A un mese dal previsto
referendum promosso da Massoud Barzani sull’ipotetica “indipendenza della
regione del Kurdistan e di zone fuori dal territorio” (dunque i governatorati
di Erbil, Sulaymaniyah, Dohuk più l’ambitissima Kirkuk) la Turchia, che è
ferrea oppositrice dell’iniziativa nonostante i discreti rapporti col leader
del Partito democratico del Kurdistan (Kdp), ha rilanciato un’azione
diplomatica di dissuasione. Il ministro degli Esteri Çavuşoğlu è in queste ore
a Baghdad, ospite dell’omologo al-Jaafari, per ribadire l’unicità di due
obiettivi. Primo: lavorare per la totale
liberazione delle aree tuttora sotto il controllo dell’Isis (piuttosto ridotte
rispetto a tre anni fa). Secondo: garantire l’integrità della nazione irachena.
Parlare d’integrità per un territorio che, solo nel triennio della nascita del
Daesh, ha subìto sanguinose lacerazioni accanto a idee di soluzioni buone per
ogni velleità geopolitica, sembra una totale astrazione. Ma pur fra le mille
incertezze prodotte dalla condizione di Stato in dissoluzione e dalle strategie
per tener congelata (ma esecutiva) una guerra che dal 2003 opprime milioni di
persone, chi è interessato all’Iraq e alla sua cospicua ricchezza di petrolio
(epigoni delle Sette sorelle del petrolio, Usa, Daesh, petromonarchie e i
capiclan dei 5 milioni di kurdi
iracheni) il problema se lo pone.
Se lo pongono anche gli
ingombranti vicini turchi e iraniani, interessati a un presente che è già
futuro, sia nel caso d’implosione di un territorio da tutti invidiato per l’oro
nero del sottosuolo, sia per il temibile effetto domino che la scelta
dell’autodeterminazione dei kurdi locali potrebbe produrre fra i 15 milioni di
kurdi di Turchia e gli 8 milioni presenti nel nord-ovest iraniano. Esorcizzare
ed evitare questo passo, ritenuto un pericolo ad Ankara come a Teheran, fa
parte della missione di Çavuşoğlu. Dal canto suo con l’attuale referendum, già
proposto tempo addietro, Barzani vuol cogliere i frutti d’un momento favorevole
per il territorio che amministra in virtù di quelle concessioni statunitensi
successive alla prima guerra del Golfo (1991). Una soluzione di passaggio che
vedeva gli Usa tutori interessati per tenere una presenza indiretta nella
regione, che dal 2003 divenne occupazione. Anche in quel caso Washington fece
ricorso al popolo kurdo e alle storie dei massacri da esso subiti nel 1988 su
ordine di Saddam Hussein. Il vecchio leader del Kdp lancia lo strumento
consultivo anche per rafforzare la propria posizione sullo scenario della
dirigenza kurdo-irachena, per limitare le velleità del Movimento per il
cambiamento (Gorran) propostosi nelle elezioni locali del 2013 come partito
d’opposizione, una novità rispetto allo storico dualismo fra Kdp e Puk (Unione
patriottica del Kurdistan).
Eppure Barzani in una
recente dichiarazione ha lasciato intendere che la rinuncia al referendum,
temuto da turchi e iraniani, potrebbe avvenire solo di fronte a una soluzione
alternativa di buona vicinanza. Intuitivamente parlava anche dei vicinissimi
dell’amministrazione di Baghdad che in caso di successo del sì, dovrebbe
vedersi privata di tutta la fascia settentrionale irachena, controllate, e non
da oggi, dai combattenti peshmerga. Del resto la regione autonoma del Kurdistan
(Krg), rafforzata sul terreno geopolitico dal 2005, ha ricevuto un ulteriore
benestare dal 2014. Gli scontri sui campi di battaglia contro i miliziani dello
Stato Islamico sono stati sostenuti dai peshmerga e quest’imprinting politico,
suggellato nella lotta, è la carta di credito cui il Krg non vuol rinunciare.
Certo, i successi kurdi sono scaturiti scontrandosi casa per casa con un nemico
motivato e feroce, ma sono seguiti alle azioni di copertura garantite
dall’aviazione Nato. Attualmente l’establishment occidentale sembra preferire l’ingombrante
idea dell’autonomia della regione kurdo-irachena a quell’espansione dell’Isis,
che in quell’area ha seminato un biennio di lutti e paure. Ma proprio la Casa
Bianca, dopo il decennio di distruzioni creato, spinge per una possibile
rinascita dell’Iraq. C’è poi appunto la contrarietà turca sul tema
dell’autonomia del Kurdistan orientale, cui potrebbe seguire una richiesta di
quello orientale: il Rojava.
Sebbene in quest’area la
continuità dei cantoni (Efrin-Kobanȇ-Jazira-Șehba) non è totalmente garantita,
per la presenza ancora di sacche controllate dall’Isis, in più occasioni
Erdoğan in persona ha minacciato l’uso dell’esercito contro un aggregato
politico non gradito, che, a suo dire, minaccia la sicurezza nazionale turca.
Non è un segreto come l’elaborazione del progetto politico del Rojava, che
esalta l’autonomia territoriale e prospetta una società democratica e
paritaria, veda il Partito dell’unione democratica di Siria (Pyd) in stretto
rapporto col Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Tracciando
un’equazione securitaria il presidente turco spinge affinché anche il Pyd
subisca ostracismo e trattamento applicati da anni al Pkk e venga considerato
un’organizzazione terroristica. Di mezzo s’è posta la guerra civile siriana, il
ruolo giocato dalle determinatissime ‘Unità di protezione popolare’ e di ‘protezione
della donna’, che hanno difeso con la vita quei territori, impedendo
un’avanzata delle bandiere nere da sud verso nord, confine turco compreso. Così
la comunità kurda meno numerosa, quella siriana che conta circa tre milioni di
persone, oltre a essere giocoforza mobilitata dagli eventi, risulta altamente
politicizzata e determinata, tanto da fare invidia allo stesso Barzani. Su tali
divisioni vecchie e nuove, sui disegni politici che separano taluni leader
kurdi e il loro seguito, insistono gli altri attori regionali. In una partita
riaperta, che può però ripetere i voltafaccia compiuti nella storia del
Novecento da potenze grandi e medie per lasciare un antichissimo popolo di
oltre trenta milioni d’individui senza patria. Mentre nascevano Kosovo e
simili.
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