Se l’attacco firmato
Isis al palazzo del Parlamento iraniano e al Mausoleo dell’ayatollah Khomeini
doveva avviare quel processo d’irrigidimento e rinfiammare i rapporti fra
Teheran e Wasghington - una tendenza su cui ha lavorato dal suo insediamento
l’amministrazione Trump - il piano sta riuscendo a meraviglia. Perché tenere
calma l’ala più intransigente del partito dei Pasdaran non è facile neppure per
la componente moderata che pure ha vinto le elezioni di maggio con ampio
margine. Qualche giorno fa, intervenendo sull’attacco subìto dopo diverso tempo
sul proprio territorio, il capo delle forze armate generale Mohammad Baqeri
aveva annunciato “indimenticabili lezioni”
da dare ai terroristi del Daesh. Stamane sui media iraniani compare la foto dei
cadaveri di quattro miliziani (o presunti tali) avvolti in drappi neri del
Califfato che sono stati scovati ed eliminati dai reparti di sicurezza nella
provincia di Hormozgan, che affaccia sul Golfo Persico ed è prospiciente al
Qatar. Un’eliminazione che propagandata offre un po’ di credibilità alle varie strutture
militari del Paese che il duplice assalto di Teheran ha posto in difficoltà e
imbarazzo innanzitutto davanti ai concittadini.
Nel suo discorso pubblico Baqeri aveva messo in
relazione la simbolica “danza delle spade” offerta dai regnanti sauditi al
presidente statunitense in visita a Riyad con gli efferati attentati dei giorni
seguenti che hanno fatto 12 vittime (più i cinque jihadisti) e oltre una
cinquantina di feriti. Il generale parlava di triangolo fra americani,
israeliani e sauditi per incrementare il caos regionale e giustificare
armamenti e operazioni repressive. Stamane sul tema è tornato la Guida Suprema e ha attaccato senza mezzi
termini la linea di Donal Trump. “Voi e i
vostri agenti siete la fonte d’instabilità nel Medio Oriente. Chi ha creato lo
Stato Islamico? L’America afferma di combatterlo ma si tratta di una bugia” ha
retoricamente tuonato l’ayatollah. La
tensione fra le parti era comparsa dai mesi scorsi, col divieto d’ingresso sul
suolo statunitense rivolto ai cittadini di alcune nazioni musulmane fra cui l’Iran.
Nonostante la smentita all’atto presidenziale venuta da più d’una Corte
federale, la politica mediorientale della Casa Bianca prosegue una corsa
sfrenata volta a favorire vecchie alleanze reazionarie e filo imperialiste, col
l’aggiunta del sostegno agli amici e finanziatori della nuova creatura del
jihad che spopola da un triennio. Sempre da Trump era giunto il disconoscimento
dell’accordo sul nucleare, la creatura diplomatica su cui il chierico Rohani ha
fondato la sua riconferma presidenziale.
Il giudizio tranciante “il peggior accordo mai sottoscritto dagli Usa” non rappresenta solo
una critica a posteriori al predecessore nello Studio Ovale, è stato il
prodromo di quella volontà aggressiva che vede lo spregiudicato presidente
americano aizzare anziché placare gli animi di contendenti regionali impegnati
su un terreno infuocato. A questo punto non stupisce che Khamenei abbia
pronunciato frasi simili: “Il governo
americano è contrario a un Iran indipendente, gli Usa hanno problemi con
l’esistenza della Repubblica Islamica iraniana. Molte questioni con loro non
possono essere risolte”. Se fosse vera quest’ultima dichiarazione,
riportata comunque dall’agenzia Fars,
l’orientamento politico interno avrebbe mutato indirizzo. Vorrebbe dire che, in
base alla sicurezza nazionale, anche moderati e riformisti stretti attorno al
neo rieletto Rohani devono fare buon viso all’incrudimento dei rapporti
internazionali. Le posizioni di scontro con l’Occidente, sostenute a
prescindere dall’ala militarista dei Pasdaran, che anche negli interventi
geostrategici come la presenza nella crisi siriana sono maldigeriti dai
riformisti, trovano nuovi punti d’appoggio. Il clero conservatore,
elettoralmente sostenitore di Raisi, può ridare fiato a posizioni intransigenti
che collimano innanzitutto con la difesa nazionale, e l’attuale establishment
pur meno sprezzante non può tirarsi indietro. La Guida Suprema ha parlato: le
relazioni implodono.
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