E’ il 25 gennaio e il presidente egiziano al-Sisi parla di Rivoluzione. Quella storica del 2011, fatta sua già un anno fa, quando lanciava proclami da presidente eletto per far dimenticare il preludio golpista. La storia scritta dai vincitori ha sempre verità favorevoli al proprio disegno e l’Egitto, spaccato in due già nei mesi seguenti il disarcionamento di Mubarak, risulta oggi ancora più frantumato. Il Paese sta conoscendo giorni addirittura più bui di quelli consolidati nel trentennio di dominio del longevo raìs, dato più volte per moribondo e coi piedi ancora ben piantati a terra, “detenuto” nella prigione dorata delle sue residenze dove anche i figli, ladri e truffaldini, circolano impunemente. Da due anni filati la più popolosa nazione araba vive il suo Termidoro, dopo aver incoronato il figlio-generale più celermente del dittatore diventato Imperatore di Francia. Quest’ultimo certe battaglie le combatteva, Sisi sta trovando avversari armati nei jihadisti del Sinai, mentre la fama di duro se l’è fatta contro la popolazione civile. Una scalata al potere macchiata di rosso sangue: quello di oltre mille, forse duemila, vittime della sua repressione solo nei due giorni d’agosto 2013.
Erano attivisti della Fratellanza Musulmana accampati innanzi alla moschea Rabaa al-Adawiya, in un’area
periferica del Cairo, per protestare contro la defenestrazione e l’arresto di
Mohammed Morsi, il legittimo presidente. Le vicende sono note, i media globali
le trattarono a botta calda. Meno si parlò del massacro che rappresentava la
macchia grazie alla quale la ‘Rivoluzione buona’ si faceva strada. Quindi
gradualmente è sceso l’oblìo sul processo normalizzatore di Sisi; bastava
sapere che fosse in marcia, che l’islamismo di governo fosse stato fermato. Ma
le fosse e le galere, inizialmente riempite di migliaia di giovani islamici,
trovavano e trovano ospiti d’ogni tendenza, lì finisce chiunque si macchi del
peccato d’opposizione. Il regime che ha rassicurato un’ampia metà della
popolazione egiziana, spaesata dall’approssimazione settaria del partito della
Brotherhood, timorosa d’ogni cambiamento, disposta a rivestire gli stracci del
suddito piuttosto che indossare i ruvidi abiti di dignità e libertà, i due
princìpi irrinunciabili della Tahrir realmente rivoluzionaria, quel regime
affonda le radici nel terrore. Centinaia di migliaia di cittadini l’hanno
conosciuto in due anni, i più integerrimi e votati al martirio continuano a
incontrarlo.
La quotidianità politica
interna e nel Mashreq mediorientale sta mostrando diverse facce, cosicché
risvolti e fughe fra l’opposizione repressa fanno pensare a scelte armate. Ora
la componente jihadista organizzata nel gruppo Ansar Bait al-Maqdis mette a
soqquadro il Sinai e pratica attentati in grandi centri in sinergìa col Daesh.
Lo scontro attuale espropria le masse dalla lotta non necessariamente pacifica,
visto che per mesi la morte ha vagato per via sull’onda d’una repressione
sempre crudele, però gli oppositori islamici e laici avevano margini d’iniziativa.
Il conflitto che è seguito a Rabaa sino all’elezione presidenziale di Sisi
(maggio 2014) ha disegnato un quadro diverso: il consolidarsi d’un nuovo regime
securitario. Peggiore di Mubarak e Sadat, peggiore del Nasser che tradiva il
desiderio promesso di eguaglianza socialisteggiante, approdando alla boria
personalistica. Sisi non somiglia a nessuno dei militari diventati raìs, che
dismettevano l’uniforme per abiti civili e puntavano a favorire se stessi, i
clan familiari, la lobby d’appartenenza. Li supera tutti per freddezza e
cinismo, quelli che in luoghi come Azouly, la prigione militare a un centinaio
di km nord-ovest dalla capitale. Fa vivere queste storie.
Amr venne arrestato nel
marzo 2014, mentre sorseggiava un thè alla menta in un caffè della periferia
cairota. Coi suoi diciassette anni era minorenne, venne comunque accusato
d’essere un affiliato al gruppo Ansar, dunque un terrorista. Finì nella
prigione citata, ma ce ne sono a decine simili in tutto il Paese, dotate di
cellette della morte (un metro quadrato per uno nella totale impossibilità di
distendersi e senza poter usufruire del gabinetto) dove si può restare per
settimane nell’angoscia e nel fetore. Non sono luoghi di detenzione ma di
tortura psico-fisica, coi metodi conosciuti di botte semplici (calci, pugni) o
particolari (bastoni, sacchetti di sabbia), scariche elettriche, getti d’acqua
gelata in ogni stagione, tecnica dell’affogamento in vasche o secchi. E stupri
nei confronti di donne e uomini, soprattutto adolescenti e giovani. Un Egitto anche
peggiore di quello conosciuto da Samira, la studentessa abusata da un
ufficiale-medico dell’esercito nel Museo del Cairo durante le settimane di
sogno di libertà, l’Egitto che voleva allontanare lo spettro del massacro di
Khaled Said, il cui decesso e la vibrante protesta fece da anticamera alle
rivolte della dignità del 25 gennaio.
Soffocate dalla violenza
e dalla paura di finire in quei luoghi, perché quell’Amr, che jihadista non era
rimase per due anni con la vita appesa a un filo venendo fuori dall’inferno di
Azouly solo sull’onda degli interventi di Associazione dei Diritti mobilitate
per la liberazione dei tre giornalisti di Al
Jazeera. Ma altri reporter, e blogger, e militanti laici restano rinchiusi.
Mentre di centinaia di loro si son perse le tracce. Iniziarono i ribelli delle
strade, alcuni erano appunto i tamarod,
su cui i partiti laici che aprirono gli spazi per Sisi contro la Fratellanza,
avevano puntato. Sono diventati vittime di colui che osannavano, alla stregua
di tanti islamisti spariti nel nulla. Molti di loro, giovanissimi e senza
famiglia non hanno avuto nessun parente che ne rivendicasse la scomparsa.
Eppure si sono dematerializzati anche tanti figli e fratelli e sorelle e padri
e mariti d’un pezzo d’Egitto rimasto monco di migliaia di vite umane. Di questo
il regime non parla, al contrario recita il ruolo del buon amministratore
sostenendo, come fa Fattah Osman responsabile delle relazioni esterne del
ministero dell’Interno, che: “Quanto
narra la stampa ostile alla nazione non ha nulla a che vedere con la realtà, le
prigioni egiziane sono diventate come hotel”. Non specifica quante stelle
abbiano questi hotel.
Nessun commento:
Posta un commento