Ankara
colpita come in guerra: esplode un’auto bomba e in ventotto, fra militari e
civili, finiscono a pezzi e bruciati vivi. Una scia di fuoco che abbaglia la
notte nel cuore teoricamente più controllato della città: vicino al quartier
generale dell’esercito, dov’era in corso un vertice, e al Parlamento. Tutto ciò
inquieta gli stessi fedelissimi d’un regime che da mesi non può più parlare di
prosperità, intrappolato com’è in vari intricatissimi fronti. L’attacco si
diversifica da quelli già vissuti sempre nella capitale turca e a Suruç per
potenza e modalità. Quegli obiettivi erano diversi: pacifisti, oppositori,
attivisti filo kurdi. Allora si parlò di Isis e di Servizi come possibili
esecutori di offese portate in terra turca, rivolte comunque agli antagonisti
del governo. Ieri la morte ha raggiunto l’apparato erdoğaniano della forza,
finora bersagliato in patria solo dalla guerriglia kurda del Pkk. Il presidente,
che definisce il conflitto da lui stesso scatenato entro i confini nazionali
come lotta al terrorismo, pur se massacra le popolazioni civili del sud-est, ha
ribadito che il sacrificio dei soldati non piegherà l’impegno delle Istituzioni
contro chi attenta alla sicurezza.
Ma al di
là delle dichiarazioni ufficiali e delle visite estere, bloccate per sé e il
premier Davutoğlu, è innegabile che Erdoğan veda trasformarsi questioni bollenti in problemi
militari su troppi terreni. E un conto è dar fondo al nazionalismo più becero
per compattare l’elettorato alle urne, più complesso diventa convincerlo della
giustezza dei troppi conflitti su ogni terreno inseguiti dalla sua smania di supremazia.
La deflagrazione di ieri sembra già avere una matrice: secondo il governo
l’ordigno-viaggiante lanciato sul convoglio militare era guidato da un
kurdo-siriano, militante dell’Ypg. Questo avrebbero accertato le perizie,
prelevando le impronte digitali d’un corpo comunque deflagrato e carbonizzato. Le
impronte di riferimento erano state memorizzate al momento dell’ingresso del
cittadino che risultava rifugiato. Versione di comodo? Può darsi. Altre ipotesi
fanno pensare ai movimenti presenti sul fronte meridionale del confine siriano,
dove combattono jihadisti di varia natura e lealisti di Asad con l’appoggio di
Hezbollah, aviazione russa e i guerriglieri kurdi delle Ypg, recentemente
vicini a questa componente.
La
bomba potrebbe anche essere un avvertimento jihadista a un Paese
doppiogiochista oppure una ferita che agenti, magari pasdaran o d’altra sponda,
portano in casa del borioso giocatore di un’area in disfacimento. Quando si parla di autobomba, al di là delle
capacità tecniche per attivarla, non si ha mai l’evidenza immediata della
matrice. Questa arriva dopo un po’, quando altre situazioni si dipanano. Certo
il primo pensiero va al possibile dichiarato intervento di terra prospettato
dalla Turchia sul fronte dell’accesissimo confine verso la cittadina di Azaz
che può finire sotto il controllo delle truppe di Asad, lì impegnate assieme a
reparti kurdi del Pyd. Quest’ultimi ricevono la visite dell’aviazione di Ankara
con frequenza molto superiore, anzi quasi completa (dati di osservatori
internazionali parlano dell’80% di bombardamenti turchi sulle zone controllate
dai kurdi e solo il 20% rivolto ai territori sotto la giurisdizione del Daesh).
Poi ci sono i missili riversati sui civili, ospedalizzati compresi, su cui
tutti (russi, americani, lealisti siriani, turchi) si palleggiano la
responsabilità. E questa è la guerra che nessuno vuol vedere. Però esiste.
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