Guardiamo questi piedi. Il procedere scalzo di
chi nel desiderio di andare ha smarrito anche le scarpe. Oppure le ha gettate
nei trasbordi fra terra e mare, per non scivolare dai barconi, per muoversi in
acqua senza affondare. Un passaggio che sfiora la morte; faticoso,
incertissimo, vissuto fra dolore e speranza. Un passaggio che dura mesi e anni
con una meta che sembra irraggiungibile,
con alcuni amici e figli crepati per via. Se non camminassero su una lingua di
bitume, se il cotone di Genua fosse più antico potrebbero retrodatarsi sino al
Medioevo, quando certi percorsi diventavano sacri ai pellegrini della
Francigena.
Fra la migrazione per fame e quella per fede la
seconda potrebbe essere un diversivo se in taluni casi non fosse anche l’unica
possibilità di salvezza per il corpo e per l’anima. Perché la fede, l’etnìa, le
idee sono tornate a essere oggetto di persecuzione e tanti sono i migranti
richiedenti aiuto e rifugio. Appaiono smunti, laceri, sofferenti come tanti
pellegrini dei secoli andati, che dopo migliaia di chilometri s’accampavano
presso la soglia di Pietro senza avere l’obolo per acquistare alcuna
indulgenza. A loro bastava partecipare a una speranza di vita, come fa ora
quest’umanità in fuga in cerca d’un angolo di Paradiso sulla Terra.
Di fronte al rito in cui s’è trasformato l’Anno
Santo, per precise responsabilità ecclesiastiche e gerarchiche, già contrasta,
e contrasterà ancor più, il cammino di chi s’avvia alla festa della Cristianità
col passo del turista. Potrà anche venire da Compostela, faticare per migliaia
di chilometri, ma avrà un altro sudore. Gli mancheranno quegli ormoni che la
paura e l’incertezza riservano a quest’altri viandanti. Più vicini, più simili
ai francigeni dei secoli passati, non solo nei panni laceri ma nella ricerca di
un’identità che la moderna società riserva. Riserva, comunque a tutti, e forse
qui le diverse provenienze ed esperienze potrebbero incontrarsi e ritrovarsi.
Se il pellegrino ungherese non respingerà quello siriano.
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