I bianchi boia della spada e i
neri sgozzatori del coltello sono due facce della stessa medaglia. Il piano
saudita non differisce dal disegno del Califfo, scrive sul suo blog la Guida Suprema iraniana ayatollah Khamenei. Una semplificazione che non
corrisponde alla realtà ma contiene una verità che è sulla bocca di tutti:
governare col terrore diventa un progetto politico sempre più diffuso. Il parallelo
è una scorciatoia frutto del contrasto divampato in queste ore con l’annunciata
espulsione dell’ambasciatore iraniano dal Paese del Golfo dopo l’attacco basji
all’ambasciata saudita a Teheran. Assalto condannato dal premier Rouhani che,
per ruolo, deve tenere botta tramite la connaturata diplomazia, ma accettato se
non addirittura richiesto dal primo chierico iraniano con quel suo “la pagheranno cara” pronunciato appena
s’era diffusa la notizia dell’esecuzione dell’imam al Nimr. Anche a Teheran
sanno che l’Isis ha progetti propri, con la dinastia regnante ha un rapporto
d’odio prima che d’amore, come li aveva Qaeda i cui epigoni re Salman ha fatto
decapitare tre giorni or sono.
Ma il fondamentalismo sunnita, che
il wahhabismo saudita sostiene e alimenta con ogni mezzo, è un comune
denominatore del potere regnante e di quello che sogna o sognerebbe di regnare,
e nel caso di Al Baghdadi travalica confini nazionali e si propone come polo
aggregatore del jihad globale, abbracciando
Maghreb, Mashreq, Sahel e spingendosi sino ad aree dell’Estremo Oriente. Un
progetto grandioso che non resta nel mondo delle fantasie politiche, ma
s’innesta su territori controllati usando una denominazione – Stato Islamico –
che si fa beffa degli esorcismi dei media mondiali e del loro “sedicente” che
precede il Daesh. L’Isis è un soggetto con cui devono fare i conti gli
occidentali colpiti nelle loro città, le minoranze yazide e kurde scacciate da
territori abitati da secoli, le comunità religiose cristiane e zoroastriane
mediorientali crocifisse e perseguitate, gli stessi Paesi che per interessi di
potere e dominio regionale combattono i miliziani neri, o dicono di farlo, e li
finanziano per trarne presunti vantaggi tattici.
Fra questi l’Arabia Saudita è la
prima della lista, e con essa altre petromonarchie alleate (Emirati Arabi,
Kuwait, Bahrein) o alternatamente avversarie (Qatar), più la Turchia
erdoğaniana. Su queste e un’altra trentina di nazioni i nuovi potentati della dinastia
Saud (Salman e il figlio Mohammad Bin) hanno riversato il collante della coalizione
anti Isis strombazzata a Riyad a metà dicembre che aveva come scopo immediato
trovare consensi per lo scontro repressivo anti ribelli Huthi in atto nello
Yemen. Scontro che come in Iraq, Bahrein, Libano, Siria vede contrapposti credo
e politica sunnita e sciita. La coalizione citata serve, dunque, da maschera
per i piani di supremazia che l’Arabia Saudita si propone, e non da oggi, in
Medio Oriente. Trovando davanti a sé l’altro disegno egemonico - iraniano -
indubbiamente non fanatico come quello d’ispirazione wahhabita, ma altrettanto
determinato quanto a supremazia.
Accanto a una battaglia egemonica
che ha risvolti geopolitici oltre che ideologico-religiosi, con tanto di
sostegno dei colossi della politica internazionale, Washington per Riyad e
Mosca per Teheran, un fattore direttamente correlato con la sfida è ovviamente
il fattore energetico che ha visto per decenni l’Iran messo in un angolo dalla
punizione dell’embargo voluto dagli Usa e applicato pedissequamente dall’intero
blocco occidentale anche a proprio svantaggio nell’acquisto di idrocarburi. Lo
scontro sulla capacità di produzione nucleare iraniana, a lungo frenata dalle
potenze mondiali e solo di recente accettata con evidente stizza delle
petromonarchie, è un ulteriore elemento che ha rimesso in discussione i ruoli di
predominio nel Golfo. C’è poi la mai tramontata missione resistenziale di cui
l’Iran si fa portabandiera, sebbene il vento khomeinista sia ormai un ricordo.
Comunque sarà pure un interesse soggettivo (quale politica estera è scevra da
simili intenti?) però di fronte all’espansione territoriale dell’Isis l’Iran ha
gettato nella mischia i suoi pasdaran.
Ha richiesto l’intervento degli
alleati Hezbollah libanesi, unici insieme ai combattenti kurdi del Rojava e ai
peshmerga di Barzani a mettere i famosi ‘scarponi sul terreno’ di quel che è
diventato lo Stato Islamico. Una lotta concreta contro i miliziani del terrore;
mentre nel contrasto al terrorismo dichiarato dai sauditi il bersaglio si
sposta sui propri nemici che sono poi tutti gli sciiti mediorientali, compreso
il focoso ma inerme imam al Nimr, la cui testa è volata al posto di quella al
Baghadadi. Cosicché il gioco dell’establishment saudita appare come un
doppiogioco doppiamente pericoloso: esso teme la concorrenza del fanatismo
jihadista perciò incrementa la sua già ruvida interpretazione della Shari’a in fatto di giustizia e costumi, ma continua a
foraggiarlo magari per via indiretta tramite quegli emiri che innaffiano i
dollari del petrolio col sangue della destabilizzazione diffusa nelle aree su
cui puntano le proprie mire. Il Libano dalla guerra civile degli anni Settanta
ha conosciuto simili laboratori, la Siria, nonostante le gravissime
responsabilità del clan Asad, da Hafiz a Bashar, sta vivendo questa cruda
realtà che si riversa su milioni di civili ridotti a bersaglio o fantasmi itineranti.
E l’emergenza siriana può essere solo la
punta d’un iceberg destinato a emergere ancor più, nell’intero Medio Oriente.
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