già parcheggiati in 3.5 milioni sul suolo turco, con l’aggiunta di
900.000 che il contrasto fra lui e Asad sta producendo da settimane nell’area
di Idlib. Un ricatto. Certo, ma correlato all’accordo che lesti i leader
europei di riferimento per i restanti membri – Angela Merkel ed Emmanuel Macron
– s’erano apprestati a sottoscrivere nel 2016. Per non ricevere e neppure
vedere quelle genti orientali costrette a fuggire da territori di guerra (Afghanistan,
Iraq) dove l’Unione Europea invia le sue missioni di polizia internazionale al
servizio degli Stati Uniti.
Erdoğan, dunque, mercanteggia: soldi (che alle non
benevoli finanze di casa fanno comodo) in cambio di campi profughi. Che le poche
inchieste giornalistiche attuabili in questi anni hanno valutato insufficienti,
avanzando a seri dubbi sulle reali spese rivolte a quel genere di assistenza da
parte del governo turco. Fra l’altro quest’ultimo ha in tante occasioni
limitato, se non proprio ostacolato, l’azione di Ong interne e internazionali
accusate di “collusione con terrorismo”. Di Erdoğan si può dire tutto il peggio
che la sua politica speculativa e autoritaria ha manifestato in questi anni.
Non è, però, il solo. Riguardo all’ultima ondata di profughi divide le colpe
con l’omologo presidente guerriero Asad, un uomo che per sete di potere da
sette anni fa massacrare il suo popolo. Rivolgendo le armi dei lealisti non soltanto
contro l’infamia jihadista, ma verso il popolo sunnita di quella che era la
Siria. Poi c’è la vergogna tutta europea o di una parte di quell’Europa che più
ha ricevuto e meno ha concesso. Aggregata inizialmente sotto l’ombrello della
Nato in funzione anti russa, quindi entrata a pieno titolo nell’Unione
continentale, conservando l’alleanza faziosa, marchiata a Visegrád col famoso
accordo di trent’anni fa. Il quartetto polacco, ungherese, ceco, slovacco
pratica da tempo il suo ricatto al Parlamento di cui fa parte. Dal 2017 ha intrapreso
azioni di boicottaggio delle misure disposte a maggioranza da quell’organo in
fatto d’accoglienza e redistribuzione di migranti e rifugiati, con quote pro
capite fra i membri Ue in base a Pil e tasso di disoccupazione (per la quaterna
di Visegrád i più vantaggiosi del continente).
E’ la questione che Erdoğan tratta in maniera sporca per conto e contro
un’Europa refrattaria alla disamina del dramma umanitario che la sua stessa geopolitica
scatena da almeno due decenni. Facciamo parlare qualche dato, relativo appunto
al 2017, anno seguente al patto Ue-Turchia. Il flusso di migranti extracomunitari,
fra cui tanti profughi, in alcune nazioni esaminate è stato il seguente: Germania
391 mila, Gran Bretagna 320 mila, Spagna 314 mila, Italia 240 mila, Francia 167
mila, Grecia 63 mila, Polonia 53 mila, Repubblica
Ceca 30 mila, Ungheria 25 mila, Slovacchia 0.6 mila. Nel biennio seguente
il gruppo di Visegrád ha chiuso ulteriormente le porte, tanto da ricevere
procedure d’infrazione per aver rifiutato le direttive Ue. Per contro solo nel
2017 questi Paesi hanno beneficiato dei seguenti aiuti europei: Polonia 8.6
miliardi, Ungheria 3.1, Repubblica Ceca 2.5, Slovacchia un miliardo. Fece
scalpore, ma non seguirono censure, la creazione del muro di 175 km sul confine
serbo che il premier ungherese Orbán portò a termine, predisponendone un altro
sul confine croato. Eguali dimenticanze riguardano gli attacchi e le limitazioni
alla libertà di stampa e finanche di espressione subìti dalla società civile ungherese.
Silenzi simili agli agguati del governo polacco verso l’indipendenza della sua
magistratura L’Unione Europea ignava, e a diverse velocità di democrazia, non è
meno preoccupante del laboratorio autocratico che si sviluppa lungo il confine turco-siriano.
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