Il Covid-19 s’affaccia anche in terra afghana. Si sono
registrati vari casi a Herat e verso il confine occidentale con l’Iran, dove
c’è un via vai di rifugiati. In quel Paese la diffusione del virus è grave come
in Italia e in Corea del Sud, sebbene Teheran non lasci trapelare molte notizie
sull’epidemia interna. Le autorità di Kabul hanno stanziato 25 milioni di
dollari per i primi interventi, 7 milioni come primo pacchetto d’aiuti messi a
disposizione dal ministero della Salute. L’ambasciata cinese si è offerta a
prestare contributi di soccorso per frenare il virus. Eppure a Kabul
l’establishment politico appare maggiormente preoccupato della propria
destabilizzazione verso i firmatari dell’accordo di pace. E’ noto come Stati
Uniti e rappresentanza talebana abbiano deciso come primo passo il cessate il
fuoco e la liberazione di cinquemila miliziani prigionieri. Nessuno dei due è
stato compiuto. Nei giorni scorsi in due occasioni ufficiali la capitale afghana
ha registrato lo scoppio di bombe. Ordinaria amministrazione, per quella
realtà. Però l’accordo prevedeva, appunto, il blocco delle ostilità. Gli
attentati parevano d’avvertimento, non hanno provocato vittime, ma sono indicativi
del clima. Perché se quegli ordigni non erano talebani, come gli indiziati si
sono affrettati a dichiarare, stavano comunque a dimostrare che la loro frangia
ribelle, da almeno un biennio aderente all’Isil, può continuare a colpire pur
contro la volontà delle milizie taliban, oltre che dell’inefficace Intelligence
governativa.
Sull’altro fronte, politico, gli statunitensi si
sono impegnati a rilasciare detenuti che non controllano direttamente, visto
che le chiavi dei luoghi di detenzione sono in mano agli uomini di Ghani. Ora il
governo afghano avanza questa proposta: libererà subito 1500 combattenti, per
far continuare a marciare il processo di pace che dal 10 marzo prevedeva
l’avvio dei colloqui inter afghani. Lasciando intendere che il resto seguirà se
i turbanti si dimostreranno collaborativi. Il portavoce di Kabul ha
sottolineato come la rappresentanza talebana (il mullah Baradar che ha firmato
l’accordo davanti a Khalilzad) può scegliere “se restare una parte del problema oppure contribuire a risolverlo”.
Probabilmente quei rappresentanti non prenderanno bene il piccolo diktat. Sia
perché non hanno in alcuna considerazione i “fantocci” di Kabul, sia perché i
patti erano chiari: le liberazioni devono essere cinquemila, non una di meno.
In realtà sia loro, sia gli americani hanno parzialmente bluffato. Lo dimostrano
gli eventi. Lo scenario presenta altri soggetti, sia combattenti, i miliziani
dell’Isil, sia politici, il governo di Kabul seppure ignorato dai colloquianti
e diviso dalla rissosità fra Ghani, Abdullah e magari qualche signore della
guerra loro momentaneo alleato. Tutto ciò non è una novità per nessuno. Ma il
dialogo inter afghano riuscirà a partire solo ammorbidendo le rigidità delle
parti. Certo, chi non può alzare la voce è il presidente dimezzato, ma mai dire
mai. La pantomima prosegue. Se dalla presunta pace, ripartiranno venti di
guerriglia non ci sarà da stupirsi. Intanto s’aggiunge il nemico Coronavirus,
un nemico per tutti.
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