Chi ha
assassinato Giulio Regeni, il ricercatore italiano residente dallo scorso
settembre al Cairo per motivi di studio? Lo domandano i familiari e ora anche
lo Stato italiano tramite una nota della Farnesina, inviata ufficialmente alle
autorità egiziane. La promessa di far luce sulla vicenda giunge direttamente
dal presidente, il generale-golpista Al Sisi, che si è impegnato con la nostra
ministra per lo Sviluppo Economico Guidi, in loco per incontri di affari fra i
due Paesi e al momento rinviati. Regeni era scomparso dal quartiere di Dokki, dove
abitava, il 25 gennaio. Nel 2011 quel giorno s’avviava la cosiddetta
rivoluzione che abbatté Mubarak, diventato negli ultimi tre anni un incubo per
i sognatori d’un nuovo Egitto. Fra i sospetti c’è quello che Regeni sia finito,
volontariamente o meno, in qualche flash mob di protesta, sebbene i parenti
affermino che lui non si occupasse di politica, né frequentasse attivisti. Il
ricercatore parlava speditamente diverse lingue, compreso l’arabo, e ciò lo
facilitava nei contatti d’ogni genere, dagli intoppi
burocratico-amministrativi, compresi i frequentissimi controlli polizieschi, al
colloquio con gli abitanti della metropoli.
Nei
giorni seguenti all’inquietante silenzio i genitori di Regeni, tramite il sindaco
del loro paese e l’ambasciata italiana al Cairo, avevano lanciato l’appello di
scomparsa, ma dal ministero degli Interni egiziano giungevano assicurazioni che
nessun italiano era stato fermato o arrestato. Si poteva ventilare l’ipotesi
del rapimento. Per estorsione? Finora la criminalità locale, micro o macro, pur
presente nel tessuto del Paese non aveva dato vita a simili azioni.
Ipotizzabili fra i miliziani jihadisti, ma estremamente difficili da gestire
sul territorio urbano, visto l’impressionante incremento di ogni mossa legata
al controllo del territorio da parte dell’apparato poliziesco. Ora, dopo il
ritrovamento del cadavere in un’area periferica della capitale, la sparizione e
l’assassinio di Regeni assumono contorni diversi. Sul corpo sono visibili
ferite che molto somigliano a segni di tortura, inferti sicuramente dai
rapitori, ma a quale scopo? Che interesse avrebbero avuto, possibili estorsori
di cui sopra, a torturare il sequestrato? Così i cattivi pensieri virano verso
pratiche assai diffuse fra agenti ufficiali e ufficiosi, quelli in divisa e i mukhabarat che hanno servito ogni
presidente.
Le
torture sono sensibilmente aumentate negli ultimi diciotto mesi, ora che le
Forze Armate sono impegnate sul fronte interno da attentati nelle città e dalla
guerriglia nel Sinai. Regeni potrebbe esser finito in una retata delle forze di
sicurezza, che nel giorno della mala rivoluzione (l’attuale regime considera
buona quella del 30 giugno 2012 che, disarcionando Morsi, ha spianato la strada
ad Al Sisi) andavano a individuare ipotetici contestatori. Gli attivisti delle “quattro
dita” (il simbolo della resistenza islamica al generale) che nel 2013 e 2014
hanno organizzato manifestazioni di dissenso e che vengono ferocemente
perseguitati, tanto che l’anno scorso hanno realizato solo qualche fugace e
rischiosissima apparizione. Non è un segreto che nell’attuale Egitto fermi,
arresti, detenzioni con l’uso di ogni genere di coercizione vengano praticati a
migliaia. Su questi abusi, tacitati dagli interessi che le nazioni amiche
traggono dall’attuale governance sul versante economico e su quello
geopolitico, è difficile fare chiarezza. I familiari degli oppositori di Sisi,
non necessariamente islamisti, e Amnesty International lo denunciano da tempo.
Chissà cosa pensa Renzi l’africano.
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