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martedì 22 agosto 2017

Trump: guerra fino alla vittoria

Il Pentagono ordina, la Casa Bianca obbedisce. E l’Amerika della democrazia a suon di bombe rilancia un refrain noto, da cui l’amministrazione più ondivaga e pasticciona di un bel pezzo della sua storia aveva cercato di sviare, non foss’altro che per lo spirito da bastian contrario del personaggio Trump. Ma ieri è stato il presidente in persona a proclamare: in Afghanistan restiamo fino alla vittoria. Che vuol dire? Tutto e niente, seppure nel recente passato da candidato lui blaterava di ritiro definitivo. Però Trump ha una faccia tostissima, più di quella del compianto Jerry Lewis quand’era in gran forma sulle scene hollywoodiane, dunque azzera la precedente convinzione e lancia l’esatto contrario. Gongola il pool di generali: Kelly (nuovo capo), Mattis (Difesa), McMaster (National Security Council) che festosi gli si stringono attorno, omaggiandolo. Di fatto salutano se stessi, la loro compattezza, i vantaggi personali che ne trarranno professionalmente, e magari personalmente, tramite la lobby delle armi. Niente di nuovo, questi sono gli indelebili States, amministrazione più, amministrazione meno. Del resto non era stato il premio Nobel per la pace, il democratico ortodosso Obama, a far raggiungere il picco nelle presenze di truppa nelle province afghane? Centomila elmetti fra il 2010 e 2011 per non risolvere strategicamente nulla. Anzi, da quel ricarico, i talebani lanciarono la campagna di resistenza contro una più copiosa invasione straniera, e tanti giovani impossibilitati alla fuga verso Occidente, finirono per scegliere il fronte della “guerra santa”. Perché questo genere di propaganda, che sarà pure contraddittoria e pro domo propria, i turbanti continuano a lanciarla. Ma i generali statunitensi quanti soldati vogliono reindirizzare sul fronte afghano?
Non si sa. Trapela il numero non ufficiale di 4000, che sarebbero solo un anticipo. Parliamo di marines effettivi, non dei contractors che gli Usa continuano a schierare, e che già normalmente s’aggiungono alle truppe dislocate sul territorio, seppure destinati a funzioni di vigilanza armata, quella che non riesce a fermare gli attentati nemici fin dentro il sorvegliatissimo cuore della capitale. Sulle unità da schierare presidente e generali restano abbottonati, anzi lanciano l’ipotesi d’un adattamento alle situazioni del momento, che costituisce un unicum negli annunci d’intervento, solitamente pianificati e precisi in ogni dettaglio. Cosicché se si mettono in fila il ribaltone del reintervento, certe vaghezze di programmazione, la disponibilità di sostegno ai tentativi di trattative compiute dal locale presidente Ghani per cooptare nel governo la componente talib possibilista, l’insieme risulta un polverone rivolto più agli occhi americani afflitti dagli ultimi contrasti razzisti che a una strategia di lungo corso. Ma non cambia granché: gli Usa dalla “palude afghana” non sono mai usciti, hanno diminuito sensibilmente i soldati nelle missioni di terra, perché diventavano bersaglio fisso di agguati. Era più sicuro bersagliare miliziani e civili dai cieli coi bombardamenti mai terminati e con azioni mirate di droni accresciuti in tecnologia e precisione. Infatti le basi aeree, dove sono impiegate le circa 10.000 unità presenti, si sono consolidate e rafforzate. Servono per l’Afghanistan e per tutta l’instabile area attorno, a cominciare dal Pakistan, un alleato che Washington considera di fatto un nemico.

Poiché è poco obbediente ai suoi voleri, è doppio e triplogiochista in politica estera con certi premier e ministri e sul versante della sicurezza con un’Intelligence che addestra e copre jihadismi di varia natura. Seppure quest’orientamento, spesso incentivato proprio dai Servizi d’Oltreoceano, sia diventato un boomerang. Comunque le bacchettate, che nel discorso di stanotte Trump ha rivolto alla leadership di Islamabad, non avranno effetto. Perché a Levante gli americani temono e soffrono i colossi cinese e indiano e hanno, comunque, bisogno del Pakistan, visto che con altre potenze regionali (Iran e Turchia) i rapporti sono altalenanti, anche per volere di Trump e sodali. Allora non accade nulla? Non proprio. Fra i salti mortali del presidente, che per altrui o sua volontà in questi mesi ha azzerato lo staff di partenza, si rafforza un potere mai venuto meno al peso che ricopre, quello del Pentagono. Potere strabico, che nella strategia mediorientale statunitense del Terzo Millennio ha più volte imboccato strade cieche con conseguenze sciagurate, se pensiamo alle iniziative stragiste verso la popolazione afghana dei McChrystal e dei Petraeus. Eppure certi generali danno il peggio non solo sul terreno del terrore spacciato come ‘guerra al terrorismo’, ma quando si propongono in politica. Le bugie avallate e diffuse da Colin Powell a sostegno dell’invasione dell’Iraq sono entrate nelle cronache della storia recente e delle disgrazie che hanno provocato. Però ieri la pietanza sapida che Trump serviva a rappresentanti delle truppe schierati ad ascoltarlo, e alla nazione intera, partiva proprio da quelle sciagure. Inconsapevolmente o meno, diceva: staremo in Afghanistan per non lasciare vuoti dove l’Isis possa insediarsi, com’è accaduto in Iraq. Come se guerra imperialista e jihad non si fomentassero a vicenda.

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