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giovedì 4 febbraio 2016

Caso Regeni: rapito, torturato, ucciso

Chi ha assassinato Giulio Regeni, il ricercatore italiano residente dallo scorso settembre al Cairo per motivi di studio? Lo domandano i familiari e ora anche lo Stato italiano tramite una nota della Farnesina, inviata ufficialmente alle autorità egiziane. La promessa di far luce sulla vicenda giunge direttamente dal presidente, il generale-golpista Al Sisi, che si è impegnato con la nostra ministra per lo Sviluppo Economico Guidi, in loco per incontri di affari fra i due Paesi e al momento rinviati. Regeni era scomparso dal quartiere di Dokki, dove abitava, il 25 gennaio. Nel 2011 quel giorno s’avviava la cosiddetta rivoluzione che abbatté Mubarak, diventato negli ultimi tre anni un incubo per i sognatori d’un nuovo Egitto. Fra i sospetti c’è quello che Regeni sia finito, volontariamente o meno, in qualche flash mob di protesta, sebbene i parenti affermino che lui non si occupasse di politica, né frequentasse attivisti. Il ricercatore parlava speditamente diverse lingue, compreso l’arabo, e ciò lo facilitava nei contatti d’ogni genere, dagli intoppi burocratico-amministrativi, compresi i frequentissimi controlli polizieschi, al colloquio con gli abitanti della metropoli.
Nei giorni seguenti all’inquietante silenzio i genitori di Regeni, tramite il sindaco del loro paese e l’ambasciata italiana al Cairo, avevano lanciato l’appello di scomparsa, ma dal ministero degli Interni egiziano giungevano assicurazioni che nessun italiano era stato fermato o arrestato. Si poteva ventilare l’ipotesi del rapimento. Per estorsione? Finora la criminalità locale, micro o macro, pur presente nel tessuto del Paese non aveva dato vita a simili azioni. Ipotizzabili fra i miliziani jihadisti, ma estremamente difficili da gestire sul territorio urbano, visto l’impressionante incremento di ogni mossa legata al controllo del territorio da parte dell’apparato poliziesco. Ora, dopo il ritrovamento del cadavere in un’area periferica della capitale, la sparizione e l’assassinio di Regeni assumono contorni diversi. Sul corpo sono visibili ferite che molto somigliano a segni di tortura, inferti sicuramente dai rapitori, ma a quale scopo? Che interesse avrebbero avuto, possibili estorsori di cui sopra, a torturare il sequestrato? Così i cattivi pensieri virano verso pratiche assai diffuse fra agenti ufficiali e ufficiosi, quelli in divisa e i mukhabarat che hanno servito ogni presidente.

Le torture sono sensibilmente aumentate negli ultimi diciotto mesi, ora che le Forze Armate sono impegnate sul fronte interno da attentati nelle città e dalla guerriglia nel Sinai. Regeni potrebbe esser finito in una retata delle forze di sicurezza, che nel giorno della mala rivoluzione (l’attuale regime considera buona quella del 30 giugno 2012 che, disarcionando Morsi, ha spianato la strada ad Al Sisi) andavano a individuare ipotetici contestatori. Gli attivisti delle “quattro dita” (il simbolo della resistenza islamica al generale) che nel 2013 e 2014 hanno organizzato manifestazioni di dissenso e che vengono ferocemente perseguitati, tanto che l’anno scorso hanno realizato solo qualche fugace e rischiosissima apparizione. Non è un segreto che nell’attuale Egitto fermi, arresti, detenzioni con l’uso di ogni genere di coercizione vengano praticati a migliaia. Su questi abusi, tacitati dagli interessi che le nazioni amiche traggono dall’attuale governance sul versante economico e su quello geopolitico, è difficile fare chiarezza. I familiari degli oppositori di Sisi, non necessariamente islamisti, e Amnesty International lo denunciano da tempo. Chissà cosa pensa Renzi l’africano.

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