Secondo
certi sudditi, che twittano ovviamente celati dietro account di fantasia, i
Saud sarebbero una dinastia sul viale del tramonto. Altri sostengono che quella
famiglia, alla guida del Paese da ottant’anni, sia “il meglio del peggio”,
altri ancora assicurano che per nessuna ragione abdicherà. Ai cittadini sauditi
re Salman chiede “ascolto e obbedienza”, chi non lo fa rischia. Non una
coercizione ordinaria basata sulla “semplice” galera. Da quelle parti i giudici
wahhabiti applicano la Shari’a coi
crismi più violenti possibili e le teste volano sotto la spada di Allah. Nelle
scorse settimane la punizione divina per mano umanissima dei boia di regime,
fra i 44 condannati a morte ha colpito anche una personalità di rilievo del
mondo sciita come Nimr al-Nimr. Ha mescolato pruriti securitari diretti alla
maggior parte dei condannati qaedisti, a manovre geopolitiche lanciate contro
il nemico regionale di sempre: l’Iran. Così la dinastia che ripristinò la linea
monarchica saudita in età contemporanea con Abdulaziz, negli anni Venti e
Trenta e Saud nei Cinquanta; che ha conosciuto intrighi interni con
l’assassinio di Faysal (1975) per mano d’un cugino, morti improvvise (Khalid
nel 1982) per malattie cardiocircolatorie, disabilità sopravvenute (Fahd)
sempre per infarti, e ha assistito alla nascita del jihadismo nutrito dai
princìpi wahhbiti tanto cari alla stessa corona, cerca nella spada e nella
verga gli strumenti per il mantenimento del potere.
Fra il
“riformatore conservatore” re Abdallah - negli ultimi tempi della sua
conduzione impegnato a promuovere studi all’estero (principalmente negli Usa)
dei giovani rampolli del Paese e attuare programmi sanitari volti a limitare
l’incidenza di tumori femminili - e la prassi intrapresa dal successore Salman i
Saud hanno subìto metamorfosi contraddittorie. La nazione continua a far leva
sulla forza di ‘Stato redditiero’, ricchissimo negli investimenti interni con
la crescita esponenziale di tutto ciò che fa immagine: bei palazzi, banche,
ristori e negozi di merce griffata (ma non cinema e luoghi di fruizione
artistica) al centro di Riyad e anche nelle nuove periferie come Atturaif. Gli
investimenti di colonizzazione sono rivolti anche all’estero, il Libano ne è un
antico esempio. I sauditi accrescono le velleità di supremazia regionale, sia
attraverso investimenti di colonizzazione (il Libano è un esempio antico), sia
con l’uso della forza: il Bahrein nel 2011 e lo Yemen d’oggigiorno. Secondo le
posizioni del ministro della Difesa, che poi è il figliolo del sovrano, le
iniziative militari in corso sono nient’altro che una tutela da quelle
componenti etniche (Houthi) presenti nella penisola arabica, a suo dire,
destabilizzatrici dai primordi del regno saudita. Il trentenne Bin Salman è il
futuro della dinastia, ma non è detto che sarà un futuro lontanissimo.
Per
ora l’ottantenne Salman ha designato come successore il nipote Bin Nayaf. Cinquantasei
anni, ponderato, ma deciso perciò in linea con la tradizione che vuol dire
spietato quando occorre. E’ diventato celebre, durante il regno di Abdallah,
per aver condotto una lotta senza quartiere ai seguaci interni di Bin Laden, presenti
ben oltre il suo abbandono della penisola. Anche tramite la spinta di Bin Nayaf
la Cooperazione del Golfo ha fatto quadrato a difesa del ruolo di magnati del
petrolio che garantivano la sicurezza propria e degli alleati occidentali. Così
contenti tutti, a Riyad, Abu Dhabi, Kuwait City, Washington, Londra. Quando
Salman, l’anno passato, scelse Bin Nayaf per la successione si disse che lo
faceva perché questi non avendo discendenti e avrebbe comunque passato lo
scettro a Bin Salman. Non è detto, però, che l’attuale Saud in trono, sanguigno
e sanguinario, non tiri fuori dalla kefiah un ripensamento a favore dell’amato
erede diretto. Potrebbe farlo, può farlo anche per l’appoggio che trova nei
settori più chiusi degli emiri-capitalisti e nel clero wahhabita. Le condanne a
morte, sensibilmente aumentate nell’ultimo anno, rispondono anche al piano di
tenere buoni i chierici reazionari, gli spazi d’azione più ampi concessi alla
polizia religiosa (Mutawwi’a), che interviene per via, redarguisce e punisce,
come nei territori del Daesh.
Tale
mossa ha la duplice finalità di accattivarsi i consensi di quel clero e di
misurarsi sul terreno teologico-comportamentale cavalcato da al Baghdadi e
rintuzzarne la concorrenza. Certo i due Bin, diversi generazionalmente da king
Salman, fiutano le esigenze della gente, del mercato, della macro politica.
Entrambi pensano che occorre anche essere recettivi ai cambiamenti, praticare
la flessibilità come forma tattica per poter elaborare strategie vincenti in
situazioni diventate estremamente complesse. Di tale complessità i sauditi sono
fra gli artefici, nell’incentivare il caos mediorientale, aiutando il jihadismo
fondamentalista sunnita, oppure subiscono gli effetti dell’eterno conflitto petrolifero.
Questo negli ultimi tempi aveva visto all’attacco i nuovi padroni occidentali
dei giacimenti petroliferi (e di gas) scovati sotto le rocce, a cui Riyad ha
risposto con l’aumento della produzione. Prezzi al barile crollati (ma non alla
pompa i petrolieri globali, Sette Sorelle e dintorni, risultano più speculatori
degli emiri). Se questo conflitto peserà anche sulle spalle della casa regnante
è una delle cognite dell’oggi e del domani, giocato principalmente sulla pelle
di quelle comunità etniche diseredate in viaggio sulle rotte della migrazione
forzata, che ormai non hanno né Dio né Patria, né Re né Repubbliche. Islamiche
o laiche.
Nessun commento:
Posta un commento