Con la categoria di Tano D’Amico, fotografo poi
celebre e celebrato, noi della militanza estrema, ed estremista secondo il
revisionismo allora corrente, avevamo un gioco di sguardi. Ci scrutavamo a
distanza più o meno ravvicinata. Le sue pupille, parzialmente celate dalle
lenti, cercavano il particolare o il tuttotondo su cui far scattare la lente
preziosa dell’obiettivo. Quello con cui per anni, diventati decenni, ha
descritto attraverso la luce ciò che faceva una collettività in cerca d’una
nuova vita. Era il 1973 e noi, a tutela di noi stessi e di quel che facevamo,
dovevamo evitare di mostrarci, dovevamo esserci e non essere visti. Tantomeno
dai fotografi. L’anno seguente la situazione precipitò, quando certe immagini
scattate chissà da chi corredarono il dossier con cui due magistrati indagavano
sulla “struttura paramilitare di un gruppo extraparlamentare” che andava per
questo perseguito. Adrenalina e paranoia degli interessati crebbero a tal punto
che fotografi amici, come Tano, e quelli appartenenti alle forze dell’ordine o
coloro che collaboravano con esse infiltrandosi nei cortei, rischiavano le
rabbiose reazioni di chi non voleva finire schedato, con tanto di immagini, poi
riprese anche da un noto periodico italiano. Tano, però, ebbe il salvacondotto.
Chi ci guidava confermava la neutralità del suo scatto sul fronte della
sicurezza e noi, di lui, da quell’istante ci siamo fidati. Ce lo trovavamo
accanto in situazioni a dir poco velenose, fra fumi e spari, dove lui rischiava
ben più del militante inquadrato nella lotta.
Tano testimoniava e scriveva con la luce le
poetiche pagine di popolani e quartieri ribelli. Mai domati. Le periferie dei
Settanta venivano direttamente da quelle dei Sessanta e dei Cinquanta. Una
continuità proletaria trasferita da padri, zii e fratelli maggiori, un cordone
ombelicale che i partiti dell’oblìo negavano e che invece era lì con la stessa
bella bandiera rossa. In quella che oggi si definisce emergenza abitativa e che
all’epoca era la lotta per la casa. Di quelle battaglie, in una dolce serata in un Centro sociale di Roma sud-est, mentre si parlava di storie e
volti della periferia di sessanta e cinquanta anni addietro raccolti nel libro
“Leggeri e pungenti”, il fotografo D’Amico ha aperto lo scrigno dei ricordi.
Tutti preziosi, perché densi di passione popolare. In ogni epoca solo chi ha
cuore lotta. E in quei conflitti per la casa in cui fu trascinato perché
apprezzato nel sentimento che trasferiva al meccanico clic, Tano scopriva un
mondo. Del bisogno e del coraggio, della determinazione e della volontà di
riscatto. Non della disperazione, ma della dignità. Noi che della solidarietà militante
rappresentavamo l’energia muscolare e tiravamo celandoci, perché degli uomini
in divisa e plexigas siamo sempre stati acerrimi nemici, ripetevamo le corse e le
fughe che dai pratoni dietro la palla trasferivamo ai lati di jeep e blindati.
Le Luigine che occupavano, le avevamo conosciute nelle casupole del borghetto e
sotto l’acquedotto, seguendo i compagni che ne organizzavano il riscatto, visto
che l’ora precaria de “Il tetto”,
ricordato nel nostro discorrere, doveva avere giustizia sociale. Magliana,
Casalbruciato, San Basilio, con tanto di lutto per Fabrizio Ceruso e la polizia
che spara e gli spari nella buia notte.
Cos’è rimasto? Qualcosa, oltre il ricordo.
Troppo poco per la grandiosità delle antiche lotte che assieme a quelle
milanesi di Testi e Famagosta (ma c’erano Torino, Firenze, Napoli, Palermo)
hanno rappresentato l’apice di un contropotere teorizzato in politica e attuato
da chi legava bisogni e sogni. Però vien fuori che inevitabilmente, e
inesorabilmente, siamo cambiati. Non solo invecchiati, che è nella natura. Sembra
mutata la natura popolare; e la solidarietà successiva alla poesia d’un ricordo,
lanciato ancora da Tano, rimane impresso sulla pellicola della mente. L’occhio
inquadra una rete, la recinzione della romana ‘Santa Maria della Pietà’ pre Basaglia.
Di qua mani di bambini che s’infilano negli interstizi a maglia non tanto
fitta, di là manone dentro cui quelle piccine entrano cinque volte. Nel contatto umano
fra bimbi e “matti”, che le acculturate mamme odierne eviterebbero, le
genitrici d’un tempo facevano porgere sigarette, ricevendo in cambio la frutta
coltivata nel giardino interdetto ai “sani”. E quando i cancelli s’aprirono fu
la gioia dell’evasione. Le donne dei lotti di Primavalle imbandirono tavolate,
ricostruendo per via quell’aria paesana che inondava le periferie dei
Cinquanta. Una festa per la sana follìa. Sprazzi d’identità resistente che s’è
gradualmente sbiadita, sino a smarrire quel senso di appartenenza. Classe per
la politica buona. Radici per i poeti della canzone. Ci siamo intesi, eppure non
è nostalgia ciò che resta. E’ memoria, da non smarrire perché le enclavi
resistenti come l’ospitante Cortocircuito,
e ciascuno di noi nell’impegno quotidiano, rilancino l’animo presente e orgoglioso
di ciò che è stato. La storia delle periferie è storia di popolo, ieri come
oggi, immigrato e umile ma caparbio e vigoroso. Possiamo ripartire da questo: ci
sono tanti anni di lotte nel nostro futuro.
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