Il Pentagono ordina, la Casa
Bianca obbedisce. E l’Amerika della democrazia a suon di bombe rilancia un
refrain noto, da cui l’amministrazione più ondivaga e pasticciona di un bel
pezzo della sua storia aveva cercato di sviare, non foss’altro che per lo
spirito da bastian contrario del personaggio Trump. Ma ieri è stato il
presidente in persona a proclamare: in Afghanistan restiamo fino alla vittoria.
Che vuol dire? Tutto e niente, seppure nel recente passato da candidato lui blaterava
di ritiro definitivo. Però Trump ha una faccia tostissima, più di quella del
compianto Jerry Lewis quand’era in gran forma sulle scene hollywoodiane, dunque
azzera la precedente convinzione e lancia l’esatto contrario. Gongola il pool
di generali: Kelly (nuovo capo), Mattis (Difesa), McMaster (National Security
Council) che festosi gli si stringono attorno, omaggiandolo. Di fatto salutano
se stessi, la loro compattezza, i vantaggi personali che ne trarranno
professionalmente, e magari personalmente, tramite la lobby delle armi. Niente
di nuovo, questi sono gli indelebili States, amministrazione più,
amministrazione meno. Del resto non era stato il premio Nobel per la pace, il
democratico ortodosso Obama, a far raggiungere il picco nelle presenze di
truppa nelle province afghane? Centomila elmetti fra il 2010 e 2011 per non risolvere
strategicamente nulla. Anzi, da quel ricarico, i talebani lanciarono la campagna
di resistenza contro una più copiosa invasione straniera, e tanti giovani
impossibilitati alla fuga verso Occidente, finirono per scegliere il fronte della
“guerra santa”. Perché questo genere di propaganda, che sarà pure
contraddittoria e pro domo propria, i turbanti continuano a lanciarla. Ma i
generali statunitensi quanti soldati vogliono reindirizzare sul fronte afghano?
Non si sa. Trapela il numero
non ufficiale di 4000, che sarebbero solo un anticipo. Parliamo di marines
effettivi, non dei contractors che gli Usa continuano a schierare, e che già normalmente
s’aggiungono alle truppe dislocate sul territorio, seppure destinati a funzioni
di vigilanza armata, quella che non riesce a fermare gli attentati nemici fin
dentro il sorvegliatissimo cuore della capitale. Sulle unità da schierare
presidente e generali restano abbottonati, anzi lanciano l’ipotesi d’un
adattamento alle situazioni del momento, che costituisce un unicum negli annunci d’intervento,
solitamente pianificati e precisi in ogni dettaglio. Cosicché se si mettono in
fila il ribaltone del reintervento, certe vaghezze di programmazione, la
disponibilità di sostegno ai tentativi di trattative compiute dal locale
presidente Ghani per cooptare nel governo la componente talib possibilista,
l’insieme risulta un polverone rivolto più agli occhi americani afflitti dagli
ultimi contrasti razzisti che a una strategia di lungo corso. Ma non cambia
granché: gli Usa dalla “palude afghana” non sono mai usciti, hanno diminuito
sensibilmente i soldati nelle missioni di terra, perché diventavano bersaglio
fisso di agguati. Era più sicuro bersagliare miliziani e civili dai cieli coi
bombardamenti mai terminati e con azioni mirate di droni accresciuti in
tecnologia e precisione. Infatti le basi aeree, dove sono impiegate le circa
10.000 unità presenti, si sono consolidate e rafforzate. Servono per
l’Afghanistan e per tutta l’instabile area attorno, a cominciare dal Pakistan,
un alleato che Washington considera di fatto un nemico.
Poiché è poco obbediente ai
suoi voleri, è doppio e triplogiochista in politica estera con certi premier e
ministri e sul versante della sicurezza con un’Intelligence che addestra e
copre jihadismi di varia natura. Seppure quest’orientamento, spesso incentivato
proprio dai Servizi d’Oltreoceano, sia diventato un boomerang. Comunque le
bacchettate, che nel discorso di stanotte Trump ha rivolto alla leadership di
Islamabad, non avranno effetto. Perché a Levante gli americani temono e
soffrono i colossi cinese e indiano e hanno, comunque, bisogno del Pakistan,
visto che con altre potenze regionali (Iran e Turchia) i rapporti sono
altalenanti, anche per volere di Trump e sodali. Allora non accade nulla? Non
proprio. Fra i salti mortali del presidente, che per altrui o sua volontà in
questi mesi ha azzerato lo staff di partenza, si rafforza un potere mai venuto
meno al peso che ricopre, quello del Pentagono. Potere strabico, che nella
strategia mediorientale statunitense del Terzo Millennio ha più volte imboccato
strade cieche con conseguenze sciagurate, se pensiamo alle iniziative stragiste
verso la popolazione afghana dei McChrystal e dei Petraeus. Eppure certi
generali danno il peggio non solo sul terreno del terrore spacciato come
‘guerra al terrorismo’, ma quando si propongono in politica. Le bugie avallate
e diffuse da Colin Powell a sostegno dell’invasione dell’Iraq sono entrate
nelle cronache della storia recente e delle disgrazie che hanno provocato. Però
ieri la pietanza sapida che Trump serviva a rappresentanti delle truppe
schierati ad ascoltarlo, e alla nazione intera, partiva proprio da quelle
sciagure. Inconsapevolmente o meno, diceva: staremo in Afghanistan per non
lasciare vuoti dove l’Isis possa insediarsi, com’è accaduto in Iraq. Come se
guerra imperialista e jihad non si fomentassero a vicenda.
Che pena.
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