Il sorriso più beffardo che pacifico di Hassan
Rohani, presidente iperconfermato dell’Iran della Rivoluzione Islamica, ha
caratterizzato il suo primo intervento pubblico. A ridosso di un’elezione molto
partecipata dalla popolazione (42 milioni di votanti sui 55 milioni aventi
diritto) il chierico sciita si toglie qualche sassolino dalla scarpa, parlando
della dinastia saudita visitata e abbracciata dal presidente statunitense
Trump. Un evento commentato dalla stampa mondiale, che a detta di parecchi
osservatori avrebbe aperto un nuovo orizzonte alla politica estera americana.
Rohani dà subito un a fondo, quando sottolinea come quella società avrebbe
bisogno di urne non di armi, perché il primo alleato statunitense in Medio
Oriente, ovviamente dopo Israele, non brilla per partecipazione popolare alla
vita nazionale. Pur trattandosi di sudditi costoro appaiono totalmente dimenticati
dai regnanti Saud per qualsiasi dinamica, compresa quella d’una rappresentanza
per delega. Del resto nella sfavillante Riyad del modernismo edilizio, le mentalità
politica, amministrativa e religiosa restano ferme, guardano a presente e
futuro duettando col passato d’un tradizionalismo oltranzista. Un fenomeno non
solo delle fede sunnita, specie se in chiave wahabita, però il presidente
iraniano dimentica il conservatorismo interno e guarda in casa d’altri. La
polemica ruota attorno al passo bellicista del mondo saudita, a cui Trump
propone e impone una mossa che lancia Oltreoceano come un colpaccio
affaristico.
Vendere 110 miliardi in armamenti, che potranno
diventare 350 in un decennio, dovrebbe garantirgli oltre che un alleato iper
armato in quell’area sempre geograficamente caldissima, una ventata di popolarità
fra operai, tecnici e padroni impegnati nel lucrosissimo settore della
produzione bellica. Il cuore pulsante dell’industria yankee. Rohani,
rivolgendosi a Paperoni e sceicchi, ricorda come non siano le sole armi a
creare la forza d’una nazione bensì le elezioni. L’urna gli è stata amica e il
presidente confermato prende spunto dal primo tour dell’uomo della Casa Bianca
per ricordarlo, sebbene l’occhio sia rivolto al panorama internazionale e
regionale che secondo alcuni analisti starebbe mutando. Rispetto al semi
immobilismo di Obama, Trump mostra il piglio decisionista, soprattutto meno ipocrita.
Pone sotto i riflettori le scelte mostrate in questi giorni a Riyad. Ma negli
anni precedenti l’amministrazione Usa non aveva fermato colpi di mano e
operazioni compiute dagli alleati delle petromonarchie, come testimoniano la
situazione yemenita e la continuità dell’offensiva jihadista in Medioriente e
Occidente. E’ vero che uno scarto tanto deciso da parte di Trump sembrerebbe
porre l’Iran nuovamente in castigo sul versante economico e forse geopolitico,
ma gli sviluppi sono tutti da scoprire e nient’affatto definiti. La leadership
iraniana coglie l’occasione elettorale per evidenziare le differenze di forma e
sostanza con quegli attori regionali con cui le tensioni, già profonde, sono negli
ultimi tempi aumentate. Ricordiamo come nel gennaio 2016 i Saud condannarono a
morte 47 detenuti, fra loro c’era un noto religioso sciita, Nimr- al-Nimr, già
in carcere per non precisate accuse.
L’arresto, avvenuto nel 2012, era seguìto agli
interventi del chierico a favore di alcune manifestazioni popolari che nei mesi
precedenti si erano verificate anche in Arabia Saudita, proteste represse e spente
nel giro di poche settimane. Quell’esecuzione innescò l’assalto l’ambasciata
saudita a Teheran e da quel momento le relazioni diplomatiche fra i due Paesi
sono azzerate. E mentre anche il ministro degli Esteri Zarif faceva eco al suo
presidente e sottolineava come la stabilità regionale non può derivare solo dalle
alleanze, ma necessita della forza della popolazione, Rohani è sceso nell’area
energetica del Paese, la provincia del Kuzestan, per inaugurare un nuovo centro
di smistamento del traffico ferroviario. Lì giungerà la rete ad alta velocità
Teheran-Ahwaz, uno dei rami dei trasporti cui la leadership moderata ha puntato
per rilanciare alcuni settori dell’economia interna (preventivo di spesa 82
milioni di dollari). Nel primo giro presidenziale impostato a conferma degli
impegni economici del suo programma, è inserito anche una visita nei luoghi
dove passerà l’oleodotto del West Karoun (3 miliardi di dollari il preventivo) che
corre sul confine iracheno, zona insanguinata dalla guerra circa quarant’anni
fa. Alle immagini dei martiri che riempiono le città iraniane, fanno da
contraltare gli attuali progetti energetici: 2,5 miliardi l’oleodotto del Nord
Azadegan e altri investimenti riguardanti distribuzioni di elettricità in aree
decentrate. Devono confortare la fiducia dell’elettorato per sviluppo e lavoro
e consolidarne l’amichevole sostegno. Mentre agli avversari esteri possono fare
da monito proprio quei martiri, attorno a cui iraniani conservatori e
riformisti s’inchinano e s’uniscono.
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