La smania muscolare che annida fra i Saud trova
un interprete rampante e pretenzioso in Salman bin il cui papà, contravvenendo
a quanto aveva disposto tempo addietro, ora innalza a erede al trono. Viene scalzato
il nipote Mahammed bin Nayef, già designato come delfino e ieri disconosciuto
grazie al voto espresso a larghissima maggioranza dal Consiglio di Fedeltà all’Arabia
Saudita. Alla Mecca 31 membri su 34 hanno avallato il cambio in corsa. Sauditi
a volto scoperto, dunque, se ancora fosse servito celare le concrete intenzioni
egemonico-guerrafondaie della dinastia di Riyhad. Evidentemente l’ottantunenne re
Salman, che due anni e mezzo fa nel prendere il posto di re Abdallah, aveva cercato
di mediare coi fratelli la successione destinandola a un nipote, si è convinto
ad accelerare i tempi favorendo l’elemento che più di altri incarna la smania
di potere della famiglia, che esula dalla sfera affaristico-economica. Un
potere che adesso mette al centro la figura del rampollo trentunenne, il quale,
oltre a conservare la carica di ministro della Difesa, viene anche nominato
primo ministro. E se da una parte ben pochi credono alla finzione
democratico-rappresentativa di cui il regime s’ammanta, dall’altra la mossa
costituisce un accentramento intenzionato a sottolineare la forza e il credito
di cui Salman junior gode.
In contemporanea a bin Nayef si ritaglia il
ruolo di ministro degli Interni e altre scelte riguardano Nasser al-Daoud che riceve
l’incarico di sottosegretario al ministero degli Interni. Il principe bin
Faisal bin Abdulaziz diventato consulente della Corte reale, e tal Faisal
Sattam è nominato ambasciatore del casato in Italia, come pure altri principi
vanno a occupare ruoli diplomatici. Non abbiamo notizie sugli orientamenti di
quest’ultimi, ma vista l’entità della svolta c’è da giurare che la monarchia si
stia dotando di figure completamente acquiescenti alla linea geopolitica
assunta dopo gli accordi di Riyad con Donald Trump. Ritocchi pure negli
apparati di sovrastruttura (l’Autorità per lo sport) e in quelli più
sostanziali del governatorato del Golfo e dell’Intelligence. Locali agenzie
danno a questi trasferimenti tattici una veste sacrale quando riportano la
dichiarazione della Casa reale sulle norme che “passano ai figli del fondatore re Abd al-Aziz e ai figli dei loro figli.
Una verticalità che concorda coi princìpi
del Santo Corano e la tradizione del venerabile profeta” sebbene
quest’ultima valutazione sia una libera interpretazione, a proprio favore, dei
testi sacri islamici. Come sempre i Saud usano la religione per avvalorare fra
i fedeli sunniti un’investitura divina che ne blindi a tuttotondo l’operato.
L’investitura è direttamente correlata con la
crisi col Qatar di cui la politica estera è il fulcro. Su questo terreno il
piccolo Stato e la dinastia al-Thani, che lo governa, rompono lo schema di
subordinazione accettato da altri (EAU, Oman, Bahrein). In grave crisi lo
Yemen, stritolato dalla guerra civile e dove i sauditi misurano sul terreno
armato con l’Iran la forza egemonica nella regione, e ultimamente anche il Kuwait
mostra un comportamento meno acquiescente ai voleri sauditi. Certo, le
petromonarchie con l’ausilio dell’Egitto del golpista al-Sisi costituiscono un
blocco con cui non è facile misurarsi anche sul terreno di quelle che negli
ultimi tempi sono state le armi più potenti di Doha. Media, finanziamenti,
diplomazia economica. L’ultimo rampollo al-Thani ha esaltato ciò che da circa
un ventennio i predecessori incentivavano. La creazione e l’implemento
dell’emittente Al Jazeera è stata una
delle iniziative più azzeccate dall’emiro bin Khalifa e ha rappresentato, e
rappresenta, un prezioso strumento di orientamento, anche per l’eccellente
professionalità con cui muove l’informazione. Il quarto figlio e suo successore
Tamim, già dall’abbigliamento ha scelto di rompere le barriere formali con
l’Occidente e usa lo sport quale strumento diplomatico di prim’ordine
(investimenti in club calcistici, finanziamento di grandi eventi dai Giochi
asiatici ai Mondiali di football).
Oltre a sovvenzioni dirette come quelle
immobiliari realizzate, ad esempio, a
Milano-Porta Nuova. Così il piccolo Qatar s’è aperto al mondo non solo vendendo
gas e idrocarburi, ma diversificando il suo impero dei petrodollari. Giocando
anche sporco, se certi denari sono finiti a finanziare direttamente o
indirettamente il terrorismo jihadista, un’accusa che, però, le contigue
dinastie del petrolio non possono lanciare senza il rischio di vedersi coinvolti
in una collettiva chiamata di correo. Fra tanta spregiudicatezza alcuni
commentatori, come uno dei decani di Al
Arabiya (la tivù saudita concorrente di Al
Jazeera, seppure con minore successo) al-Rashed, sostengono che l’impatto
mediatico e finanziario non salverà Doha
dall’isolamento in cui i Paesi fratelli (e sicuramente anche coltelli) l’hanno
spinta. Visto che la geopolitica necessita di relazioni Diplomatiche con la
maiuscola, quelle che passano per investimenti ed economia sono importanti ma
non vivono senza l’ossigeno della politica. E su questo terreno il clan
al-Thani non può spendere tutto ciò che mostra su altri tavoli. Fra i colossi
mondiali gli Usa hanno compiuto la propria scelta e i qatarioti non hanno al
proprio fianco un padrino che possa difenderli se i petrodollari dovessero
lasciare il passo alle petroarmi. Insomma, secondo Rashed, dalla base di
al-Udeid (base aerea Nato in Qatar) non s’alzerebbe un solo caccia statunitense
o britannico a difesa degli al-Thani. Chissà se per festeggiare la prossima
corona bin Salman vorrà unire all’idea di soffocare l’ambizioso Tamim con un
embargo (tutto da provare, nonostante una geografia favorevole) anche uno
sfregio militare. Il laboratorio
mediorientale le sta provando tutte.
Non i sunniti riconoscono la legittimità della discendenza familiare, ma sono gli sciiti
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