Eviteranno qualche vittima in più i cosiddetti jersey, le protezioni di cemento, che la
sicurezza inizia a collocare nei centri storici di molte città, anche italiane.
In alcuni luoghi simbolo si potranno fermare e deviare i furgoni della morte,
ma la furia, e soprattutto la convinzione omicida, delle nuove leve del
terrorismo islamista paiono travalicare quegli ostacoli. Perché cercheranno
ulteriori strumenti, come fecero i qaedisti dell’11 settembre trasformando in
proiettili gli aerei di linea. Questo conflitto è anche battaglia
d’informazioni dei soggetti preposti a indagare e prevenire, con tutti i
successi del caso, quando s’intercettano potenziali piani d’attacco e le
contraddizioni e i buchi neri evidenziati proprio dall’attentato “spettacolare”
delle Torri Gemelle, che ha aperto una più grande frontiera di scontro. La
conoscenza tecnico-organizzativa di questo che è diventato, a Parigi come a
Lahore, lo spettro del vivere quotidiano, risulta utilissima. Come lo sono le considerazioni
d’ordine politico compiute da studiosi del terrorismo jihadista. Scorrendo un
recente lavoro del trio di ricercatori Vidino, Marone, Entenmann, a cura
dell’Istituto studi di politica internazionale, si hanno conferme di notizie
già note e spunti interessanti di notizie utili per ulteriori riflessioni. Uno
dei pilastri di quella che finora è stata la forza militare dell’Isis, che
secondo qualche analista sarebbe in declino, è l’Emni. Si tratta dell’Intelligence
del Daesh composta da parecchi esperti della sicurezza di Saddam Hussein,
entrati, come tanti militari e poliziotti iracheni, nell’Isis. Da al-Khilafawi
ad al-Adnani (il primo ucciso nel 2014, il secondo nel 2016, entrambi
probabilmente dai droni della Cia in Siria), i vari agenti non solo dirigevano l’organo
di sicurezza, sviluppavano anche una propaganda rivolta al proselitismo.
Con la gestione di al-Adnani il sistema di
reclutamento è diventato sempre più sofisticato e mirato. La rete degli imam
salafiti continua ad avvicinare soggetti nelle moschee o in luoghi di preghiera
e incontro, definiti dai ricercatori ‘hub di radicalizzazione’. Lì si stabiliscono
contatti diretti e personali. Come pure nelle realtà territoriali, siano esse
quartieri ad alta concentrazione abitativa islamica: il pensiero va a Molenbeek
presso Bruxelles, base degli attentatori parigini, oppure alla località di
Ripoll, dove la ‘cellula di Barcellona’ pianificava i recenti attentati
spagnoli. O ancora il caso studiato della cittadina di Hildeshein nella Bassa
Sassonia, scelta da terroristi islamisti per la sua posizione centrale rispetto
a grandi città tedesche, che da lì risultavano facilmente raggiungibili. Il
sistema s’è ulteriormente ramificato. I predicatori abili con la parola e le
tecnologie del web (un nome su tutti è Abdulaziz Abdullah, alias Abu Walaa) e
quelli che vengono definiti i ‘pianificatori virtuali’ ottengono nel
cyberspazio risultati altrettanto vantaggiosi. Ciascuno lavora in contatto con
l’Intelligence del Califfato. Inoltre contributi, pur segnati da scelte
individuali, vengono da storie di rapper radicalizzati: caso noto quello del francese
Kassim, che dopo anni di pezzi inneggianti allo scontro coi kafir, è partito per il fronte siriano. Dunque
moschee e strade, bistrot, social network, web, app e tutti i ganci che rendono
possibile e fruttuosa la propaganda virtuale vengono sfruttati per il medesimo
scopo: uccidere e seminare paura. Finanche il tradizionale ‘gruppo dei pari’
porta adepti alla causa del terrore islamista, che negli ultimi tempi per
ragioni di sicurezza (la propria) si basa sempre più su legami parentali.
Secondo le statistiche in Francia, Germania, Belgio hanno agito immigrati di
seconda e terza generazione, dunque cittadini con passaporto francese, tedesco,
belga. Che possono provenire da ambienti marginali e poveri, ma pure da ceti
medi e di buona scolarizzazione, com’è accaduto nei Paesi scandinavi e in
Danimarca dove cellule e ‘attori solitari’ indagati e fermati godevano di
vantaggi sociali che altri migranti nel sud d’Europa (Spagna, Italia, Grecia)
non conoscono. Vidino-Marone-Entenmann ci dicono che le sorprese non mancano.
Un caso in Belgio denominato Sharia4, che gli analisti hanno definito
‘jihadismo plebeo’, un’avanguardia combattente nel nome di Allah e della
giustizia secondo chiuse logiche ispirate da Dio che rifiuta confronti con
l’esterno, era noto al locale antiterrorismo. Ma non veniva ritenuta
pericolosa, si pensava fosse un nucleo estremistico di parolai. Lo sviluppo della
crisi siriana e i contatti di alcuni membri della struttura hanno dimostrato
come essa avesse all’interno più livelli, compresi quelli che prevedevano una
milizia di foreign fighters. Simili errori di valutazione possono costare molto
caro alla sicurezza dei civili. Un gran numero di islamici d’Occidente, presenti
nei Paesi attaccati dalle cellule fondamentaliste, si dissociano, condannano,
additano non solo i vari imam del terrore, ma le nazioni che li foraggiano e
proteggono, come fa l’imam donna Ani Zonneveld, che intervistata ieri dal Corriere della sera afferma: “L’Occidente
vincerà la battaglia contro il radicalismo islamico soltanto quando si
dissocerà dall’Arabia Saudita che esporta questa ideologia violenta. Europa e
Stati Uniti discutono di pace e sicurezza, dimenticando di essere complici dei
sauditi da cui acquistano petrolio e a cui vendono armi”. La Zonneveld, che
vive e predica a Los Angeles, ed è un personaggio sui generis nell’ambiente islamico per le sue posizioni
progressiste e trasgressive (celebra matrimoni interreligiosi, etero e
omosessuali), non aggiunge nulla di nuovo sul ruolo della monarchia saudita,
dice semplicemente una verità risaputa da tutti noi. Però la ‘geopolitica del
potere’ se ne infischia di quanto studiosi e teorici della convivenza
denunciano e reclamano. I suoi interpreti, che sono i governanti delle nazioni
in cui viviamo, piangono le vittime civili delle popolazioni che governano,
condannano il jihadismo assassino poi continuano a tessere relazioni e affari
coi sovrani che foraggiano i crimini fondamentalisti. Un circolo vizioso, che
vede i potenti protetti e le genti usate come bersaglio. Perché le guerre
asimmetriche volute e cercate dall’Isis fanno da contraltare alle invasioni e
ai conflitti militari scatenati dalla Nato.
Su questo le riflessioni pubblicate su La Repubblica del 19 agosto da parte di
Tahar Ben Jelloun, propongono un richiamo a uno, non l’unico, argomento con cui
il terrorismo fondamentalista rilancia la guerra all’Occidente. Scrive il
saggista e poeta marocchino “… L’origine
più vicina e più evidente risiede nell’invasione dell’Iraq da parte
dell’esercito americano. Da quel funesto mese di marzo del 2003, quando George
W. Bush ha infranto le leggi internazionali e ha agito mentendo e sostenendo di
portare la democrazia al popolo iracheno, si è spalancata una porta ai soldati
di Al Qaeda che hanno commesso attentati in tutto il mondo… La maggioranza
dell’attuale esercito di Daesh è composta da militari iracheni che hanno scelto
di seguire un ex prigioniero di Bush, Al Baghdadi, fondatore dello Stato
Islamico… Se le istanze del Tribunale penale internazionale avessero giudicato
George Bush per i crimini contro l’umanità che ha commesso lì, dove le sue
truppe hanno rovinato la vita alla popolazione, forse queste tensioni e questi
attentati sarebbero meno numerosi. Giudicare Bush sarebbe sicuramente stato
percepito come un gesto di giustizia e pacificazione. Ma l’arroganza
dell’America disprezza il Tribunale penale internazionale, che peraltro non ha
mai riconosciuto”. Considerazioni che si possono sottoscrivere finanche
nelle virgole, ma che si scontrano con una realtà politica che vede i premier
occidentali succubi dei piani strategici ed economici di chi siede alla Casa
Bianca. Più inquietanti risultano le ulteriori considerazioni dello scrittore:
“… La religione, anche e soprattutto mal compresa,
raggiunge il sacrificio supremo, ulteriormente aumentato dalla morte degli
innocenti. E’ impossibile entrare nella testa di chi pianifica i massacri: è
blindata… Perciò ogni tentativo di combattere questo radicalismo è votato al
fallimento: perché il terrorista e l’educatore non parlano la stessa lingua,
non sono sullo stesso pianeta e non hanno nessun punto d’incontro… Il jihadista
è in un tunnel e procede senza guardare né indietro né di lato… La lotta si
rivela inutile perché la democrazia non è attrezzata per combattere questo
nuovo tipo di terrorismo che la storia non ha mai conosciuto”.
Non è la “Sottomissione” di Houellebecq, capace
peraltro di scatenare orgogli e pruriti di guerra di cui si nutre la strategia
per nulla vincente, che già aveva partorito l’Enduring Freedom e che medita di rendere eterne occupazioni come in
Afghanistan. Il pensiero dell’intellettuale marocchino è tragicamente amaro, non
s’illude e non vuole illudere. Forse prende spunto proprio dalla “convincente”
follìa del proclama lanciato il 22 settembre 2014 da Abu Mohammed al-Adnani. “... Oh Americani ed Europei, lo Stato Islamico non ha iniziato una guerra
contro di voi, diversamente da quanto i vostri governi e i vostri media
vogliono farvi credere. Siete stati voi ad aver iniziato l’offensiva e pertanto
la colpa è vostra e pagherete un caro prezzo. Pagherete un caro prezzo quando
le vostre economie collasseranno… Dunque, oh muwahhid, ovunque tu ti trovi, non mancare alla battaglia. Devi colpire i soldati,
i sostenitori e le truppe dei tawāg-
hīt. Colpisci i
membri delle loro forze di polizia, di sicurezza e di intelligence, così come
i loro agenti traditori. Distruggi i loro letti. Avvelena le loro vite e
tienili impegnati… Uccidi il miscredente, sia costui civile o militare, per
entrambi vale lo stesso giudizio: sono miscredenti ... Riempi le loro strade di esplosivi. Attacca le loro basi. Fai irruzione
nelle loro case. Taglia le loro teste. Non lasciare che si sentano al sicuro.
Inseguili ovunque siano. Trasforma la loro vita mondana in paura e fiamme.
Allontana le famiglie dalle proprie case, e in seguito falle esplodere...”. Col suo cupo richiamo Ben Jelloun
legge fra le righe, oltre la truce retorica di questa propaganda. L’ipotetica
battaglia contro il fondamentalismo ha bisogno di armi concettuali che esplodano
nelle menti e nei cuori. Armi impugnate da una coalizione trasversale, interna
al mondo islamico ed esterna a esso, che possano sradicare certe fanatiche
convinzioni di morte, evitando di portare morte e facendosi forte d’un diverso
ordine mondiale. Un sistema che, ahinoi, non esiste. Questa è la cappa sotto cui
siamo costretti a vivere.
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